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RASSEGNA STAMPA/ Annozero, il “suicidio” della Rai

Creato il 07 giugno 2011 da Iltelevisionario

RASSEGNA STAMPA/ Annozero, il “suicidio” della RaiUn divorzio? No, un suicidio! Come scrive oggi Aldo Grasso sul Corriere della Sera, la decisione della Rai di chiudere Annozero è “una follia” in quanto Michele Santoro, che “si è atteggiato a ideologo unico delle nostre coscienze, si è comportato come un televenditore di libertà, ha sviluppato il suo ego in maniera ipertrofica, si è circondato del peggior giustizialismo, si è convinto di «essere la perla del Servizio pubblico», ha agito spesso con disinvoltura intellettuale, ma ha sempre garantito all’azienda profitti e ascolti”. Intanto Santoro, ai microfoni della trasmissione Agorà, non esclude di tornare a collaborare in Rai “è stata una delle cose che ho chiesto”. Nel corso dell’intervista, che andrà in onda domani mattina su Raitre a partire dalle 9, il conduttore di Annozero ha confermato di aver trovato un accordo con la Rai per una buonuscita di 2,3 milioni di euro. Sull’ipotesi di un suo passaggio a La7, il giornalista ha commentato ironico: “Andate a chiedere a Mentana”.

RASSEGNA STAMPA/ Annozero, il “suicidio” della RaiSecondo un’analisi realizzata da Starcom, Annozero ha conquistato negli anni sempre più consensi passando dal 13.5% di share dell’edizione 2006/2007, al 15.2% nel 2007/2008, al 16.7% nel 2008/2009, al 20.3% nel 2009/2010, fino ad arrivare al 20.7% di share ottenuto dall’edizione 2010/2011 (periodo di rilevazione 23 settembre 2010-2 giugno 2011), registrando dunque in cinque anni un incremento di ben 7 punti di share. In questa stagione la media di Raidue è invece stata pari all’8.7% di share nel medesimo periodo di rilevazione (fascia ore 21.00/23.30 – esclusi i giovedì). Ben 12 punti di share in più ottenuti da Santoro nella fascia di prime time; inoltre quest’anno Annozero per quindici volte è stato il programma più visto del giovedì, raccogliendo una media pari a 5,7 milioni di telespettatori e toccando 7 milioni nella puntata dal titolo Vincere! del 27 gennaio 2011. In tutta la storia di Raidue la rete non aveva mai vinto un tale numero di prime serate.

Un divorzio? No. Suicidio della Rai

(di Aldo GrassoCorriere della Sera) Michele Santoro e la Rai si sono lasciati, questa volta hanno fatto sul serio. Dopo trent’anni di tumultuosa convivenza, dopo un breve «tradimento» con Italia 1, dopo un estenuante braccio di ferro con l’ex direttore Mauro Masi, è venuto il momento del clamoroso addio. «Hanno inteso definire transattivamente il complesso contenzioso», si legge in una nota diffusa dalla Rai, con un linguaggio che richiama più i divorzi fra star che le cause di lavoro.

Inutile girarci intorno: per Silvio Berlusconi Annozero era diventato un’ossessione. Qualcuno gli avrà pure spiegato che la trasmissione spostava pochi voti e che un servizio pubblico non è a totale disposizione del governo. Non c’è stato verso: Berlusconi voleva la sua testa e il nuovo dg di Viale Mazzini, Lorenza Lei, gliel’ha consegnata con una risoluzione consensuale. Nonostante la condizione di martire lo esaltasse, non dev’essere stato facile per Santoro, specie negli ultimi tempi, lavorare «coattivamente» al programma, tutelato dal pretore del lavoro e non più dalla Rai. È stato più volte osservato come Santoro abbia sempre dato il meglio di sé (almeno in termini di ascolti) quando viene provocato, quando, drammaturgicamente, riesce a trasformare il suo personale patimento in un sacrificio. Però, a ogni puntata, c’era una grana, uno di quegli intoppi che ti impediscono di lavorare con serenità.

