Magazine Diario personale

RACCOLTA DIFFERENZIATA BIS - "Andar per rane"

Creato il 23 giugno 2012 da Zioscriba
ANDAR PER RANE
Nelle “camerette” (da 24) del Settimo 89, su alla Compagnia Comando e Servizi, terzo piano, si parlava animatamente di queste rane del Primo 90 che dovevano arrivare l’indomani dal CAR di Albenga – anzi dal BAR, come avevan pensato di ribattezzarlo certi cavrones privi di senso del ridicolo al Ministero della Difesa.
Le si attendeva al varco da settimane, le rane. Le si era sognate per mesi. L’indomani all’imbrunire sarebbero andati a prelevarle coi camion alla stazione. Ma la fornitura si prefigurava scarsa. Più scarsa del solito. Mooolto, più scarsa. Correva infatti l’allarmantissima voce d’un incremento pazzesco e inaspettato del ricorso all’obiezione di coscienza, per via di nuove leggi che facilitavano i furbini.
 «E se invece di trecento ce n’arrivano cencinquanta-dugento?» chiedeva uno dal suo letto a castello.
«Peggio per loro» rispondeva un altro. «Faranno doppi servizi. Doppie guardie doppie corvée cucina doppia ramazza doppio tutto. Schiatteranno, quelle rane di merda. Per quattro mesi se lo scordano proprio, di andare a casa. Manco coi trentasei. Manco coi permessini. A noi non ce ne deve fregare un cazzo, di quante sono. Noi la nostra parte l’abbiamo fatta, porcozio.»
«Minchia se l’abbiamo fatta», una terza voce.
«Ora si tira il fiato, dioboia», una quarta.
«Dite facile voi» una quinta in dissonanza. «Ma se arrivano du scamorze ci piomba nel buciaccio a noialtri. Quegli stronzi là del Quarto, loro sì se ne sbatteranno e andranno a frotte in licenza, ma noi siamo ancora operativi, e datemi retta a me, a noi ci conviene pregare che n’arrivano una bella squadra, di quelle rane, per alleggerirci la situazione.»
Era marzo, e discorrevano quei del Settimo di queste rane nella notte.
Sentivi solo voci, non vedevi facce, perché il Silenzio era suonato da un pezzo e le luci erano spente. La cosa strana di questo Silenzio è che spengono le luci ma non tace un cazzo di nessuno. Dovrebbero chiamarlo Oscuramento.
E dovevate sentirle, le camerate del Quarto in subbuglio: oillellé, oillallà, il Quarto vi saluta, il Quarto se ne va. Eccetera.
Atmosfere più cupe e nervosette di preoccupazione, lì al Settimo:
«Servizio incivile, ziocane.»
«Bocchinari.»
«Conosco uno che faceva l’obiettore in una biblioteca comunale.»
«Aspetta che indovino…»
«Un cazzo da mane a sera.»
«Ah! Che figlio di puttana.»
«E dormono tutti a casa.»
«Ah, come mi prudono le mani!»
«E guadagnano di più, capite, perché a noi ci trattengono la sbobba e la branda. Pure quello che non mangi la sera perché vai in pizzeria! Infatti quando sei in licenza guadagni di più! Pure pel culo ci prendono!»
«Mi cugino guida il pulmino de’ mongoli. Ma al paese nostro c’è ‘n mongolo solo, e va in giro al massimo per mezz’oretta du giorni la settimana.»
«Capito il furbiciattolo!»
«Frocio imboscato!»
«Figlio di troia!»
«Oh, piano con la mi zia.»
Mica tutti partecipavano, mica tutti dicevano la loro. Qualcuno ascoltava e basta. Qualcuno aveva il walkman o i cazzi suoi per la testa. Qualcuno cercava di dormire. Qualcuno scorreggiava. La camerata era da 24 e le filosofie esistenziali, capite, variavano.
La luna quasi piena era padrona incontrastata del cielo, ma quaggiù a Pavia era padrona la nebbia, così se alzavi lo sguardo fuori dal finestrone con la tapparella rotta intravedevi soltanto una specie di frittellina lattiginosa e smunta – il poco chiaror di luna spantegato attorno come una macchia assorbita male. Era meglio non alzarlo, lo sguardo, metteva solo tristezza. Di sopra la branda a castello conveniva tener le palpebre cucite. Qualsiasi cosa vedessi da lì – il cielo degli uomini liberi, le foglie scure del platano, la nebbia fottuta che cancellava sia cielo che platano, i muri rigati di crepe, gli zainetti tattici in cima agli armadietti grigi alti tre metri e stretti mezzo – qualsiasi cosa vedessi da lì ti metteva l’angoscia. E se di rane non ne arrivavano sul serio? Non sarebbe finita mai.
«Io invece ne conosco uno che l’hanno messo a pulire il culo a un vecchio, e glielo doveva pulire davvero anche sei sette volte al giorno.»
«Oi, e che cagone era?»
