Magazine Diario personale
RACCOLTA DIFFERENZIATA (21) - vecchi racconti inediti del Nick
Creato il 19 giugno 2011 da ZioscribaFraseggio
Erano quasi le otto del mattino. Era inverno. E soprattutto era domenica. L’acqua aveva cominciato a venir giù poco prima dell’alba, sferzata contro le tapparelle da un vento gelido e insistente. Nei tre palazzi gemelli della nuova periferia residenziale una luce soltanto era accesa, lassù al quinto piano della costruzione di destra. Una lucina arancione tenue tenue che vista da fuori e dal basso non squarciava il grigiopioggia neanche un po’. Era la cucina di Loffante, l’allenatore di basket.
Con movimenti felpati, per non svegliare moglie e bambini, Loffante si era alzato al momento dovuto senza bisogno di puntare la sveglia, aveva ciabattato fino in bagno, aveva pisciato e scorreggiato, e adesso era lì in cucina a prepararsi il caffè. Non pisciava più ma scorreggiava ancora. Solo un altro paio di colpetti. Assestamento, poca roba. Peto, ri-peto. Altro petino. Basta.
Accese la radiolina e la depose sul tavolo. Regolò il volume scendendo a patti col concetto d’infrasuono. Captò il segnale orario delle otto. Alzò leggermente. Per essere l’unico giorno in cui avrebbe potuto dormire a piacimento, era una bella levataccia. Adesso il volume andava bene.
La squadra di seconda divisione che allenava due sere la settimana si trovava a Cuviago, qualcosa più di quindici chilometri dalla città, e quel che era peggio aveva la pessima abitudine di disputare le partite casalinghe di domenica mattina. Loffante aveva accettato di diventarne allenatore dopo aver giochicchiato in varie altre squadre fin quasi a cinquant’anni. Si era lasciato convincere a causa del suo grande amore per quello sport, e per aiutare una società di buoni amici che, a volerla dire proprio tutta, difficilmente avrebbe trovato un tecnico vero. Era un uomo altissimo e massiccio, i baffi appena appena sgrigiti. Stazzava oltre il quintale, ma nessuno che non cercasse guai gli avrebbe dato del ciccione.
Spillò dal rubinetto l’acqua necessaria a lambire la vite interna della sua moka, facendo attenzione. Poi inserì il filtro, e tolse il coperchio di plastica dalla scatola del caffè macinato. Mise ogni cura a non sbagliare la dose, e assestò colpi rapidi e leggeri col taglio del cucchiaino per non pressare troppo la miscela, che spandeva tutt’attorno il suo profumo. Infine avvitò la caffettiera, le diede una stretta possente con quelle sue mani simili a tenaglie, e accese il più piccolo dei quattro fornelli.
Loffante non aveva neanche il patentino federale, ma in tutto il campionato di seconda divisione c’erano solo due arbitri – quel vecchio pignolo di Corcugliati e l’odioso Rizzuto Caporalo, figlio di non meglio precisato poliziotto – che gl’impedivano di sedersi in panchina e lo facevano accomodare in tribuna, oppure al tavolo dei cronometristi. Tutti gli altri chiudevano un occhio. Forse intimiditi da quei suoi capelli corti e ispidi da istrice incazzato.
Mentre aspettava il caffè, sistemò sul tavolo una tazzina con dentro una zolletta di zucchero, e si sedette a sfogliare un giornale, proprio mentre Petunia, che si era svegliata nonostante le sue precauzioni, entrava in cucina con una vestaglia viola chiaro e un’espressione tirata da mattina presto, due fessure al posto degli occhi, e andava subito ad armeggiare con la macchinetta per l’espresso, ben sapendo che Loffante non avrebbe tardato più di un minuto a magnificare l’aroma superiore del caffè fatto con la moka. Petunia aveva ventisei anni, la metà di quelli del marito, e poteva sembrare sua figlia.
Il giornale radio locale stava parlando di una tizia che era entrata in ascensore al decimo piano di un palazzo. La porta si era aperta e lei era entrata. Ma l’ascensore non c’era. Sfracellata. Una fine orrenda. La donna usciva dallo studio di una cartomante che predice il futuro.
