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RASSEGNA STAMPA/ Il ritorno di Fazio-Saviano con Quello che (non) ho, il festival della parola

Creato il 16 maggio 2012 da Iltelevisionario

RASSEGNA STAMPA/ Il ritorno di Fazio-Saviano con Quello che (non) ho, il festival della parolaRassegna stampa dedicata al programma Quello che (non) ho, il festival della “parola” condotto da Fabio Fazio e Roberto Saviano su La7. La prima puntata in onda lunedì 14 è stata seguita da 3 milioni 36 mila telespettatori (pari al 12.66% di share) mentre la seconda, trasmessa ieri sera, ha subito un leggero calo registrando 2 milioni 767 mila (12.29%) con picchi di 3,9 milioni di telespettatori (alle 22.28) e del 19.28% di share (alle 00.26). Ovviamente sono lontani i clamorosi ascolti registrati nel 2010 da Vieni via con me presentato dalla stessa coppia su Rai3 (la trasmissione aveva ottenuto infatti una media di 8 milioni 748mila telespettatori, 29.11% di share).

Rito da maestro Manzi nel clima di redenzione

(di Aldo Grasso – Corriere della Sera) Il destino delle parole è che invecchiano e si usurano con gli uomini che le usano. Un po’ martire, un po’ rockstar Roberto Saviano vive di parole, ha costruito il suo successo con le parole e, nonostante la giovane età, viene già osannato come un venerato maestro. Così, con l’aiuto di Fabio Fazio e di illustri «parolieri» come Francesco Piccolo e Michele Serra (seduti in prima fila), ha trovato ospitalità su La7 per ripensare le parole che usiamo (idea non nuovissima). Se un tempo le Officine Grandi riparazioni di Torino servivano a riparare i treni, adesso, come location, riparano parole. Una sfilata di ospiti illustri o meno prende una parola e la spolvera. Annotava nei suoi diari Lev Tolstoj: «Se tutta la complessa vita di molti passa inconsciamente, allora è come se non ci fosse mai stata». Questo è il destino delle parole: a furia di ripeterle, di sentirle nella quotidianità diventano gusci vuoti. Solo i veri scrittori sanno restituire loro il senso della vita, sanno restituircele come «visione» non come «riconoscimento». Fazio e Saviano vogliono educarci, redimerci, farci sentire migliori. Senza gioia, con pedanteria. Le loro trasmissioni sono le sole eredi del maestro Manzi, le sole dove la noia viene scambiata per insegnamento, la demagogia per redenzione, la retorica per vaticinio. E, ovviamente, hanno successo perché la tv del dolore conosce tante forme, anche quella di predicare sui suicidi o sui bambini di Beslan. Il clima è sempre quello del rito, della celebrazione: una sorta di consacrazione laica della parola, una necessaria penitenza perché lo sproloquio si offra a noi come eloquio. Sotto le parole, niente. Solo un po’ di omelia televisiva, dove quello che non ho si confonde volentieri con quello che non so. La debolezza di questo reading è che tutti ti fanno venire il senso di colpa, persino Pupi Avati con i suoi ricordi felliniani al borotalco, persino il duo Travaglio-Lerner: se non sei impegnato, sei non vuoi cambiare il mondo con noi, se non usi le parole come arma di difesa civile, insomma sei poco propenso alla bacchettoneria, che tu sia dannato in eterno. Fra i tanti luoghi comuni, ci sono anche le parole che il ceto medio riflessivo non dovrebbe mai pronunciare perché fanno cafone: sbaglio o la parola marketta non c’era?

