Ridendo e scherzando, Cialledda si era fatto venticinque anni di galera per un delitto che non aveva commesso.
La carriera di Cialledda era appunto cominciata venticinque anni prima, un periodo in cui ancora non sapeva di possedere mente criminale, raffinata intelligenza, predisposizione all’assassinio ed al farla franca. Poco dopo però, fior fior di psichiatri, giudici, avvocati, professori nonché i suoi amici e parenti tutti, glielo provarono e giurarono tanto che Cialledda non poté fare a meno di accettare la realtà dei fatti - quindi – ringraziare le care persone che gli impedivano di far del male a se stesso ed al prossimo. Il cappellano del carcere poi, gli spiegò che questo era o poteva essere ammirevole e nonostante tutto la prova che anche lui, Cialledda, la belva, era figlio di Dio.
Gli spiacque anzi, quando l’ordine di scarcerazione annunciò che il debito di Cialledda con la giustizia, era ormai onorato. Ma tutti e due erano contenti, molto contenti.
Una assistente sociale, ormai non più giovanissima lo aspettava all’uscita: gli disse di conoscere tutti i particolari del suo caso e che avrebbe fatto il possibile per aiutarlo.
Cialledda la scopò sulla strada che portava al suo paese, nella macchina di servizio che sempre il nome del paese aveva sulle portiere ed ogni tanto si fermava a raccontarle dei particolari della vita in carcere (che non aveva fatto), della mensa (dove non aveva mangiato), dell’officina (che non sapeva nemmeno dove e se ci fosse), delle sporadiche visite di sua madre. Lei, commossa, gli rimontava sopra e continuò così fino a quando il suo cellulare – sempre pagato dal paese che etc. – squillò ed una voce troppo alta e troppo preoccupata, chiese spiegazioni del ritardo.
Lei si ricompose, riprese a dar del lei a Cialledda e ripartì non pestando l’acceleratore come una forsennata.
Cialledda, già contento, adesso lo era ancora di più.
Sbarcato a casa di sua madre, l’accoglienza fu affettuosa, ma breve, come si fosse allontanato così, senza troppo impegno, solo un paio di giorni prima. Comunque non gli fece impressione perché, pensava, non doveva essere tanto facile da sopportare uno come lui sotto lo stesso tetto, ma la mamma è la mamma e vaffanculo che era stata la prima convinta… straceeerta della sua colpevolezza… Ma se persino la madre… di quel…
Sua sorella sbucò da uno dai meandri della casa e gli si fece incontro e lo abbracciò e lo baciò a lungo sulle guance e sulla fronte: apprese quindi del suo (di lei) imminente quanto insperato (con un fratello simile!) ed incredibilmente fortunato matrimonio; mille mille lacrime e scuse per non avergli mai fatto visita (perché fidanzata – perché, contro la sua volontà, già compromessa) poi ancora baci e abbracci e la notizia di un pranzo dignitoso e abbondante per il suo ritorno, non in suo onore ovviamente, per decenza, non bisognava dirsi in suo onore.
Sua madre aveva già ripreso le attività quotidiane scopa e paletta in mano, sua sorella sparì di nuovo in una delle sua caverne per riaffiorare con una tovaglia ricamata nuova nuova, mai usata. La madre la guardò fra l’interrogativo ed il seccato.
Cialledda erano già venti o trenta secondi che fissava la foto di suo padre grande ed in grandiosa e bella vista sul mobile lungo lungo della sala da pranzo. Punto strategico per essere scorta da ogni angolo della casa.
La madre se ne accorse. Cambiò zona di operazioni e probabilmente scelse quella più lontana dalle meditazioni di Cialledda.