La moka si mise a borbottare. Loffante la sollevò dal fornello e si versò il caffè, non prima di aver annusato con ostentato rapimento dei sensi, come nel peggio recitato degli spot pubblicitari, il vapore che usciva dal beccuccio.
«C’è più gusto in questa nuvoletta che in tutta la tua tazza» disse a Petunia, che stava già sorseggiando l’espresso veloce sbrodolato fuori dalla sua Gaggia.
Per tutta risposta la moglie si limitò a sfoderare un sorriso assonnato, a denti stretti e occhi più cisposi di prima, seguito da un impercettibile scuotimento di testa.
«Hai visto sul Piccione Sera di venerdì?» chiese Loffante, quand’ebbe finito la sua degustazione. «SECONDA DIVISIONE MASCHILE. IL CUVIAGO DI LOFFANTE BALZA AL QUARTO POSTO.»
«Sono soddisfazioni» commentò Petunia con un velo, appena un velo, d’ironia.
La pioggia frustata dal vento veniva giù di traverso e tamburellava sui vetri. Di cielo non ce n’era più per nessuno.
Loffante non staccava lo sguardo dal microscopico trafiletto di sport locale di quel giornale di provincia, comprato soltanto da giocatori dilettanti di calcio e pallacanestro in cerca del proprio cognome, il più delle volte scritto sbagliato, e da certe vecchine che controllavano i necrologi. Per i primi era “il Pìcius”, per le seconde “ür giurnaal”. Morire sul campo da giovane atleta avrebbe comportato doppia fama, da quelle parti. Loffante stava pensando di ritagliare quel titolo e incorniciarlo, magari dopo averlo fatto ingrandire almeno un po’.
Alla radio le previsioni meteo prefiguravano un peggioramento. Sembrava una burla. Peggiorare quel tempo da lupi. Anche se al peggio, persino lui lo sapeva, non c’è mai stato limite alcuno.
Ad ogni modo l’allenatore del Cuviago, imperterrito, continuava a godersi la notizia delle sue gesta. Guardava l’articoletto e annuiva. Guardava l’articoletto e gongolava. Guardava l’articoletto e si grattava la nuca.
«Ti chiamano Lo Bue.»
Nella cucina, arancionata dal paralume acquistato all’Ikea, si diffuse una ventata di gelo. Nemmeno Petunia sembrava in grado di spiegarsi perché avesse buttato lì quella frase. Non l’aveva fatto con cattiveria. Aveva piuttosto l’aria di una madre che cerca, a malincuore, di risvegliare un figlio da illusioni sbagliate.
«Chi» domandò il marito.
«Soprattutto quel Pedersoli. Credo si chiami così. Quello alto alto magro magro che non gioca quasi mai. Ma temo anche gli altri.»
«Lo Bue?» ripeté Loffante. Impietrito. Non gli sembrava possibile.
«L’ho sentito io. Con le mie orecchie. Era in tribuna che guardava la partita con dei suoi amici. Non lo avevi nemmeno convocato per la panchina. Era lì vicino a me. Sarà stato tre settimane fa, quella volta che ho portato i bambini a vederti. Non poteva immaginare, che sono tua moglie.»
«Se sapesse che ho una bella moglie di ventisei anni, forse mi troverebbe molto meno bue» cercò di metterla sul ridere. Ma il suo era il tono di un uomo deluso. Quello che si dice un duro, ma era bastata quella rivelazione per farlo star male. Sentì una fitta alla bocca dello stomaco.
«Pensare» aggiunse con amarezza, «che ho dato io l’okkèi per accettarlo in squadra, e viceversa. Ma tu, perché me lo dici solo adesso?»
«Non volevo che ne soffrissi» disse la moglie. «Poi ci ho ripensato. Tu ci metti troppo cuore, in questa cosa. È ora che tu apra bene gli occhi.»
