Magazine Diario personale
LA MANO DEL CAPORALE
C’è un caporale dell’esercito, altissimo e minaccioso nella sua divisa mimetica, in piedi con in mano una paletta da vigile all’inizio di un viadotto, sperduto nelle campagne dell’Oltrepò pavese. Non è lì per fermare nessuno. Deve solo segnalare di fare attenzione.
Gli automobilisti rallentano. Gli transitano davanti adagio adagio, gli sguardi interrogativi, la paura di essere fermati mescolata alla curiosa, fetida, sciacalla speranza che sia successo qualcosa di grave. Intimoriti non certo dalla divisa mimetica di caporale dell’esercito – altissimo – ma solo perché sulle prime temevano si trattasse d’un agguato di sbirri, un posto di blocco, un autovelox.
Il caporale si sente strano e fuori luogo. Fin dall’inizio della naja, per sopravvivere alla tortura, ha preso l’abitudine di estraniarsi, di guardarsi dal di fuori come fosse la propria controfigura, come recitasse in un film. Ma ormai non riesce nemmeno più a capire il senso del film.
Una parte di lui non nasconde di sentirsi importante, in divisa, statuario e imponente a spaventare gli automobilisti sul viadotto nelle praterie pavesi. Un’altra parte di lui ancora non si capacita di come diavolo ci sia arrivato, in quel posto e in quel tempo e in quel mondo spaventoso. Un’altra ancora, quella che forse non ha perso i contatti coi sogni dell’ultima notte, è indecisa se approfittare della situazione e buttarsi dal ponte, l’unico modo per dire “passo”, e fregarli tutti davvero. Un’altra ancora… sarà bene che vi avverta. Sono tante le fratture che dilaniano l’anima di questo smarrito ragazzo. Niente paura: non verrà, qui, dato conto di tutte. Resta solo da dire che in questo grigio e umido mattino pavese un’altra parte di caporale sperduto e perplesso è preoccupata del sopraggiungere di una camionetta verdognola, col Tenente Colonnello seduto accanto all’autista. Bisognerà salutarlo bene. Bisogna proprio concentrarsi, fare mente locale, e salutare per bene coi tempi giusti e i gesti marionettistici appropriati il Tenente Colonnello Martinelli, vice comandante di Battaglione, terzo bitigì gipì Lario, gipì sta per Genio Pionieri, ma quando in ufficio i polpastrelli del caporale battono per la centesima volta al giorno gipì sulla vecchia macchina da scrivere su all’Ufficio Addestramento una stupida associazione di idee gli fa sempre pensare Gran Premio. Comunque Martinelli è un bravuomo e il saluto va bene, e se non andava bene avrà fatto finta di non accorgersi.
La mano destra ancora accostata di taglio alla tempia, la paletta lasciata penzolare aderente alla gamba sinistra a sfiorare in una carezza di plastica il cuoio dell’anfibio, la schiena scossa da un brivido di freddo, un’ultima parte di caporale sta adesso riflettendo su questa frase, di cui ha dimenticato l’autore (Rilke, Heidegger, Jünger?): ma la poesia attiene all’essenza dell’uomo, non al suo bagaglio. Continua a essere il suo documento di identificazione, il suo segno distintivo, la sua parola d’ordine.
Sapessero da subito il poveraccio che è, sapessero che si trova lì solo per via di un’esercitazione di pionieri che fingeranno di far saltare il viadotto con gli esplosivi giocattolo, probabilmente gli automobilisti gli sfreccerebbero vicini a centoventi all’ora, si farebbero beffe di lui.
Un altro po’ di grappa poppata via dalla bottiglietta mignon, un’altra mattonella di cioccolato fondente. Le “razioni di conforto” sono davvero il solo conforto all’esistere.
Il caporale non ha ancora ben capito perché abbiano aggregato proprio lui, che non fa parte della Compagnia Pionieri, a quell’orribile scampagnata. Forse perché ci sono di mezzo anche i famosi cartelloni, allestiti nel loro ufficio in nome e per conto e al posto del tenente Monopalla – al monopallide eroe piace moltissimo delegare, soprattutto a chi è di leva e non può dire di no. Allora il caporale sarebbe lì come rappresentante della Sezione, e forse dovrebbe anche considerarlo un onore, fatto sta che il sergente maggiore Cristaldi l’ha fatto salire sul camion che trasportava il fragile e inutile materiale scenografico, di fianco al conducente, e ha fatto in modo di farsi sentir bene da costui mentre, ammiccando, lo istruiva: «Se corre troppo, ficcalo dentro!»
Quel povero cristo, una rana arrivata da poco, s’era spaventato davvero e aveva guidato da cagato addosso, aveva scarrozzato caporale, cavalletti e cartelloni a passo d’uomo, facendosela sotto a ogni sobbalzo, a ogni rattoppo dell’asfalto, come ne fosse responsabile di suo.
I pionieri stanno adesso fingendo di disporre un campo minato. È incredibile, ma veramente incredibile, quanto siano presi dalla cosa. Disporre le mine non è azione che questi cinghiali facciano con malinconia o ritrosia, pensando a una felice licenza o a una rorida figa o a una soffice branda. No. Tra le fila scorrono elettricità ed esaltazione, l’impegno è spasmodico e ligio, nei loro occhi la lucida determinazione a immaginare quelle mine vere, a sperare, anche solo per un po’, che vi s’imbattano bassi ventri di odiati nemici, o chissà, gambettine di bambini curiosi, purché con cognomi diversi dai loro.