Fazio-Saviano tornano i riparatori di grandi parole

(di Alessandra Comazzi – La Stampa) Sul maestoso palcoscenico delle Ogr di Torino, la fisicità del ferro resa liquida da quel materiale che si chiama «switch glass», seconda puntata su La7 di Quello che (non) ho . Puntata più sciolta, i buoni risultati hanno evidentemente confortato tutti. Irrompe Maria Callas che canta Casta diva , dalla Norma . E pure della Norma parlava una missiva, spedita al boss «zio» Michele Zagaria, letta da Elio Germano, che a Roberto Saviano è servita come base per il suo primo monologo, dedicato a decodificare i linguaggi, i codici della mafia. «Difendendo la parola, difendiamo anche il nostro territorio». I pizzini nell’era di Facebook. Domani è un altro giorno e del doman non v’è certezza. Ma intanto a La7 gioiscono: il primo appuntamento è stato seguito da 3 milioni 36 mila telespettatori, 9 milioni di contatti, 12,66% di share. Record assoluto per la rete, triplicato il seguito medio della prima serata, tutti contenti, dalla coppia FazioSaviano alla impegnativa produzione Endemol al direttore Paolo Ruffini che, se proprio dovrà essere venduto e comprato insieme con l’emittente, potrà presentare le sue medaglie. Ieri la formula del «programma di parola» si è consolidata. Posto che le parole si stanno deteriorando, e nelle Officine Grandi Riparazioni di Torino si aggiustavano i treni, ecco un modo per riparare alcune parole care. Ogni ospite porta la sua. Mare, per Achille Selleri, tenente di vascello di Lampedusa; resistenza, per la partigiana Vanda Bianchi; quaderno, per Scola; simpatia, per Raffaele La Capria; stronzo, parlando con pardon, per Littizzetto; pietra, per Rocco Papaleo; stupore per Nicola Piovani. La parola di giornata di Massimo Gramellini è stata: benefattore. Saviano ha raccontato anche la vita dei testimoni di giustizia; ha introdotto Leena Ben Mhenni che ha ricordato le primavere arabe, e poi gli «scortati», alcuni giornalisti e testimoni di giustizia sotto protezione: «La scorta è come un incidente. Lo Stato ti difende per difendere anche un diritto fondamentale: il diritto alla parola. Le parole hanno messo paura alle mafie: sono loro ad essere fondamentali». Luoghi comuni. Fazio e Littizzetto se ne sono palleggiati alcuni straordinari: «I giovani si drogano tutti. A diciott’anni hanno già la macchina. Quelli con il Suv sono tutti stronzi. Il vino vero è solo quello rosso. Il tartufo vero è solo quello bianco. La cioccolata vera è solo quella fondente. È tutto un magna magna. Per forza poi c’è Grillo. Casini è un bell’uomo. Fini parla bene. Bersani poverino, è una brava persona. Meno male che c’è Napolitano». Musica. La prima sera sembrava un po’ appiccicata. Ieri Francesco Guccini in arancione ha recuperato con la sua parola: cantautore. E Capossela, con la parola «Grecia», ha proposto un arrangiamento di Quello che non ho semplicemente struggente.