«Quel magrolino del cazzo» disse. «Solo perché lo faccio giocare poco. Solo perché lo tormento un po’ per il suo bene quando sbaglia in allenamento e viceversa. Gliela farò pagare.»
«Non è solo lui, se è vero quello che diceva agli amici.»
Loffante spense la radiolina picchiandoci sopra una manata rabbiosa, che fece tremare la superficie del tavolo.
«Piano, i bambini» disse Petunia.
«Scusa» si ricompose l’allenatore Loffante di seconda divisione. «Dimmi che altro c’è».
«A sentire lui, tutti nello spogliatoio ti prendono in giro, tutti ridono alle tue spalle. Alcuni dicono che non capisci niente di basket. Altri che più che un allenatore sei un participio presente, ma questa non l’ho proprio capita.»
«Alcuni chi.»
«I fratelli Conigliaro, per esempio.»
«Quelle tre gatte morte.»
Loffante si alzò in piedi, a contemplare la pioggia attraverso la finestra. La sua caffettiera ancora calda lo guardava perplessa da sopra il ripiano del lavandino, e lui sembrava uno che si sta chiedendo se non sia il caso di tornarsene a letto. Tacque per un lungo minuto, poi:
«Che altro si dice» domandò.
«Dicono che sei andato a spiare una squadra avversaria, che è una cosa che a questi livelli non fa nessuno, e che l’hai fatto per darti importanza con te stesso. Dicono che dopo esserti sorbito cento chilometri tra andata e ritorno per spiarla, ne hai ricavato come unica osservazione che il play e l’ala “fanno un fraseggio”, e pare che questa cosa li abbia fatti scompisciare dalle risate, e che sia diventata la frase tormentone dello spogliatoio. Mentre raccontava di questo fraseggio, per poco Pedersoli non scoppia dal ridere. Era piegato in due. Gli faceva male la pancia.»
«Ci penso io a piegarli in due, martedì sera. Vai avanti.»
«Devo proprio?»
«Devi. A questo punto devi. Hai cominciato e ora devi finire. E viceversa.»
Petunia si alzò a sua volta, e si avvicinò al marito. Gli mise una mano su una spalla, come a scusarsi di ciò che stava facendo, ma anche un po’ per consolarlo. Poi arretrò di un passo per inquadrarlo meglio, e proseguì:
«Dice che chiedi cose che non stanno né in cielo né in terra, come, che ne so, stoppare con due mani invece che con una sola. Che non conosci uno schema di gioco che sia uno. Che fanno di proposito il contrario di quello che ordini durante i time out, perché altrimenti gli faresti perdere le partite… Sai che c’è? Non mi va che ti trattino così. Non mi piace. Non lo meriti. Con tutti i sacrifici che ti costa allenarli. Gratis. Rimettendoci i soldi della benzina. E le mattine di domenica. Le mattine di domenica insieme alla tua famiglia.»
Altro peggioramento in arrivo.
Barometro coniugale.
«Lo faccio per passione, lo sai» si giustificò Loffante, allargando le braccia.
Per la prima volta da quando lo conosceva, a Petunia sembrò d’intuire la presenza della traccia di una lacrima su quel faccione burbero. Ma doveva essere un inganno della luce, e delle gocce d’acqua fredda che si rincorrevano sul vetro.
«È ora che vada» disse l’allenatore Loffante di seconda divisione. Praticamente Serie Zeta. Lo aspettavano qualcosa più di quindici chilometri sotto la pioggia. E qualcosa meno di un’esperienza umana gratificante.
«Hey » sussurrò la moglie quando fu sulla soglia di casa: «Sii paziente, con quei ragazzi.» Gli diede un bacio, e poi se ne stette lì a guardarlo, finché tutto quel corpaccione non sparì oltre la prima rampa di scale. Sii molto paziente, ripeté col pensiero Petunia, richiudendo la porta. E viceversa, aggiunse poi a mezza voce. Ma subito si pentì di averlo detto.
C’era da preparare la colazione ai bambini, fra poco.
Di sotto la vestaglia viola chiaro, sommesso e lieve partì un peto.