Suo padre nella foto: una faccia da bianco e nero in una foto a colori, nessuna espressione significativa, lo sguardo assente e puntato nella macchina fotografica mentre, la mente, considerava il fotografo e tutta la sua famiglia bastarda. Allo steso modo il fotografo ripercorreva attraverso l’obbiettivo tutta l’epopea che dalla scimmia aveva condotto all’evoluzione del figlio di puttana e poi infine lì, alle rughe scavate dal freddo delle quattro mattutine del suo cliente.
Cialledda era affascinato dalle suissime proprie intuizioni ipsissime e fra le alte cose, c’erano da considerare la verità in assoluto - e l’essere questa una espressione da prete rendeva più facile impararla – e la verità secondo Cialledda che, autonominandosi, autochiamandosi ed autodefinendosi con il soprannome, tanto da stupirsi dei documenti che riportavano il nome di battesimo – meno protagonistico nome di battesimo – la verità secondo Cialledda andava coincidendo con quella del prete in un modo inquietante ed anche questo – dato il tempo, dato il carcere – illegale.
Nella sala da pranzo, nella stanza buona, Cialledda si alzò per guardarsi nello specchio grande di casa, che sua madre aveva avuto in dono di nozze. Specchio quasi suo coetaneo che pure, nonostante pulizia e attenzioni, i suoi anni se li portava male. Cialledda l’avevano rinchiuso a venticinque anni per l’omicidio di quattro persone, fra cui suo padre. L’ambiente (può andare), la miseria (ma quale?), le prepotenze (e sì che prima o poi l’avrei fatto io, ma in quel caso non ero io) e tutti i piagnistei sulla sua presunta debolezza mentale dato che non solo non si proclamava innocente, ma era palesemente sconvolto dal fatto (anche se, belva, mostro, assassino e e e e c’era di molto peggio al bar della piazza), gli erano state concesse le attenuanti. In conclusione venticinque anni e quattro mesi. 25 più 25 cinquanta – più quattro mesi.
Un uomo cinquantenne che per fortuna aveva fatto in tempo a perdere la verginità.
Cannone – Onofrio Caringella detto – lui che era il colpevole – il giorno del fatto aveva settantadue anni, contadino coriaceo che fra amicizie e mezzi mafiosi come lui aveva buttato Cialledda, lo scemo, in galera. E poi il metro quasi e mezzo (1,25 metri) oggetto della controversia, era davvero parte del suo campo e anzi secondo la logica paesana cattolica, era anche troppo non aver fatto fuori pure il ragazzo. Adesso Cannone era morto, tutti i protagonisti erano morti tranne ovviamente uno paralitico, incontinente e fra i meno importanti. Cialledda invece era vivo e Cannone meritava che gli si offrisse un caffè od una cena per ringraziarlo: vivo e gli anni li buttava lo specchio e non lui.
Sua sorella gli apparì alle spalle, sempre nello specchio, si guardarono – da lì Cialledda capì che per lei, il carcere era come una specie di frigorifero. Lui, almeno, si era conservato bene, non era invecchiato. Cialledda alitò sullo specchio, nel petto qualcosa si spappolò come una arancia schiacciata e tutte le vene e le arterie si tesero insieme come elastici – succedeva sempre ogni volta che ci provava – comunque una porzione del vetro si appannò impercettibilmente, Cialledda si fece forza, si trattenne dall’accasciarsi - ogni volta che ci provava – rimase in piedi puntando le mani al muro – ogni volta che provava a respirare.
Ancora La Verità e la verità di Cialledda, un bel rosso, robusto, pelle liscia e giovane.
Uscì, si diresse verso la campagna – aveva bisogno di restare solo e pensare. Altra cosa che aveva imparato a fare dentro, quando non si muoveva dalla sua branda per mesi; non mangiava e stava bene, non beveva e stava bene, non andava di corpo non pisciava non dormiva e sempre stava bene. E si accorse dell’odore del buio e del sapore della luce.
Verso il quinto anno di reclusione, per la prima volta in vita sua, Cialledda pensò intenzionalmente a Dio e si impiccò.
