Sento il bisogno di dire qualcosa di poetico e solenne, ma l’unica cosa che mi esce di bocca è: «È incantevole».
«“Incantevole” è una parola incantevole che andrebbe usata più spesso.» Si china a coprirmi un piede che è sbucato fuori da sotto la coperta. «È come se appartenesse a noi due soli» dice.
Sulle prime penso che si riferisca alla parola, ma poi capisco che intende la città. E allora penso: Ecco. Theodore Finch sa sempre cosa dire, molto più di me. Dovrebbe essere lui lo scrittore, non io. Per un istante provo invidia per il suo cervello. In questo momento il mio mi sembra così ordinario.
«Il problema è che la gente dimentica che la maggior parte delle volte sono le piccole cose a contare. Sono tutti occupati ad aspettarsi chissà che. Saremmo tutti più felici se ci fermassimo un attimo per ricordare a noi stessi che esistono cose come la Purina Tower, e una vista come questa.»
“Raccontami di un giorno perfetto” è la traduzione italiana del romanzo young adult di Jennifer Niven, All the Bright Places. Tradotto in 34 paesi, i cui diritti cinematografici sono già stati venduti, ha avuto un successo spaventoso. La De Agostini lo ha portato in Italia il 31 marzo e vi posso assicurare che si tratta di una lettura intensa, incredibilmente dolce-amara e allo stesso tempo piena di speranza. Un libro che mi ha sorpreso, incantata e tenuta incollata alle pagine, anche quando sapevo come sarebbe andata a finire.
È una gelida mattina d’inverno quella in cui Theodore Finch decide di salire sul tetto della scuola solo per capire che cosa si prova a guardare di sotto. L’ultima cosa che si aspetta però è di trovare qualcun altro lassù, in bilico sul cornicione. Men che meno Violet Markey, una delle ragazze più popolari del liceo. Eppure Finch e Violet si somigliano più di quanto possano immaginare. Sono due animi fragili: lui lotta da anni con la depressione, lei ha visto morire la sorella in un terribile incidente d’auto. È in quel preciso istante che i due ragazzi iniziano a provare la vertigine che li legherà nei mesi successivi. Una vertigine che per lei potrebbe essere un nuovo inizio, e per lui l’inizio della fine…
Probabilmente se non lo avessi ricevuto in anteprima e non avessi avuto l’occasione di incontrare e abbracciare dal vivo Jennifer Niven non avrei mai letto questo libro. E sarebbe stato davvero un peccato. Ci sono alcuni libri che partono in sordina e che poi si rivelano delle piccole gemme nascoste. Penso che la Niven abbia trovato il giusto compromesso tra la durezza dell’argomento trattato, di certo non facile e non banale, e l’acutezza di un libro per ragazzi. Il suo intento, quello di ricordare a tutti che non siamo soli, che possiamo trovare i nostri “posti felici” nelle persone o nei luoghi, e che in definitiva la speranza è davvero l’ultima a morire. Certo, adoro leggere storie profondamente emozionali, anche quando queste storie mi sono anche troppo vicine rispetto alla mia esperienza personale, ed è per questo che inizialmente non sono riuscita ad entrare pienamente nella storia. Ma la Niven incanta, quando meno te lo aspetti ti colpisce alle spalle, e diventa difficile rinunciare alla sua prosa diretta e pulita, ai suoi personaggi vividi ed esplosivi.
La storia, viene raccontata alternando il punto di vista di Violet e Finch in un crescendo di onestà e dolore, due ragazzi apparentemente molto diversi, accumunati dal desiderio di scappare, di eludere una vita che sembra troppo complicata. E se Violet cerca di superare la perdita della morte della sorella e le conseguenze dei sensi di colpa, Finch è un ramo alla deriva nel fiume della sua adolescenza, mascherando il suo senso di impotenza nell’effimera certezza che rivoluzionandosi periodicamente potrebbe riuscire a salvarsi. Violet cataloga la sua vita nei giorni che mancano al diploma, come se uscire dal liceo sia un modo per uscire dalle sue paure e dal suo dolore. In fondo la sua vita è profondamente cambiata, non le interessano più i sottili fili che muovono la vita sociale dell’high school e che l’hanno vista sempre protagonista in primo piano, non le interessano più le vicende dei suoi vecchi amici. Anche la sua passione più grande, la scrittura, diventa un ostacolo, piuttosto che una valvola di sfogo. Tutto perde di significato, e nonostante Violet sia una ragazza intelligente e di spirito usa la scusa delle “circostanze attenuanti” per desensibilizzarsi nei confronti del mondo che la circonda.