“Quello che (non) ho”, la cronaca che diventa solennità

(di Massimiliano Panarari – La Stampa) Passate a miglior vita le ideologie, c’è ancora (e, anzi, ancor più…) bisogno di narrazioni. Non sono i grands récits di cui il filosofo francese Jean-François Lyotard stilò, tra i primi, il referto di decesso, ma sempre di racconti si tratta. O meglio, di monologhi intorno a singole parole, come quelli messi in scena anche nella seconda puntata di Quello che (non) ho. È il ritorno, in grande stile e grossi numeri (con la conseguente boccata d’ossigeno per La7, ultimamente un po’ in carenza di audience), di una tv pedagogica, nella quale Roberto Saviano recita il ruolo di maestro e istitutore e gli ascoltatori si stringono intorno a lui, come una classe, per ascoltarlo. Con autentica gratitudine per avere reimmesso nel circuito catodico generalista delle prime serate e degli share importanti una televisione seria e dall’incedere solenne. Integralmente parlata e di contenuti, e all’apparenza decisamente “antitelevisiva” (rispetto al modello di piccolo schermo partorito all’alba degli anni Ottanta), ma in grado di imporre un format che, come diceva, infatti, ieri sera Fabio Fazio nella finestra di lancio all’interno del tg, si presenta, in maniera eminente, come un «reading teatrale». Ecco, allora, che Saviano, il giovane scrittore costretto a vivere sotto scorta per il suo impegno antimafia, diventa, al tempo stesso, recitatore di narrazioni engagé ed emotivamente intense e officiante di un rito laico, che si svolge, in maniera esemplare, sotto le volte di quella maestosa “cattedrale del lavoro” rappresentata dalle torinesi Officine Grandi Riparazioni. E, difatti, non vi è nulla di più assimilabile a una comunità e a una cerimonia non religiosa della scuola, come ben sapevano Francesco De Sanctis e i ministri della Pubblica Istruzione dell’Italia unitaria che la concepirono proprio in questi termini. Qui sta la forza di Quello che (non) ho : l’offerta di un’esperienza pedagogica, scelta intenzionalmente (e non subita), e la fruizione condivisa di una serie di idee ed emozioni a beneficio di un pubblico composto di giovani, “professoresse democratiche” (come le chiamava Edmondo Berselli) e pezzi nutriti dell’oggi assai variopinto “popolo della sinistra”, precisamente i (numerosi) target estromessi, in questi anni, dalla programmazione della televisione generalista. Ovvero altrettante persone nauseate dalla tv trash (quella delle urla, del dolore, della donna ridotta a collage di parti anatomiche), stanche del “pensiero debolissimo” e in cerca di qualità. Esattamente quella che haQuello che (non) ho , insieme alla capacità di produrre, nei suoi telespettatori, identità. Perché gli uomini hanno bisogno di riti, e di pluralismo catodico. E, dunque, libero telecomando in libero Stato, facoltà fondamentale della nostra sovranità televisiva, che trasmissioni come queste ci restituiscono. Attraverso parole, parole, e ancora parole. Perché le parole (come i simboli) sono (davvero) importanti…

Saviano-Fazio, giri scontati sulle parole

(di Mirella Poggialini – L’Avvenire) Doveva essere uno spettacolo, è apparso come una sorta di missione, con il compito di rivelare verità profonde e rinnovare la visione del mondo. Il che non è naturalmente avvenuto, nella prima puntata di Quello che (non ) ho ospitata su La7 lunedì sera, comunque vista da 3.036.000 spettatori, share 12.66%: e Fazio e Saviano, con il tono compreso e assorto di chi trasmette verità assolute, hanno introdotto i loro portatori di parole, eterogenea e interessante schiera di volti noti. Peccato che molti si proponessero come narratori di autobiografie, facendo delle parole-simbolo via via presentate dei contenitori vuoti, dei pretesti per passare oltre: e uno degli elementi più notevoli del lungo programma era l’osservare l’impegno e l’impaccio che sottolineavano, per alcuni degli ospiti, la soddisfazione di poter finalmente parlare, dire, spiegare e proclamare. E se a poco a poco l’interesse scemava, se l’eco di Celentano e la voglia di emulare – invano – Marco Paolini segnavano gli interventi più enfatici, in una scenografia suggestiva e musiche appropriate, chi osservava poneva inevitabilmente a confronto le sue, di parole, e quelle che il palcoscenico amplificava, con il filo conduttore di un’analisi sociale nella quale il fallimento e l’ansia diventavano motivo di una facile omiletica, cioè apparivano predicatori, per dirla con una bella parola – un’altra! – “difficile” e autorevole. Per contro, l’intervento di una spaesata Littizzetto, che ha cercato nella vena scurrile risorse da trovare altrove, ha dimostrato come il ritmo e il tono siano importanti per la tenuta e la compattezza di un programma: e il raccontare di Saviano, intenso nel descrivere il male nelle sue forme più aspre, si perdeva in qualche modo nella vastità di un palcoscenico vuoto, in una ampia epesegetica (altra parola, per “spiegazione”, che sa di antico) adatta al testo scritto più che all’eloquio. Così che delle parole-assioma, delle parole-grimaldello di messaggi nuovi, restavano nella mente solo impressioni: lo schermo ha rimandato immagini, più che parole.