Accadde di mattina presto, ormai, in culo alla prassi (ma che stiamo all’America? pensò), lo tenevano lì in cella senza pensarci troppo e stette a penzolare per quattro o cinque ore con lo sguardo fisso sul pavimento. I primi due minuti, mentre non opponeva resistenza, le lenzuola legate fra loro facevano male attorno al collo – laceravano la carne, stringevano, segavano e così via – ancora due minuti e Cialledda soffocò- docilmente si lasciò soffocare – accennò un sorriso – ma le lenzuola continuavano a stringere, lacerare, fare male.
Ma non gli andava di tirarsi giù lo stesso.
Lo fecero – di vivo è vivo, è vivo, lo scemo è vivo – i suoi compagni di cella e lo portarono in infermeria – aveva sempre lo sguardo basso – stava decidendo – se chiudere gli occhi o meno.
Prima che lo rimettessero al suo posto disse solo “Mi fa male quando respiro” grazie al cazzo pensarono tutti e la mattina dopo – la mattina dopo che Cialledda ricorda – erano passati venticinque anni quattro mesi due giorni sei ore otto minuti e dodici secondi – aveva ancora sane erezioni – l’assistente sociale lo ammise- sua madre aveva cucinato – la sorella appariva e spariva – Cannone era morto – Cialledda si guardava allo specchio e girava per la campagna a fare finta di respirare l’aria di campagna.
Il figlio di Cannone, pure lui era vivo e vegeto. Vide Cialledda, Cialledda vide lui ed un paio di volte su dieci i figli sono diversi dai padri ed è bene che sia così. Poi però bisogna vedere in che percentuale ed in che senso. Nel figlio in questione questi dati si aggiravano su un trenta per cento abbondante ed in molto molto, ma molto peggio. Quindi non si salutarono, non si fermarono e si dimenticarono fino al prossimo incontro occasionale.
In mattinata era l’appuntamento con l’assistente sociale e Cialledda ci andò senza mutande: lei lo sistemò per bene e poi lo sistemò come bidello in una scuola, cominciava il giorno dopo e quindi aveva solo poche ore ancora da ex carcerato disoccupato, da godersi in malumore prima del malumore da lavoratore su cui aveva forti dubbi, in particolare sulla potenza di tenere la mente occupata.
Alle undici 26 minuti 34 secondi si inerpicò per le strade sopraelevate del paese vecchio, un misto di scale, ponteggi, assi male in arnese coperte di cemento, scivoli di pietra incatramati o asfaltati che costituivano una specie di paese segreto e in cui eri costretto a passare attraverso i monolocali o le stanze o i sottoscala o gli appartamenti blindati di chi abitava da quelle parti. Buongiorno permesso buongiorno permesso; per fortuna essersi fatto venticinque anni oltre ad una certa notorietà gli assicuravano un certo rispetto e quindi non ebbe problemi.
Alle dodici 47 minuti 19 secondi uscì da tutt’altra parte rispetto a quella da cui era entrato e si avviò verso casa in preda ai suoi pensieri. Per comodità ripensava in Italiano alla conversazione che aveva avuto con coma’ Lisetta circa la propria natura e gli avvenimenti degli ultimi anni. Era arrivato sicuro di trovarla ed infatti era lì di spalle all’ingresso con i capelli bianchi sciolti, lunghissimi, un cuscino sul pavimento impediva che toccassero direttamente per terra. La bambina che la pettinava gli aveva disposti in cerchi concentrici perché ci stessero tutti. Di bambine Cialledda ne aveva viste a bizzeffe lì dentro fra nipoti pronipoti e giù di lì, sempre intente allo stesso mestiere, ogni volta una diversa e non le aveva mai viste da grandi. Disse buongiorno e coma’ Lisetta riconobbe la voce, si voltò con in suoi occhi bianchi, ciechi, tendendogli le mani. Figlio mio quanto tempo fatti dare un bacio siediti, siediti. Coma’ Lisetta aveva sempre la pelle liscia e quel buon profumo di mamma che nemmeno la madre di Cialledda aveva mai avuto, sul tavolino accanto a lei sempre le carte napoletane, lo stesso mazzo, consunto dagli anni.
