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PDFdi Salvatore Denaro

Nonostante i proclami trionfalistici con cui Berisha ha sottolineato il processo di modernizzazione dell’Albania, i cittadini albanesi non hanno dunque più creduto “all’uomo con le forbici in mano”, così ribattezzato per via delle innumerevoli foto che lo immortalano mentre inaugura numerose opere pubbliche, l’ultima delle quali riguardante il tunnel (parte integrante del Corridoio VIII) che accorcerà i tempi di percorrenza tra Tirana e Elbasan. Tuttavia le riforme fino a questo momento effettuate da Tirana in relazione alla road map tracciata da Bruxelles sono state decisamente blande e inapplicate nel contesto socio-politico del Paese. La maggior parte dei cambiamenti che l’Europa chiede all’Albania necessitano di un ampio consenso politico che finora è stato ben lontano dall’essere raggiunto a causa di profonde divisioni tra le due formazioni politiche ed esasperate da tensioni sociali che hanno da tempo superato il livello di guardia. Tutto ciò ha inevitabilmente rallentato il processo riformatore necessario, perlomeno, all’acquisizione dello status di candidato ufficiale all’ingresso nello spazio comunitario, richiesto dal Paese delle Aquile per la prima volta nel 2009.
Almeno 350 osservatori internazionali dell’OCSE si sono recati in Albania per assistere alle operazioni di voto, anche a causa delle ultime vicende relative al tentativo di politicizzare un organo indipendente come il Comitato Elettorale Centrale (CEC). Lo scorso aprile i socialdemocratici del Movimento Socialista per l’Integrazione (LSI) guidati da Ilir Meta – facenti parte della coalizione di governo con il PD di Berisha – hanno siglato un’alleanza con il PS di Rama, cosa che è costata – attraverso una mozione parlamentare presentata dal PD – la rimozione dell’esponente del LSI, Ilirjan Muho, prontamente sostituito con un candidato appartenente alla maggioranza di Berisha. Subito dopo altri due membri del CEC si sono dimessi per protesta, esaurendo di fatto quel ruolo di garanzia ed indipendenza propria di quest’organo. E se agli occhi degli osservatori internazionali, in particolare dell’Unione Europea, una CEC forte ed indipendente avrebbe rappresentato un elemento di garanzia per la regolarità delle elezioni, la violazione della legge elettorale da parte del Parlamento abbassa notevolmente il livello di trasparenza della consultazione. È stata una campagna elettorale che ancora una volta ha peraltro evidenziato l’assenza di una reale libertà e indipendenza degli organi di informazione e delle emittenti televisive, le quali hanno sistematicamente sottaciuto i molteplici casi di corruzione e gli scandali.
Non di meno, l’importanza e la tensione che si è creata attorno a queste elezioni è stata data anche da un lungo processo di privatizzazione del settore energetico. Nei prossimi anni il governo dovrebbe rilasciare concessioni per la costruzione di centinaia idrocentrali: saranno in gioco centinaia di milioni di euro e il rischio che la corruzione coinvolga gran parte del sistema di affidamento è uno dei timori più diffusi.
Ma cosa hanno chiesto i cittadini albanesi in questa tornata elettorale? L’Istituto italiano IPR Marketing, lo stesso che ha fornito i primi exit poll attribuenti la vittoria ai socialisti, alla vigilia delle elezioni ha condotto un sondaggio in cui sono emerse con evidenza le esigenze e le speranze di un popolo che dalla caduta del regime comunista guarda all’Europa come ad un’opportunità imprescindibile per lo sviluppo del Paese: oltre l’80% degli intervistati reputa importante l’ingresso dell’Albania nell’Unione Europea, un dato abbastanza scontato su cui si sono basate gran parte delle promesse dei due candidati. Se Berisha – peraltro già artefice dell’ingresso di Tirana nella NATO nel 2009 – in tutti gli interventi pubblici ha ribadito che un nuovo mandato al PD porterebbe il Paese a varcare definitivamente l’ingresso nel club dei “grandi”, Rama ha addirittura svolto una sorta di tour europeo (Europarlamento incluso) per marcare la differenza con il suo rivale e per sondare il sostegno dei leader politici europei alla sua candidatura. Insomma, l’UE nei Balcani conserva il suo fascino tanto da essere sempre sbandierata dalla maggior parte degli schieramenti durante le campagne elettorali.