La situazione ha comunque del paradossale, dell’inverosimile: qualunque network, in qualunque parte del mondo, non licenzierebbe mai uno come Santoro. Bisogna essere autolesionisti per liquidare un programma che veleggia sui 5 o 6 milioni a puntata, con picchi che superano i 7 milioni e uno share che va oltre il 20%. Tutte le volte che si atteggia a Masaniello, Santoro è insopportabile, ma nessuno può negare che sappia fare bene il suo mestiere. Lo sa fare, eccome! Nel tempo si è atteggiato a ideologo unico delle nostre coscienze, si è comportato come un televenditore di libertà, ha sviluppato il suo ego in maniera ipertrofica, si è circondato del peggior giustizialismo, si è convinto di «essere la perla del Servizio pubblico», ha agito spesso con disinvoltura intellettuale, ma ha sempre garantito all’azienda profitti e ascolti: avere una trasmissione che rende all’azienda il doppio di incasso rispetto ai costi e chiuderla è una follia.

Il divorzio sarà anche stato consensuale, ma la Rai lancia un segnale di debolezza, di insicurezza, di sudditanza psicologica e ideologica. Lo abbiamo scritto mille volte: sul piano della comunicazione c’era un solo modo per combattere Santoro, fare una trasmissione più interessante della sua. Tentativi ne sono stati fatti, gli esiti li conosciamo: fallimentari. Cosa farà ora Santoro? Si parla di un suo passaggio a La7. Se così fosse, potremmo assistere a una mezza rivoluzione in campo televisivo. Per la rete di Telecom, maggio è stato il mese dell’exploit: gli ascolti medi sono quasi raddoppiati, facendo registrare un 4,5% in prime time che, negli ultimi quindici giorni, è diventato un 5,3%. Artefice primo del risultato è stato Enrico Mentana, che ha saputo occupare gli enormi spazi lasciati liberi da un’informazione sospesa tra partigianeria e pressapochismo. Con un telegiornale delle 20 che viaggia, attualmente, su una media di 2.500.000 spettatori (11,6% di share), e un’edizione delle 13.30 che supera il 1.100.000 spettatori, il direttore ha «illuminato» l’intera rete ed è stato sapiente nel «fare squadra». Se arrivasse anche il pubblico di Santoro ci sarebbe da ridere. E sarebbe un chiaro segnale che Berlusconi non fa più paura.

Torna la suggestione «terzo polo»

(di Carmine FotinaIl Sole 24 Ore) Come l’araba fenice la suggestione del terzo polo tv rinasce dal passato. L’uscita di Michele Santoro dalla Rai, probabile destinazione La 7, non è solo questione di volti televisivi ed equilibri politici di format. L’addio del conduttore di “Anno Zero” a Viale Mazzini giunge in contemporanea con le ipotesi che danno il dossier Telecom Italia Media di nuovo in primo piano nell’agenda del gruppo presieduto da Franco Bernabè. Ieri, dopo averlo già fatto sabato scorso, Telecom Italia è tornata a precisare parte dei contenuti di un colloquio dell’a.d. di Ti Media, Giovanni Stella, con “Il Fatto Quotidiano”. «Si tratta allo stato di mere ipotesi di lavoro» è il riferimento a un riassetto al termine del quale Ti Media avrebbe un azionista di maggioranza relativa con il 40% del capitale, il 37% resterebbe all’attuale proprietà e il 23% andrebbe sul mercato. Schema che ieri ha acceso il titolo a Piazza Affari (+5,5% a metà mattinata prima della precisazione) ma soprattutto ha riaperto scenari “terzopolisti” che da anni scaldano il mondo della televisione, anche all’insegna di un riequilibrio politico. Di qui – smentite a parte – la suggestione di un ingresso del gruppo Espresso-Repubblica a scompigliare l’attuale assetto che ruota intorno ai poli Rai e Mediaset (con Sky in campo nella “pay”). Nomi a parte, del resto, basta sondare gli umori del settore per capire che il momento sembrerebbe propizio a cavalcare il successo che La 7 sta mettendo a segno nel campo dell’informazione, trainata dall’effetto Mentana. A maggior ragione se si andasse davvero verso un “dream team” che, oltre a Santoro, includesse anche uno tra Fabio Fazio e Giovanni Floris, con contratti Rai in scadenza il 30 giugno. Nel primo caso sarebbe in fin dei conti un ritorno a un vecchio progetto, quando Fazio era stato prescelto per una tv di alternativa vagheggiata durante la gestione Seat-Telecom di Colaninno e Pelliccioli. Pillole del passato che torna. Perché il terzo polo tv sembra un serial dalle puntate infinite. In principio, era il 2006, il nome a tenere banco era quello del gruppo De Agostini. Poi fu il turno di Marco Tronchetti Provera, lo studio delle sinergie tlc-tv, l’ipotesi sfumata di uno storico accordo con Rupert Murdoch. E arriviamo ai giorni nostri. Il presidente di Telecom Italia, Franco Bernabè, in più occasioni ha chiarito che l’obiettivo del gruppo è focalizzarsi sul core business telefonico (con opportuno focus sull’internet tv) e che un’opportuna valorizzazione dell’asset Telecom Italia Media rientrerebbe tra le carte da valutare. Anche se, fanno notare esperti del mercato tv, difficilmente il gruppo accetterebbe soluzioni come quelle circolate di recente, che veleggiano intorno a 500 milioni tra asset e debiti. Sul piatto, se le «ipotesi di lavoro» avranno seguito, finirebbe una rete che ha un rosso intorno a 55 milioni ma che in un anno ha aumentato l’audience share del 25%, sfiorando il 3,5 per cento, e conta su un tg assestatosi intorno all’8,5 per cento con audience di oltre 2 milioni di persone.