“La nonna… mi sono stancato.”
“Figlio mio, ma tu non respiri!”
E si erano detti un po’ di cose. Per l’ esattezza le aveva dette coma’ Lisetta dando forma a molti dei sospetti di Cialledda.
Alle tredici 10 minuti e 46 secondi Cialledda fermò il custode del cimitero che stava chiudendo il grosso cancello nero, no non si può entrare, aspetta il pomeriggio.
Dalle tredici 30 minuti e 02 secondi alle quindici 15 minuti 01 secondi, Cialledda sedette sul gradino all’ingresso di casa sua fumando ogni tanto una sigaretta, prendendole dal pacchetto che aveva comprato alle tredici 22 minuti e 22 secondi. Per fortuna se si trattava di fumo, la cosa era ancora fattibile.
Poi, finalmente entrava nel cimitero e fermava dinanzi al loculo di suo padre, lo sparato. Il custode guardava e commentava fra sé e sé da lontano.
Dalla nonna aveva anche saputo come aveva fatto sua madre a campare dopo la morte del marito, a mantenere le terre e tutto il resto. Ci aveva pensato Cannone ovviamente – ed aveva scoperto anche chi si sarebbe sposato sua sorella. Il figlio di Cannone ormai Cannone in carica.
Erano solo dettagli, ma era bene che non li scoprisse all’ultimo momento e non lo disturbavano affatto, ritenendo Cialledda un bene, essere coglioni come tutti sostenevano che fosse.
E stette lì buona parte del pomeriggio e di tutta la serata fino alla chiusura quando il custode gli urlò dalla parte opposta del camposanto di darsi una mossa perché lui non aveva mamma a cucinare e la giornata alla spasso come Cialledda – egli – l’assassino – e che tanto suo padre l’aveva sistemato così bene che non scappava di certo. Da qui la chiamata a distanza e la zappetta per le aiuole a portata di mano. Tutti i fatti di Cialledda erano noti al custode, alle vecchie che cambiavano l’acqua dei fiori, a quelle che toglievano le foglie secche, lavavano le lapidi o il vetro del portafoto dei loculi. Tutte le vecchie quel giorno rinvigorite dal parlare di Cialledda come principio, come esempio, insegnamento ai nipoti e pure ai vecchi che sono ancora qui. Ma statevene a morire e basta!
Cialledda se ne tornò a casa che tutte le stanze davano di fritto, mangiò quello che doveva mangiare, disse a sua sorella dove era stato e lei per tutta risposta si affrettò a cenare e ad infilarsi nella doccia per vestirsi bene bene e attendere facendo attendere Cannone figlio, Cannone junior, Cannone II per volontà di Dio. Mio cognato… anzi… sono io ad essere cognato suo… l’umanità è una gerarchia da rispettare. “Nino, la nonna, non preoccuparti – coma’ Lisetta poco prima – ti devi fare persuaso che sei… un’altra cosa… non ti preoccupare delle cose che guardi… vedi la nonna quanti anni ha? A che mi servono? E a te che servirebbero? Prendi le carte tu che ci vedi… – Cialledda si mise a prenderle una ad una, da sopra, da sotto, dal centro del mazzo – …sette di spade, asso di spade – indovinava la nonna – …sette a denari e asso a denari… – a Cialledda piaceva quando faceva così – …sei di spade, sei a denari, sei di coppe e sono sette, basta… Hai capito che non ti devi spaventare… è una cosa buona la tua se tu sei buono e sei buono, la nonna lo sa… non devi avere paura.”
“Non ne ho.”
Sua sorella sarebbe tornata, un po’ stropicciata, verso l’una, l’una e mezza.