Di solito campioni di svaccamento e sbragamento e ammutinamento spicciolo da caserma, questi cinghiali sono tutti presi dall’eccitazione del wargame, sembrano adesso sentire l’odore di sangue della guerra vera venir su dalle erbe umidicce, dai prati gibbosi, dagli arbusti rattrappiti, sono tutti in fermento, le pupille dilatate, le labbra umettate di schiuma. Siamo nel 1990, e pochi mesi dopo il caporale ritroverà quelle espressioni sui volti dei top gun inglesi che bombarderanno l’Iraq, veri e propri Hooligans con la licenza, finalmente, di uccidere. Feccia umana elevata al rango di eroe, pronta a vantarsi, dentro un microfono cnn, di voler uccidere più bambini iracheni possibili. Monopalla li osserva. Si aggira tra i suoi aspiranti eroi e assassini, fingendo di impartire ordini, ma anche lui starà pensando che cazzo ci sto a fare, che cazzo sto facendo per guadagnarmi da vivere, avevo due coglioni e uno l’ho lasciato al poligono delle bombe a mano per colpa di un coglione di soldato, fortuna che la carica ridotta è lo stesso di un petardo, ma i coglioni, porèlli, sono tanto tanto delicati.
Poco più in là, il caporale è insieme a un paio di sottotenenti del Battaglione (la paletta da vigile l’ha riconsegnata a uno di loro) davanti alla Tenda Comando, in prossimità della quale sono stati esposti, montati sui cavalletti di legno, i coloratissimi cartelloni esplicativi, che oltre a indicare le strategie della battaglia immaginaria e l’entità delle immaginarie forze in campo, sono lì per spiegarci, nella parte prettamente geografica, che in realtà non si sta giocherellando a un macabro gioco in un praticello nei dintorni di Pavia, ma si sta preparando un ormai anacronistico sbarramento antisovietico nelle vicinanze di qualche fatidico fiume del nord-est, il Tagliamento, lo Smarronamento, il Piave Mormorava o Addampazzì.
A un tratto ecco farsi avanti, circondato da una corte di tenenti e tenentini, un baldanzoso scrofone con tre stelle su ogni spallina. Gente estranea. Mai vista prima. Craxiforme e grugnomunìto, lo scrofo è un semplice capitano, ma gli sono già compagne la boria e l’insolenza dell’inutile generale da salotto che un giorno diverrà. Più insolente e più arrogante di lui, nei dintorni, c’è soltanto il sigarone – cubano, ovviamente – che fuma. Tutte quelle stelle su tutto quel maiale ti fanno venire in mente la pubblicità del salame Negroni. Un pensiero da scacciare. Potrebbe farti scoppiare in risate irrefrenabili. Potrebbe essere la tua rovina. Comunque, ti dici, gente così potrà anche dimagrire, ma resteranno sempre dei palloni gonfiati, dei cicciottelli mentali.
L’arcivescovo stringe giovialmente la mano ai nostri due sottotenenti, mentre i suoi, come un codazzo di comari, si mettono a guardare i tabelloni ridacchiando fra loro, neanche quella roba l’avesse disegnata Jacovitti, pensa il caporale, e non i miseri schiavi suoi colleghi dell’Ufficio Addestramento. Poi, dandosi il caso che lì davanti alla stupida tenda ci sia anche una terza figura alta e imponente, ecco sua eccellenza stringere la mano anche a quest’ultimo soldato. Il caporale a questo punto è confuso. Forse l’aveva giudicato male dall’apparenza, lo scrofone con sigaro, era stato giudice superficiale e frettoloso, non è da tutti gli ufficiali dare la mano così gentilmente a uno della truppa senza farsi problemi. Lo stordimento dura giusto tre secondi, il tempo che impiega lo scrofone a mettere a fuoco i suoi gradi, gli striminziti gradi del graduato di leva – o forse sono le comari, fra lazzi e sghignazzi, a fargli notare che non si trattava di un terzo onorevole sottotenente?
Adesso lo scrofoide sembra uno che voglia tagliarsi via l’avambraccio con l’accetta, o purificarsi la mano destra con l’acido muriatico, insomma la sua faccia è imbarazzata e incredula e schifata e contrariata come non mai. Si guarda intorno smarrito, si osserva le dita.
«Ho dato la mano al caporale! Cazzo, la mano al caporale!» ripete sbigottito, come se avesse assaggiato merda credendola cioccolato. «Ho dato la mano al caporale» ripete, e per fortuna c’è anche del divertimento e dell’autoironia nella sua voce, perché il caporale stava già temendo di poter essere punito, o fucilato sul posto, per aver avuto, lui, l’ardire di stringere lo zampone stellato, invece di genuflettersi e baciare l’anello.
E non crediate. Non crediate che se avesse saputo d’aver dato la mano non al milite ignobile ignoto, ma a un poeta sull’orlo del suicidio, indeciso se protrarre ancora a lungo la sua sofferta permanenza in un mondo senz’anima che affama i poeti e infama la poesia, non crediate che la sua reazione sarebbe cambiata.
Anzi sì.
Certo, che sarebbe cambiata.
Avrebbe avuto ancora più schifo.
«Ho dato la mano al caporale» continuava a ripetere, sconvolto. «Signori, avete visto cos’ho fatto? Ho stretto la mano al caporale!»
Non finiva più.
Non finiva mai.
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