Quel capo partito che ha inventato tutti i leader anti-sistema

(di Fabio Martini La Stampa) Più che un’azienda, una seconda mamma. Michele Santoro, assieme a Mamma Rai, ha trascorso metà della sua vita, un idilliodurato 29 anni e iniziato quando il presidente del Consiglio si chiamava Giovanni Spadolini. Ma ora a pochi giorni dal suo sessantesimo compleanno Santoro ha deciso di tagliare il cordone ombelicale. Diventerà il profeta di Telesogno, vagheggiata e abortita qualche anno fa? Oppure, ennesimo, possibile colpo di scena, lascerà il tetto della Mamma, ma per tornarvi periodicamente con alcune serate-evento, magari su RaiUno? Ovunque andrà, con chiunque si sposerà, Santoro si porterà dietro una robusta dote: milioni di telespettatori, fino a sei a puntata, fidelizzati anno per anno, settimana per settimana. Un pubblico vasto che si ritrova in lui e che lui, in qualche modo ha forgiato, modellando un modo di pensare, di indignarsi. Secondo una ideologia che Santoro ha confidato una volta per sempre a Gianpaolo Pansa in una intervista del 1991, nei primi anni della sua stagione: «I partiti non saranno così stupidi da tagliare la lingua a Samarcanda e noi continueremo a rompere». Il suo credo è sempre stato lo stesso: rompere. Sostenere tutti i leader «anti-sistema». Se c’è una costante nei suoi 24 anni di conduzione – un «regno» più lungo di quello di Mussolini – è stato proprio l`appoggio a tutti i leader «contro» che via via apparivano sullo scenario politico. Un formidabile «producer» di classe dirigente. E non solo di sinistra. Certo, tutti ricordano gli «spot» per Leoluca Orlando o per Nichi Vendola, per Fausto Bertinotti o per Luigi De Magistris. Ma con la memoria corta di questi tempi si è perso il ricordo di quel giovedì di aprile del 1993 che precedeva il referendum sulla preferenza unica destinato a far cadere la Prima Repubblica. Ebbene, quel giorno Santoro ospita e lancia Mariotto Segni, un democristiano gollista. All`inizio degli Anni Novanta, quando il segretario dell’Msi Gianfranco Fini è il capo di un partito nostalgico e post-fascista, è proprio Santoro a lanciarlo in pompa magna. Ricorda Francesco Storace, allora capo ufficio stampa dell`Msi: «Allora nessuno ci filava, ma dopo un paio di pranzi riservatissimi con Alessandro Curzi, cui piaceva creare contraddizioni antiDc, si aprirono le porte di Samarcanda. E poi durante le Comunali di Roma del 1993 proprio Santoro fu connivente in occasione di uno “scherzo” che avevo organizzato per destabilizzare emotivamente Francesco Rutelli in un duello televisivo con Fini». E nel 1995, quando Silvio Berlusconi è all`opposizione – e a suo modo è un leader «contro» – Santoro chiama a sé persino il Cavaliere. Allora l’eterna Samarcanda delle origini si chiamava «Tempo reale» e andava in onda su RaiTre. Una sorta di «una tantum»: dopo di allora Berlusconi non avrebbe più rimesso piede in uno studio di Santoro. Anzi, appena torna presidente del Consiglio, il 18 aprile del 2002, Silvio Berlusconi durante una conferenza stampa a Sofia scaglia parole fiammeggianti contro Santoro, il comico Daniele Luttazzi ed Enzo Biagi, definiti «individui che hanno fatto un uso criminoso della televisione pubblica». Una scomunica che passa alla storia come l’editto bulgaro e che consente a Santoro di ergersi a vittima. A dispetto di trasmissioni di grande impatto e di grande successo, ma connotate da un`accusa costante: quella di faziosità. Nel corso di quasi tre decenni, Santoro è riuscito a costruire un format sempre uguale a se stesso: il filo narrativo tenuto in mano dal conduttore, le interruzioni mirate, una regia molto accorta (con le inquadrature al momento giusto della smorfia del «buono» in risposta a qualche battuta sgradita del «cattivo»), l’interazione della piazza nel momento più «opportuno», gli «sceneggiati»: tutto è sempre servito per trainare la trasmissione verso la tesi decisa a tavolino dal suo leader. Qualche giorno fa Berlusconi è arrivato ad attribuire a Santoro la principale colpa per la sua sconfitta, definendo «micidiale» il programma Annozero. Una tesi hard che proprio Santoro ha ridimensionato: «Se avesse ragione lui, che bastano pochi minuti di un servizio micidiale per mettere sotto la credibilità accumulata da Tgl, Tg2, Tg4, Tg5, allora vivremmo in un mondo alla rovescia». Ma è pur vero che da anni si è formata a sinistra un’area di opinione, un polo dell’intransigenza con una sua ideologia, i suoi organi di informazione, i suoi siti web, i suoi leader politici (Nichi Vendola, Antonio Di Pietro, Luigi De Magistris), il suo Pantheon ideale (nel quale sono accomunati personaggi tra loro lontanissimi come Enrico Berlinguer e Indro Montanelli, Falcone e Borsellino), i suoi guru, come Roberto Saviano, Marco Travaglio, Beppe Grillo. E il leader, il capo-partito, il più potente di tutti è anche colui che sa maneggiare meglio il mezzo televisivo: Michele Santoro.