Quando si presentò a scuola per il lavoro, fu ricevuto dal preside e dal segretario, nome e cognome, conoscevano suo padre ovviamente. I bambini criminali che tenevano incatenati ai banchi delle scuole medie lo riconobbero subito, alla terza ora di lezione Cialledda era già il bidello preferito di chiunque si volesse nascondere in giro od andare in bagno a fumare. La custode della scuola gli si era avvicinata losca dicendo che se anche lui voleva guadagnare qualcosa, vendendo sigarette sfuse ai ragazzini, si poteva fare, solo che la mattina dovevano contarle insieme e poi fare a metà. Cialledda non gli rispose, Il bidello del secondo piano vendeva da mangiare, quello del terzo le bevande fredde, quello della palestra bevande calde, il piano terra era considerato zona della custode, ma con il nuovo arrivato si doveva trovare un accordo.
Cialledda seppe poi che ci avevano provato a mettere i distributori automatici, ma il preside si era ritrovato dietro la porta di casa un fantoccio appeso per là dove dovevano esserci le palle, così aveva preferito continuare a non saperne niente. Per Cialledda il lavoro non era comunque male e non si era stancato tanto. Fra qualche stipendio, già pensava, si sarebbe potuto considerare di prendere in affitto una stanza o due, vivere per conto proprio che già gli era passata la voglia di stare a casa di sua madre. Prima del matrimonio di sua sorella avrebbe dovuto trasferirsi in silenzio, senza troppa scena, per scansarsi la recita della madre lasciata sola nella vecchiaia.
Verso metà della quinta ed ultima ora di lezione si presentò l’assistente sociale per vedere come andava. Non lo chiese a lui, ma al preside e poi al segretario, indicando il soggetto pericoloso Cialledda in via di recupero. “Bé, come sta andando?” e indicava.
“Per ora bene.” Rispondevano calcando per ora.
La responsabilità era di Cialledda e per Cialledda nessuno ne voleva.
Il bidello della palestra fece la sua conoscenza alla fine delle lezioni, ovvero a tre quarti della giornata lavorativa di Cialledda – che vendi tu? Niente? Venderai… – anche lui, gli confidò, era un reo, ma uno di tutt’altra scuola che quella Cialledda – è successo quando ero giovane – disse ed infatti era vecchio – ancora si ragionava con il delitto d’onore.
Infatti quando i carabinieri – uomini onorati – erano andati ad arrestarlo – uomo d’onore – non gli misero le manette, ma gli dissero Signor Baldassarre ci vuole seguire? E Lui: “Sono Pronto! Andiamo!”
Gli avevano dato sette anni, ridotti a quattro con le attenuanti, tre per buona condotta.
Uscito – ancora più onorato – non aveva sposato la disonorata e la famiglia del disonorevole scannato, gli aveva chiesto pubblicamente scusa. Scuse accettate. Magnanimo.
“Vaffanculo tu e gli onorati!” gli rispose Cialledda.
Il bidello della palestra non rispose, ma lo guardò con odio. Odio autentico.
Il resto della giornata passò presto.
Era finalmente pronto a dormire il sonno del lavoratore.
Alla faccia del suo primo nuovo nemico.
L’acqua veniva a singhiozzi dal rubinetto del bagno di servizio, Cialledda ci mise un quarto d’ora buono a riempire il secchio. Sezione III D: spolverare, lavare, cassino e gesso. Spolverare lavare cassino e gesso Spolverare lavare cassino, finito il gesso, chiedere domani anche perché Carlone, il segretario se lo teneva stretto stretto in segreteria, chiuso in un armadietto di cui solo lui aveva la chiave. Cambiare il gesso solo quando se ne sono andati tutti, solo allora! il gesso è la sua vita, i gessetti reggono tutta la sua esistenza anche e soprattutto da quando gli si sono rivoltati contro i suoi amichetti bianchi e lisci o quelli più rari colorati e ruvidi.