«Poi il vecchio ha smesso di cagare, e allora questo qui l’han mandato a impazzire dieci ore al giorno in una comunità di tossici, e c’impazziva davvero e talmente tanto che per poco non diventa tossico lui.»
«Ben gli sta.»
«Addamuripazzo, addamurì.»
«Ma com’è possibile?»
«Anche d’imboscati c’è due tipi, come in tutto, quei raccomandati e quei sfigati. Se non hai le conoscenze devi stare attentino, a fare il furbo, se no poi te lo poggiano in culo peggio che se non lo facevi.»
«Dovrebbe andargli a tutti così!»
«Quei finti obiettori. Quegl’imboscati de merda.»
«I non violenti che poi fanno a sprangate allo stadio, va là. Da vomitare, mi viene.»
«Già, vorrei averne uno per le mani, adesso.»
«Baionetta su pel culo, gl’infilerebbe.»
«Ü a-é aè hu öa!» disse minaccioso il bresciano. Quando parlava il bresciano si capiva mica un cazzo. Lo lasciarono dire.
«Però, peccato non averci avuto l’idea.» disse qualcun altro.
«Cosa?»
«Dico, se le cose stan così, potevamo farci furbi anche noi.»
«Certo, dovevamo pensarci pure noi. Quelli son tipi furbetti, son tipi giusti, altro che.»
«’Date a prendere baionette n’il culo, coppia di froci!»
Da qualche parte venne via un rutto.
«Prosit» disse una voce.
«Sòrreta» rispose un’altra. E via così.
La sera dopo aspettavano il rientro dei camion andati a ranare. Chi scendeva in cortile, chi s’affacciava ai finestroni, chi se ne sporgeva impaziente come in attesa di cibo. L’accoglienza per le rane era bell’e pronta. Sarebbero state urla e strepiti e battiti e rimbombi da farli cagar sotto, da farli piangere-tremare e invocare la mamma. Com’era stato prima per tutti.
Arrivarono in anticipo. Il cancello si spalancò, e la lunga colonna verdognola cominciò a riversare se stessa nel gran recipiente d’infelici in mimetica e anfibi. Gl’infelici derubati d’un anno dei migliori per esser nati col pisello invece che con la passerina e le tette. Per un anno prigionieri d’uno straccio di bandiera.
Lei la bandiera se ne sbatteva il cazzo: si lasciava tirar su la mattina e ammainare la sera, e ogni tanto portare in lavanderia dove ben lontana dal diventare pulita veniva sbiadita, veniva irlandese.
Arrivò in cortile il primo camion ed era vuoto. L’autista che era uno del Settimo batteva pugni sul volante, il sottufficiale al suo fianco bestemmiava incredulo fuori dal finestrino. Boiacane! Boiacane! Oh, bbboiaduncane! bestemmiava incredulo. Il secondo camion era vuoto. Il sottufficiale scuoteva il capo e mostrava le mani giunte, l’autista se ne sbatteva le palle anzi quasi ghignava, perché lui era del Quarto e stava per diventare un fantasma. Il terzo, vuoto. C’era su il capitano con le mani nei capelli anche s’era pelato pelato e con un porro sulla guancia, l’autista era del Settimo ma si dava un contegno per via della vicinanza del capitano frustrato che aspettava solo di punire qualcuno per sfogarsi, e probabilmente aveva l’alito cattivo. Sul quarto camion non c’era una rana a pagarla un miliardo. Anche il quinto e il sesto erano vuoti. Carburante sprecato. Turni di guida sprecati. All’autista del settimo camion (vuoto) avevano strappato una licenza già firmata perché un altro tizio aveva marcato visita e c’erano le rane da andare a prendere alla stazione. Gli uscivano madonne tritate dalle narici e dalle orecchie. Non avresti voluto essere nei panni delle poche eventuali rane nascoste negli ultimi camion. Aó, nun ce se ccrede, venite a vvedé cche rrobba! gridava al suo fianco il sottotenente Sbardella, esterrefatto come uno stronzo uscito di bocca cioè cagato contromano.
Dall’ottavo camion zomparono giù sei sette ranine. Nemmeno sembravano vere, e nessuno ebbe il coraggio di fischiare, di spaventarle, di gridar loro qualcosa. Silenzio spettrale. Un camposanto. Militare. Mancavano solo le croci. Il nono ne portava poche più – una dozzina.
Il decimo e ultimo era l’unico a pieno carico.
Le rane vennero fatte allineare silenziose nel cortile.
In tutto erano meno di 50. Neanche un sesto del previsto. E andavano ancora suddivise fra Terza Compagnia Pionieri, Compagnia Attrezzature Speciali, Compagnia Comando e Servizi.
Era una tragedia.
Quello di Brescia al terzo piano sbiascicò qualcosa d’irripetibile.

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