Rassegna stampa dedicata alla miniserie di Rai1 Gli anni spezzati, in sei puntate. Il primo racconto Il commissario, con Emilio Solfrizzi, ha totalizzato 5 milioni 141 mila telespettatori (18.67% di share) nella prima puntata mentre la seconda è scesa a 4 milioni 629 mila telespettatori (17.14%). “Quando si affrontano certi temi bisogna avere il coraggio di assumersi alcune responsabilità, non bastano le buone intenzioni” scrive Aldo Grasso sul Corriere della Sera, affermando che Il commissario ha troppi personaggi che spesso stingono in caricatura:
La trilogia de Gli anni spezzati affronta fatti che grondano ancora sangue (la strage di Piazza Fontana, l’omicidio del commissario Calabresi, il terrorismo politico, gli intrighi di Stato…); ma raccontare i dieci anni «che hanno sconvolto l’Italia» significa innanzitutto prendersi una responsabilità storica. La Rai ha la forza di dire com’è morto Pinelli? Gli sceneggiatori, al di là dei libri a cui si ispirano, hanno l’autorevolezza per far luce su quelle tenebre? L’impressione, vedendo «Il commissario», è che gli sceneggiatori Graziano Diana, Stefano Marcocci e Domenico Tommasetti si siano limitati a mettere in fila i fatti di cronaca eludendo ogni risposta decisiva. Ma la responsabilità più grande che viene a mancare è quella della scrittura. A parte la scelta iniziale di far raccontare la storia a un giovane militare di leva romano, Claudio Boccia (Emanuele Bosi), assegnato alla caserma Cadorna, tutto il resto è insipienza narrativa. Le figure del commissario Calabresi (Emilio Solfrizzi), di Giuseppe Pinelli (Paolo Calabresi), o quelle di Pietro Valpreda, Camilla Cederna, Giampaolo Pansa, Giangiacomo Feltrinelli spesso stingono in caricatura, anche visiva, non hanno alcuna profondità, né umana né storica. I dialoghi sono improbabili e, soprattutto, il materiale di repertorio, nella sua sfrontata secchezza, mette in serio imbarazzo i tentativi scenici di ricostruzione. Come fossero due epoche differenti. Uno dei compiti principali della fiction del Servizio pubblico sarebbe quello di raccontare il nostro passato, avendo però la forza di esprimere una linea editoriale, qualcosa che faccia riflettere, distolga lo spettatore dall’indolenza espressiva. Qui si naviga fra la più astratta aridità dei luoghi comuni e il garbuglio dei buoni sentimenti.
Per Stefania Carini i fatti si susseguono come in un bigino storico. Infatti nella sua rubrica Teledipendente su Europa Quotidiano scrive che nella fiction ”non c’è evoluzione drammaturgica, e il supposto legame che dovrebbe instaurarsi tra Calabresi e la giovane recluta è inesistente, perché non basato su un vero contrasto di posizioni. Tutto è detto, niente è vissuto: i dialoghi sono lucide proclamazioni d’intenti, non portano avanti la personalità dei personaggi. Certo, sono anni difficili da descrivere, ma qui si ha paura di dire o mostrare qualsiasi cosa di vagamente forte, scorretto, articolato, e così paiono anni scialbi più che spezzati. Solfrizzi ci crede, ma non basta. Perché poi c’è tutto il contorno fastidioso: ricostruzione storica da dilettanti, figure di secondo piano ridicole, musica senza senso, regia che non sa dove andare, trucco&parrucco assurdi, cadenze degli attori sbagliate. E così è l’ennesima occasione persa”.
Anche per Maurizio Caverzan de Il Giornale si tratta di una fiction “quasi da sussidiario, che livella le situazioni problematiche forse nell’intento di aggregare il pubblico della tv generalista. Una fiction semplificata, sovrabbondante di commento musicale e un tantino approssimativa in alcuni passaggi, con abbozzi rimasti incompiuti come, ad esempio, la cosiddetta pista veneta. Anche lo sviluppo narrativo procede in modo elementare, piuttosto a disagio negli esterni e negli scontri di piazza, quasi sempre ripresi in campo stretto”. Tuttavia per Caverzan è la prima volta che in televisione l’inizio degli anni di piombo è visto con gli occhi e i sentimenti di un rappresentante delle forze dell’ordine che ci ha rimesso la vita. Infatti “l’obiettivo degli autori è costruire una sorta di agiografia civile di Calabresi. E così, nella bagarre dei primi cortei violenti e in mezzo alle rivolte con molotov e lacrimogeni, il commissario emerge come un uomo retto, quasi un terzista ante litteram, distante dalle zone grigie dei servizi segreti, dagli apparati più opachi dello Stato, ma anche dalle ideologie eversive e antimperialiste che cominciavano, funestamente, ad attecchire”.
Infine per Alessandra Comazzi il risultato della fiction è discreto, come discreto è il racconto. Nella sua rubrica Cose di tele, la critica de La Stampa scrive che ”Non si parte con un flashback, e questo è già un punto da encomio, ma dal racconto soggettivo di un agente. Solfrizzi è bravo, misurato, riesce a rendere l’umanità, il senso del dovere, l’acume del commissario; bravo un omonimo, Paolo Calabresi, che fa Pinelli. Fuori parte Luisa Ranieri nel ruolo della moglie del commissario. Insopportabili le musichette di sottofondo, roboanti, romantiche, sdolcinate, sempre fuori luogo. Svolgimento corretto, ma è come se mancasse di passione. Forse, d’altronde, era proprio questo il risultato che si voleva ottenere”. La giornalista si pone anche una domanda: “se l’avesse girata Spielberg, la storia, avrebbe avuto un altro respiro. Ci vorrebbe lui per raccontare gli anni di piombo italiani? Forse sì. Per l’epica e per la denuncia, per l’analisi e per la sintesi, per la prassi e per l’ideale. Noi siamo fiacchi”.