“Rifaccia il giro al contrario – dice Carlone – da oggi vengano gli insegnanti a prenderselo per conto loro.” Ecco la chiave, davvero me la stai dando?
No aspetti, aspetti che ho quasi finito. Non gliel’hai ancora perdonata? Quando farai pace con il gesso Carlone? Tanto riusciranno sempre a fregartelo da sotto il naso. Lo fregheranno e lo useranno ancora per scrivere in alto- che ancora nessuno ha capito come abbiano fatto ad arrivarci – a scrivere la verità su di te, in bianco calcato, sulla facciata della scuola – CARLONE TESTA DI CAZZO.
Cialledda radunò i gessetti riconsegnandoli al segretario tutto contento che chiuse tutto e “Continui, continui pure…”
Indietro indietro… – dice la nonna – …ma veramente tanto tempo fa c’era un cuore grande, enorme, che batteva una volta ogni mille diecimila un milione di anni. TUM e poi TU – TUM e ancora uomini, animali, città, guerre, terremoti, alba, tramonto e tutto il resto che gira per conto suo e TUM TU – TUM; TUM; TU – TUM…”
Cialledda era rimasto con un pezzo di porta in mano. Sua madre – già, mamma – lo aveva mandato a chiamare tramite un ragazzino che abitava nella stessa strada perché: “Cialle’ gli è scaduta la porta, Cialle’ – ripeteva come un ossesso – Cialle’ muvet ca te vole mamet, Cialle’!”
Cialle’ Cialle’… La porta scaduta è quando non si apre più bene, i cardini cedono e la porta non resta sollevata da terra quel tanto che basta a farla aprire senza strisciare sul pavimento lasciando segni neri brutti e difficili da lavar via.
Cialledda ripensò all’assistente Sociale la sera prima, che gli diceva vieni vieni sbrigati ad occhi chiusi e con la lingua fuori come un cane assetato e pensando e ripensando che quella fosse la giusta contropartita per aver goduto ed aver avuto in concessione un giorno di malattia (“Veramente non si potrebbe ma…” così sono in forze per la prossima volta), prese la cosa di buon grado. Si era anche trovato la famosa stanza… andiamo da mamma… sempre muoversi doveva.
Fatto sta che Cialledda aveva a malapena toccato la porta (più per farsi vedere partecipativo che per la certezza di poterci fare qualcosa), che un bel pezzo, dal bordo superiore fin quasi alla serratura si era staccato con un crack secco. E giù bestemmie sopra bestemmie e grida e insulti con cui sua madre ripercorreva la carriera di Cialledda dalla nascita dopo un parto – per sfortuna, per disgrazia – andato bene, sino alla mano di Cialledda che assassina si era levata su suo padre.
Detto proprio così.
Dalla casa emerse sua sorella ed assieme a lei Cannone il Buono: “Che vuoi da lui? – protettivo – Fa il falegname forse? Già che ci siamo cambiamo tutto che la porta ha fatto più del tempo suo.” Cannone il Generoso.
Era la prima volta che Cialledda lo vedeva in casa, probabilmente – sempre per decenza – due donne sole; quel figlio… – uscito Cialledda era entrato lui.
La sorella, carezzevole, prese Cialledda per un braccio, gli si strinse contro e posandogli la testa sulla spalla, iniziò una passeggiata per la casa senza dire una parola, in pratica accompagnandolo all’ingresso. Cialledda aprì e sua sorella non si staccò finché non ebbe superato la soglia.
La porta si richiuse alle spalle di Cialledda che aveva capito benissimo che lì non ci doveva rimettere più piede.
“Tu devi partire.”
“E dove devo andare che non ho una lira?”