Una nuova stagione a Viale Mazzini

(di Marcello SorgiLa Stampa) In nessun Paese del mondo l’uscita di un conduttore da una tv e il suo probabile passaggio a un’altra rete hanno mai provocato quel che è accaduto ieri in Italia all’annuncio della separazione consensuale tra Michele Santoro e la Rai. Una scossa d’adrenalina in tutto il sistema politico, una tale ondata di reazioni, nella maggioranza e nell’opposizione, da far dimenticare le giornate più calde della rovente campagna elettorale appena conclusasi. E’ un’anomalia alla quale è difficile abituarsi, e di fronte alla quale, anzi, non si finisce di stupirsi, anche se le guerre politiche attorno alla televisione, pubblica e privata, durano da oltre trent’anni in Italia, cioè da quando è finito il monopolio statale dell’emittenza, e hanno avuto una recrudescenza da quando il padrone delle tre maggiori reti private, divenuto presidente del Consiglio, ha esteso il suo controllo anche a quelle pubbliche. Nel caso specifico c’è una ragione in più che spiega quanto sta accadendo: oltre a essere il bersaglio numero uno di Berlusconi, che lo aveva silurato già ai tempi della sua prima legislatura al governo nel famoso «editto bulgaro», e ne è stato cordialmente ricambiato in tutti questi anni in cui il famoso conduttore ha potuto trasmettere grazie a una sentenza della magistratura, Santoro è stato proclamato solo pochi giorni fa vincitore delle ultime elezioni, conclusesi, come si sa, con l’elezione dei sindaci Giuliano Pisapia a Milano e Luigi De Magistris a Napoli. Naturalmente è tutto da dimostrare che l’endorsement venuto dallo studio di «Annozero» sia stato forte al punto da spingere così in alto i due principali vincitori e aprire un baratro talmente profondo per i candidati del centrodestra. Ma Berlusconi se ne è convinto e lo ha ripetuto fino alla noia ai suoi collaboratori e davanti al vertice del suo partito. Per molti di loro non era affatto una novità: nel 2001, parliamo di dieci anni fa, quando il centrodestra sfrattò di nuovo dal governo il centrosinistra, Berlusconi s’era addirittura fatto fare dai sondaggisti una tabella che faceva vedere a tutti e a suo parere dimostrava come ogni settimana Santoro gli portasse via da un punto e mezzo a due punti di vantaggio sui suoi avversari. E siccome aveva vinto per poco, non faceva che ripetere: «Se si fosse votato una settimana dopo, quello lì riusciva pure a farmi perdere!». Se davvero, come ha annunciato Enrico Mentana ieri sera, Santoro è a un passo dall’accordo con La7, la tv di Telecom che s’avvia ormai a diventare stabilmente il terzo polo televisivo tra Rai e Mediaset, quella di Berlusconi sarà stata una vittoria di Pirro. Sai che soddisfazione, per lui che lo considera il peggior nemico, aver tolto Michele da Raidue per vederselo spuntare alla stessa ora, e magari con maggiori ascolti, su un altro canale. Per questo, all’interno della Rai eternamente in ebollizione, l’annuncio dell’accordo raggiunto con il conduttore ha sollevato reazioni