In tale contesto, però, acquista una certa risonanza la rinascita di sentimenti nazionalisti all’interno di gran parte del panorama politico albanese. Il progetto politico della “Grande Albania”, nato subito dopo la guerra russo-ottomana e il Trattato di Berlino del 1878 e portato avanti dai nazionalisti albanesi, si concretizzò dopo le guerre balcaniche del 1912-1913 con la Conferenza di Londra che, riconoscendo lo Stato albanese, ne tracciò i confini senza considerare tutti territori albanesi dell’area balcanica. Ciò ha condotto ad alimentare il sentimento nazionalista ed irredentista degli Albanesi fuori dai confini stabiliti. Ne sono un esempio le guerre dei nazionalisti in Kosovo (1998-1999), Macedonia (2001) e nella Serbia meridionale (1999-2001). Oggi tale sentimento è incarnato da Alleanza Rossonera e dal suo leader Kreshik Spahiu, un movimento politico ultranazionalista che ha fatto dei diritti degli Albanesi di tutta la penisola balcanica il proprio manifesto elettorale. Lo stesso Berisha negli ultimi tempi ha rincorso Spahiu proprio sul terreno del nazionalismo, tanto che qualche mese fa in una delle sue uscite pubbliche ha affermato che il governo era pronto a rilasciare il passaporto a tutti gli albanesi in Kosovo. Una proposta che il Premier ha dovuto subito ritirare in seguito alle pressioni di Stati Uniti e Unione Europea. Il nazionalismo del Primo Ministro uscente è apparso esclusivamente legato al consenso nei confronti della propria persona e del governo, più che essere frutto di un ideale e dalla volontà politica di “ridisegnare” i confini nazionali. Infatti, le sue sortite nazionaliste mal si conciliano con l’obiettivo dichiarato di portare l’Albania in Europa.
Ad ogni modo per i cittadini albanesi i problemi maggiori non sembrano essere legati esclusivamente ad una proiezione esterna del Paese sia nella sua concezione europea sia in quella della “Grande Albania”: l’alto tasso di disoccupazione (oltre il 13%) resta l’assoluta priorità che dovrà affrontare il nuovo esecutivo, seguito dalla corruzione e dalla crisi economica. Dopo la fine del regime comunista nel 1990, il Paese ha avuto un lento processo di crescita economica legato principalmente alle rimesse degli emigrati; ancora oggi la principale sfida continua ad essere quella di creare ricchezza all’interno dei confini nazionali, contenendo il fenomeno della fuga dei cervelli, rifondando una società lacerata dalla corruzione e dal malgoverno. La percezione che hanno i cittadini albanesi della loro classe politica non ha mai raggiunto livelli così bassi di consenso: se la valutazione delle politiche del governo Berisha è tendenzialmente insoddisfacente, sorprende come il giudizio negativo sull’operato dell’opposizione guidata dal prossimo Premier Rama raggiunga il 37% a fronte di un 31% positivo. In questi anni troppi scandali hanno coinvolto membri del governo e delle amministrazioni locali e i casi di favori, appalti e concorsi pilotati si sono moltiplicati. Creò particolarmente scalpore il video del 2011 in cui l’ormai ex vicepremier Meta parlava con Dritan Prifti (allora Ministro dell’Economia e dell’Energia) di nomine di amici ed affari illeciti riguardo il processo delle grandi privatizzazioni.
Alla luce degli scandali che hanno coinvolto Meta e della facilità con cui muta schieramento, siamo sicuri che il vento di cambiamento invocato investirà realmente le istituzioni democratiche? Sarà credibile un governo guidato da Rama e Ilir Meta? Sarà credibile, in particolare, il leader di LSI, che, variata la casacca e dimenticati gli scandali, tornerà verosimilmente ad avere un ruolo decisivo nel prossimo governo? Non solo Berisha, infine, non resterà sicuramente a guardare, ma il clima di tensione che si addensa in queste ore sulla piccola Repubblica balcanica rischia di porre una pietra tombale sulle aspirazioni europee della sua popolazione. Un cenno potrebbe a questo punto provenire proprio da Bruxelles.
* Salvatore Denaro è Dottore in Scienze Internazionali (Università di Siena)
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