Finch invece è un pendolo che oscilla tra sonno e iperattività, tra irrequietezza e incoscienza, il fenomeno, il buffone, il trasformista. Soffre, ma non riesce a mettere a fuoco il motivo di tanta ostilità e insofferenza. E allora cambia look, si inventa particolari modi per mettersi in mostra, spera di trovare un modo per salvarsi. Il progetto di Geografia allora diventa un modo per mettersi in mostra due volte e entrare nella sfera personale di Violet, la ragazza che ha trovato sul tetto della scuola e lo ha sconvolto due volte. Entrare in contatto con lei è un nuovo modo per sfidarsi, per cercare di rimanere ancorato alla vita, ma inevitabilmente non è abbastanza. Con la sua filosofia, le sue trovate estemporanee, i suoi accenni violenti, e quelli più straordinari e imprevedibili, Finch emerge dalla pagina per combattere contro la solidità di una vita in fuga. Ma poi effettivamente è come vedere Don Chisciotte che combatte contro i mulini al vento. Dove in questo caso sono rappresentati dalla società e dai compagni di scuola e dalla famiglia.
Se si dovesse pensare solo ai comprimari che appaiono in questa storia, allora di certo la situazione cambierebbe di gran lunga. I familiari di Finch sono delle macchiette, interessate ai loro tornaconti personali e incapaci di guardare oltre i propri paraocchi. Certo, come si fa ad ignorare il disagio emotivo di un diciassettenne? Come si resta impotenti di fronte alla sconfitta di una famiglia che non esiste? D’altronde Finch è spaventosamente solo, e questa solitudine che ha incredibili ripercussioni sul suo stato psicofisico, è uno dei motivi principali che gettano nello sfacelo. Il menefreghismo è evidente e fa male, forse più di tante altre menzioni. Ma purtroppo è più diffuso di quello che sembri. D’altronde è vero che se non vuoi farti aiutare, nessuno può avvicinarsi a te. L’estremo entusiasmo di Finch, lo rendono lontano e inaccessibile. La romance, luminosa, con Violet, è come una stella cadente che rischiara il cielo per pochi attimi. Intorno, giace la sconfitta di una comunità, incapace di vedere e comprendere quello che accadeva di fronte ai loro occhi. Il messaggio che la Niven vuole portare al lettore, e che non si è soli, che basta trovare la spinta per aprirsi e cercare aiuto. Ma soprattutto quello che le preme è convincersi che le piccole cose contano, che ogni piccolo gesto è importante, che anche nel posto più oscuro c’è una luce.
L’ambientazione è ricchissima, e racchiude il luogo in cui la scrittrice ha vissuto e che più ha odiato: l’Indiana. La stessa Indiana che diventa protagonista, che emerge con i suoi luoghi più insoliti e speciali, tutti esistenti, tranne uno, e che sconvolgono Violet, che volente o nolente si ritrova a risvegliarsi dal suo senso di smarrimento e a percorrerli con la certezza che davvero c’è speranza.
Il particolare da non dimenticare? Una mappa…
L’inizio non particolarmente brillante, conduce ad una storia che racconta i drammi di due adolescenti dei nostri giorni, persi nell’immobilità della loro psiche, che si incontra e scontrano per trovare l’epilogo di un momento di stallo per entrambi. Dolceamaro, doloroso come un pugno in pieno petto, è un grido di dolore e di speranza, per tutti coloro che vedono il buio intorno a sé. Un libro per chi è sopravvissuto, e non siamo un po’ tutti dei sopravvissuti?
Forse sono stata condizionata nel giudizio dall’aver incontrato viso a viso la Niven, ma sentire raccontare dalle sue labbra, la sua storia, mi ha sconvolto e mi ha lasciato a sedimentare questo libro nel mio cuore.
Buona lettura guys!