negative anche all’interno del consiglio d’amministrazione, che è da sempre il tramite tra la tv di Stato e la politica, e nel fronte che fa capo al presidente del Consiglio. Curiosamente, sia da parte della sinistra che della destra del cda si sono levate voci che pretendevano che a Santoro, in caso d’uscita, fosse imposto una sorta di patto di non concorrenza per tenerlo lontano dalle telecamere per almeno due anni. Ora, a parte la pretesa di difendere la libertà di stampa, e al suo interno quella del conduttore, imponendogli un bavaglio e cancellandolo dai teleschermi, è sicuro che a queste condizioni Santoro non avrebbe mai accettato di sciogliere il suo contratto con la Rai. In attesa di conoscere già oggi i dettagli dell’accordo e le intenzioni del leader del partito di «Annozero», si può tentare di stilare un provvisorio borsino dei vincitori del primo tempo di questa partita. Primo, ovviamente, Michele in persona: s’è tolto la soddisfazione di vedere uscire dalla Rai prima di lui Mauro Masi, il precedente direttore generale, che era arrivato a minacciarlo in diretta di sanzioni telefonandogli mentre il suo programma andava in onda, e alla fine di una trattativa abbastanza simile a quella che s’è conclusa ieri non era riuscito a convincerlo e aveva dovuto gettare la spugna. Inoltre, se quello di ieri è solo un arrivederci, e Santoro tornerà presto in scena da La7 o da un’altra emittente, non dovrà temere le proteste del suo pubblico, che si manifestarono sonoramente via Internet la volta scorsa, alle prime indiscrezioni della trattativa con Masi, e potrà togliersi la soddisfazione di far la concorrenza alla tv di Stato che lo ha messo alla porta e di continuare a criticare Berlusconi come gli aggrada. 

La seconda vincitrice è Lorenza Lei, la nuova direttora generale della Rai. Si dirà che non può diventare un titolo di merito aver accontentato come prima mossa il più forte dei capricci del Cavaliere. Ma nel modo in cui lo ha fatto, riconoscendo a Santoro il valore della sua professionalità, lasciando aperto uno spiraglio a collaborazioni future, rifiutandosi di imporgli assurde clausole di non concorrenza, e trovando così il suo consenso, c’è una prova di autonomia che, pur nell’ambito ristretto in cui un manager della Rai deve muoversi, non è affatto comune. Immaginiamoci le facce dei consiglieri d’amministrazione che dovranno ratificare l’oneroso accordo di buona uscita di Santoro: per rifiutarlo, dovrebbero votare contro Berlusconi. E se lo accettano, dovranno invece riconoscere che la Lei ha deciso da sola, li ha messi di fronte al fatto compiuto e poi è passata all’incasso. Quella della Rai è la storia di una guerra infinita, e anche il caso Santoro, c’è da scommetterci, non finisce qui. Ci sarà un contrattacco, non sarà il primo né l’ultimo. Ma dopo mesi, per non dire anni, di mediocre gestione e di andamento inconcludente, è possibile che dall’inatteso blitz di ieri pomeriggio al settimo piano di viale Mazzini venga un segno di cambiamento.