La nonna puliva i fagiolini. Come riuscisse a centrare sempre la scodella in cui li raccoglieva, su un tavolino di fianco a lei, per Cialledda restava un mistero. I peduncoli cadevano per terra ai suoi piedi. Cialledda aveva finito di lavorare e voglia di mangiare non ne aveva, di dormire nemmeno e quindi era andato di filato da coma’ Lisetta. Aveva comprato dei fiori e delle paste, quelle a forma di cigno, con la panna. Ne addentava una, proprio mentre raccontava alla nonna gli ultimi fatti.
“…ed invece uno come te è sempre una benedizione, per fortuna ogni tanto ne nasce uno…. Tu devi partire, te ne devi andare da qui. Un mare lo devi attraversare per forza. Sempre così è stato.”
“E fare che?”
“A farti dimenticare. Aspetta e verrà il tempo tuo.”
“Come la porta…”
“Come la morte.”
Cialledda non se ne era reso conto: la bambina era entrata e si era messa a scopare via i peduncoli dei fagiolini. Cialledda la guardò, lei guardò Cialledda.
Che numero fa avere gli stessi occhi?
Quattro. Erano arrivate in quattro da dietro una collina. Cialledda non sapeva bene dove si trovasse, all’inizio gli sembrava un posto dalle parti di Adelfia che aveva visto tempo fa, prima di andare in galera. E che cazzo ci faccio ad Adelfia? No, aspetta qui… e voi? Le donne. Sogno le donne. Le sogno per forza.
Tutte rosse con gli occhi verdi anche io sapete? E la bambina, la nipotina della nonna, quella che scopa a terra, le pettina i capelli, anche lei ha gli occhi verdi.
Ogni tanto ho visto quelle con i capelli e gli occhi neri. E voi perché siete tristi?
Le donne procedevano senza sentirlo, i campi, ovunque si trovassero, ovunque Cialledda fosse, erano tutti bruciati dal freddo. Ma se siamo in estate, perché siamo in estate no? Loro andavano avanti lente, curve e belle, belle e curve sotto un peso che Cialledda non vedeva.
Sono Cialledda e faccio il bidello! Cialledda mi chiamo, cosa pretendete che capisca? Non sono molto intelligente… dove le donne passavano i fiori appassivano. Ah siete voi? Perché fate morire le cose? Cialledda prese a seguirle, lungo la scia di piante schiacciate marce che lasciavano, più avanti dovette scendere a fatica, si apriva un avvallamento e dovette usare mani e piedi per scendere, loro lo precedevano di un bel pezzo da quanto cammino? Si faceva buio e Cialledda cominciò a vedere il chiarore di un fuoco, altre sagome, altre figure… si avvicinò… la luce del fuoco era troppo forte sul buio della notte che avanzava, Cialledda non riusciva distinguere i volti, solo falde di vesti che dovevano essere lunghe e nere e nella luce del fuoco la nonna su un letto di fiori aperti e grandi che le fiamme cominciavano a lambire.
La nonna distesa con le mani incrociate sul petto, le lacrime vennero da sole, attorno a lui sentiva che tutti piangevano. La nonna non si muoveva, per niente si muoveva, l’odore dei fiori diventava più forte al calore del fuoco e poi all’improvviso una fiamma grande enorme, la più alta di tutte e la nonna non c’era più, non c’era più il fuoco, non c’era più il buio, il buio nel buio era stato schiacciato da un buio più grande.
La nonna Lisetta era morta e Cialledda non sapeva perché.
Il come invece, lo seppe la mattina dopo. Si era svegliato con ancora nel naso il profumo dei fiori, si vestì a casaccio ed uscì correndo verso casa di coma’ Lisetta.
