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Che io ami le storie tristi e che prevedano la morte di un protagonista lo abbiamo appurato già da un po’. Ciò che va aggiunto è che c’è storia e storia. Non posso accontentarmi “solo” di una storia triste e della morte di un protagonista.
Sì, lo so che non mi va mai bene nulla ma che ci posso fare se ho dei gusti difficili?“Raccontami di un giorno perfetto” di Jennifer Niven su carta aveva tutte le caratteristiche per essere un libro che avrei potuto apprezzare, però come avrete ben capito, c’è un “ma”.Questa “ma” è grande come una casa e mi dispiace anche un po’ motivarlo, perché le intenzioni della Niven erano ottime, ma un tema come il suicidio in età adolescenziale forse andrebbe trattato con più intensità e approfondimento psicologico altrimenti sarebbe meglio lasciar perdere. Mi sento in colpa a recensire negativamente questo libro perché leggendo i “ringraziamenti” epilogativi si evincono le esperienze dolorose che hanno portato l’autrice a prendere carta e penna. Personalmente ho trovato molto più emozionanti quella manciata di pagine del romanzo intero, perché si percepivano sensazioni autentiche, il dolore della perdita e il tormento di chi rimane. Forse è proprio questo il nocciolo della questione, se avesse scritto un romanzo sul suicidio visto dagli occhi di chi rimane e ignora i meccanismi che hanno spinto la persona cara ad un gesto così estremo forse il risultato sarebbe stato migliore.
Ci troviamo, invece, nei panni di due giovani liceali sconosciuti tra loro che, in puro stile Nick Hornby, si ritrovano sul tetto dell’edificio scolastico pronti a saltar giù ma la cui reciproca presenza li fa desistere dal compiere il gesto insano. Fino qui tutto bene, il prosieguo, invece, lascia molto a desiderare. Tralasciando il PoV alternato che, come ho già detto in più occasioni, non amo molto, ciò che deturpa il testo è l’assenza della caratterizzazione dei personaggi che risultano sconosciuti al lettore fino all’ultima pagina. Ritengo che l’impronta psicologica di un personaggio sia imprescindibile per rendere il rapporto lettore-protagonista epidermico, qua invece abbiamo due protagonisti, Theodore e Violet, che agiscono solo per la chiara volontà dell’autrice di indirizzarli in un modo piuttosto che in un altro. La narrazione scorre veloce e leggera anche quando si toccano argomenti delicati, sembra quasi come se si avesse paura di affrontare questa tematica, e la si aggiri semplicemente. Posso capire che possa essere una scelta quella di essere delicati nell’approcciarsi al tema della morte autoinflitta, considerando anche il target a cui è rivolto questo libro, ma andandolo solo ad accarezzare si rischia di svilirne la drammaticità.
Concretamente questa narrazione non ci dice nulla, ci racconta di una storia d’amore adolescenziale farcita di gesti e parole canoniche su cui fiata l’indomabile Thanatos, sia attraverso esperienze passate, l’incidente automobilistico in cui ha perso la vita la sorella di Violet, diventato oramai un clichè della letteratura YA, che per i tormenti presenti dei due ragazzi, la depressione che ha colpito entrambi, nonostante li porti a considerare l’opzione del suicidio, è comunque impalpabile e poco definita. Niente da dire sullo stile narrativo, il libro si legge bene e in fretta ma giunti al termine lascia l’amaro in bocca, non per il tragico finale ma per il percorso che ha portato a questa fine. Non ci si può commuovere solo perché uno dei protagonisti si è tolto la vita, a mio avviso sarebbe stato più commovente una narrazione più incentrata sul tormento e la confusione mentale senza dover giungere necessariamente all’esplicitazione del gesto disperato, anche solo un accenno o un finale aperto avrebbe smosso di più gli animi dei lettori, o per lo meno la mia.
A voi è piaciuto, invece, questo romanzo? Mi consigliate un altro libro sulla stessa tematica, ma più intenso? Ditemi tutto con un commento qui sotto!