Così si chiude la seconda Repubblica della tv

(di Maurizio CaverzanIl Giornale) The End. Sulla seconda Tele-Repubblica scorrono i titoli di coda. Finisce un’epoca. Una lunga, formidabile, stagione. Tramonta un intero sistema politico e mediatico, rappresentato dall’inesausta e rovente sfida tra Michele Santoro e il premier Silvio Berlusconi. Il più istrionico e influente degli uomini di televisione. Il più carismatico e innovativo dei leader politici dell’ultimo ventennio. Avversari e nemici acerrimi. Faccia a faccia, anche se sempre a distanza. Come in Face off. O come in Duel: un combattimento frontale, senza titubanze. Ora cambierà tutto (ci auguriamo). Ieri il conduttore di Annozero ha firmato il divorzio consensuale dalla Rai e forse già oggi annuncerà il trasloco a La7, con la quale è in corso una trattativa giunta in fase molto avanzata. Vedremo. Restando ai fatti certi, si può dire fin d’ora che la scena politica e mediatica del Paese cambia. Cambierà sia se Santoro rimanesse alla Rai, con un rapporto di collaborazione da definire, sia se approdasse nella tv di Telecom Italia Media, un canale che non è finanziato da denaro pubblico.

Nel 1995 quando tramonta il progetto di Telesogno con Maurizio Costanzo e Carlo Freccero, Michele Santoro ha già alle spalle Samarcanda, Il Rosso e il nero e Tempo reale, talk show di successo di Raitre nei quali ha raccontato la caduta del Muro di Berlino, l’avvento della Lega, l’esplosione di Tangentopoli, l’inizio della seconda Repubblica. Nel 1996 lascia la Rai e diventa un dipendente Mediaset con la carica di direttore per condurre su Italia 1 Moby Dick. Berlusconi è all’opposizione e lui non ha né convenienza né ragioni per dichiarargli guerra. Nel ’99 Enzo Siciliano, il dg che aveva coniato il famoso «Michele chi?», se ne va e ora lui può tornare all’ovile della tv di Stato. Ricomincia da Raiuno fin quando il nuovo dg Pierluigi Celli lo dirotta sulla Raidue di Freccero. Nel Duemila firma Sciuscià (con l’inchiesta sulla Sardegna dei ricchi e un Lele Mora già allora in grande ascesa) e l’anno dopo inizia Il Raggio verde, subito schierata contro il centrodestra. Alla vigilia delle elezioni del 2001 scoppia il caso Satyricon con l’intervista di Travaglio a Daniele Luttazzi. Quando, anziché realizzare una puntata riparatoria, Santoro manda in onda un’intervista a Paolo Borsellino, Berlusconi telefona accusando il conduttore di avere istruito «un processo in diretta». Lo scambio è al fulmicotone. Il conduttore minaccia d’interrompere il collegamento, Berlusconi intima: «Santoro si contenga, lei è un dipendente della Rai»; «Ma non sono un suo dipendente», è la replica.

Berlusconi vince le elezioni e, nell’aprile del 2002 da Sofia accusa Biagi, Santoro e Luttazzi di aver fatto «un uso criminoso della tv». The Duel raggiunge il suo climax: Santoro definisce il premier «un vigliacco che abusa dei suoi poteri per colpire persone più deboli» e inizia la puntata di Sciuscià intonando Bella ciao. Pochi giorni dopo la Rai cancella il programma e Santoro intenta causa all’azienda. Nel 2004 diventa europarlamentare per l’Ulivo di Romano Prodi, ma l’anno dopo, ottobre 2005, abbandona il seggio e va a Rockpolitik di Adriano Celentano per reclamare il suo microfono. Nel frattempo ha vinto la causa con la Rai, condannata a risarcire un milione e 400mila euro e costretta a rimandarlo in onda nella collocazione suggerita al magistrato dal direttore generale Celli: la prima serata di Raidue. Nel settembre 2006 parte Annozero, collaboratori fissi Travaglio, Vauro e Beatrice Borromeo. La sfida ricomincia, più esasperata che mai. Dalla mafia alle tasse, dalla crisi economica internazionale alla fuga dei cervelli, dalla libertà d’informazione al terremoto dell’Aquila, anche quando al governo c’è Prodi, l’unico colpevole è il Cavaliere. Nello studio di Annozero staziona Di Pietro, Grillo è ben più che assiduo, Luigi De Magistris l’astro nascente. Berlusconi gioca le sue carte per neutralizzare gli effetti dei processi mediatici. Alla vigilia delle regionali 2010 i programmi di approfondimento giornalistico vengono sospesi. Santoro dà vita a Raiperunanotte su Current e una serie di tv e siti collegati, quasi il battesimo televisivo di un suo partito. Qualche settimana più tardi, il dg Mauro Masi annuncia un accordo per la risoluzione del rapporto con Santoro. Ma la trattativa si arena. Fino a ieri.



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