E c’era gente attorno, Cialle’ je megghie ca te và, col cazzo che me ne vado, scostò forte il vecchio che gli era messo di mezzo alla scala che saliva verso casa della nonna. Il vecchio andò a finire su un gruppo di donne che strette fra loro confabulavano, caddero tutti su un mucchio di polvere e calcinacci. Vattin’ Vattin’ gli dicevano tutti mentre saliva, qualche guappetto della stradina si fece pure minaccioso, al primo Cialledda assestò un pugno in pieno volto che esplose in una bolla di sangue e denti che imbrattò tutti i presenti inerpicati lungo la scalinata stretta. Je muert! Nun se muev, je Muert! gridarono alle sue spalle. Ma chi se ne frega se è morto!
Fatto sta che si fecero tutti da parte finalmente: arrivò dove sempre stava con la nonna, fra le carte napoletane, tutte le sue cose, il mucchio dei rosari, dei crocifissi di tutti i materiali e le forme, fra tutti i santini dipinti o disegnati che non eri mai sicuro se erano santi davvero o qualcos’altro truccato da santo. Alla nonna non avevano messo nemmeno un lenzuolo addosso e stava lì per terra tutta scomposta con la testa aperta da un colpo di pistola, chiaro chiarissimo, come si fa a sparare in testa alla nonna? Della bambina nessuna traccia. Intanto si erano fatti avanti i fratelli ed il padre di quello che aveva colpito per le scale, ma lo sguardo di Cialledda chino sulla nonna, che le accarezzava la testa insanguinandosi le mani, bastò a farli ritornare fra la marmaglia, convinti che gli era andata fin troppo bene.
“C’ha stat? – gridò Cialledda, ma non era lui che gridava, era una massa di bestie inferocite – Chi è stato?”
Silenzio.
Da lì in poi Cialledda non capì più niente.
Chissà quanto tempo era passato. Cialledda si riprese da una specie di sonno, che ancora correva gente verso di lui, chi sono questi? Carabinieri, armi in mano, correvano tutti, Cialledda ebbe appena il tempo di guardarsi attorno che furono su di lui Via! Via! Spostati! Dietro tutta una carovana di barelle, emergenza radio, ambulanze, non riconosceva il posto dove si trovava eppure era a casa della nonna…. attorno un macello, tutto il palazzo era crollato, corpi dappertutto, lui stesso era ricoperto di sangue dalla testa ai piedi, ma si manteneva sulle sue gambe, non sentiva dolore. Gli si avvicinarono dei barellieri che lo scostarono in malo modo. Chissà per quale motivo c’era anche l’assistente sociale in mezzo a tutti gli spettatori “Portami a casa” gli fece e lei forse per la tragedia, forse perché nessuno se ne sarebbe mai accorto in mezzo a tutto quel casino se lo portò a casa sua.
Cialledda non ci era mai stato, era una roba tutta rosa piena di cuscini peluche oggettini e via dicendo, senza chiedere nemmeno il permesso individuò il bagno e si andò ad infilare sotto la doccia.
Si spogliò sotto il getto d’acqua che scorreva via rossa, non aveva né ferite né niente. Stava bene, che cazzo era successo? Lei si affacciò spostando la tendina di plastica bianca a cuori rossi.
“Stai bene?”
“Che è successo?”
“Dicono una fuga di gas, una bombola che ha fatto saltare tutto, ma non sono sicuri era tutto carbonizzato… vetrificato… come se ci fosse stata una fiammata… stai bene allora?”
Qualcosa scattò nella mente e nel corpo di Cialledda, come se anche lì qualcosa fosse diventato solido – sorrise – “Benissimo. Proprio bene. Scopiamo?”
Ma forse non ha detto così, Cialledda era molto gentile.
“E poi nonna come è andata a finire? Cos’era successo?”
“Non lo so, Cialledda non l’ha mai detto a nessuno e poi è andato via senza dire né A né O e nessuno lo ha più visto. C’è chi dice che sia andato in Sud America.”
“Non è che ti sei scordata e basta?”
La nonna fece una faccia come se la bimba avesse colto nel segno.
“Prendi una scodella da quello stipo – si limitò a dire – puliamo i fagiolini”.