Fazio e Saviano: potete regalare anche speranze

(di Beppe Severgnini – Corriere della Sera) La seconda puntata è sembrata diversa dalla prima: forse non ottimista, ma meno cupa. «Casta Diva» in apertura, un classico Saviano sulla semiotica camorrista, un Capossela ellenico, un filologico Guccini, uno svagato Papaleo, la solita impeccabile Elisa, verdurieri e marinai. Fabio Fazio più rilassato, come un gatto che ha preso la misura delle stanze. Ma «Quello che (non) ho» ha deciso di restare fedele al titolo, e di raccontare un Paese concentrato più sulle sue mancanze che sulle sue speranze. Diciamolo: c’era bisogno di aprire la prima puntata con i suicidi in serie? Forse l’Italia frastornata e scossa avrebbe bisogno d’altro. Non dei trastulli beceri con cui, nel passato recente, ci siamo – o ci hanno – distratti. Ma l’empatia di cui sono capaci Fazio e Saviano, forse, poteva essere utilizzata altrimenti. I suicidi sono materiale da maneggiare con cautela: il rischio dell’autosuggestione e dell’imitazione è forte. C’era bisogno di proseguire, lunedì, con la strage di Beslan del 2004? Una delle vicende più angosciose del nostro passato recente, 186 bambini trucidati in una scuola, una macchia precoce e indelebile sul secolo già segnato dall’11 settembre. Otto anni dopo, era necessario riesumare l’orrore? Si dirà che certe vicende vanno ricordate affinché non si ripetano; che i bambini sono troppo preziosi per non difenderli; che, per farlo, servono anche le parole.  È vero. Ma è altrettanto vero che, in ogni momento, siamo in equilibrio tra la gioia di vivere e l’orrore nella vita: e ogni tanto è bene ricordarci della prima. Questo è uno di questi momenti. L’Italia è cambiata più in sei mesi che negli ultimi sedici anni. E potrebbe non bastare aver capito – tardi – che occorre lavorare di più e rubare di meno, perché le bufere arrivano da lontano. La televisione non dev’essere per forza consolatoria; ma neppure obbligatoriamente ansiogena. Spero, con questo, di non essere classificato come un detrattore di Saviano, perché non lo sono. Ho voluto conoscerlo, in autunno, durante il soggiorno americano; e in precedenza, sul Corriere, avevo scritto: se ha una colpa, è avere avuto successo (una cose che il prossimo difficilmente perdona). Per questo vorrei ricordargli ciò che già sa. L’Italia, con fatica, sta cambiando; e dovremmo provare a cambiare anche noi che la raccontiamo. Deve esistere una via di mezzo, in questo benedetto Paese: non possiamo essere condannati a scegliere tra la marcia funebre e la tarantella, tra l’angoscia e la rimozione. Neppure autori bravi e navigati come Michele Serra e Francesco Piccolo sono riusciti ad allontanare il programma da questi scogli. «Quello che (non) ho» (2012) somiglia molto a «Vieni via con me» (2010). Ma quello era lo strappo necessario in una televisione conformista e schierata; questo è la mano in faccia di chi piange, e invece dovrebbe guardare avanti.  Twitter, ancora una volta, ha mostrato la sua capacità di intuizione collettiva. Anche qui ci sono – a imitazione dei media tradizionali – le bande preventivamente schierate: i santificatori, per cui Fazio e Santoro non possono sbagliare nulla; e i demolitori, per cui i due sono manipolatori di folle, qualunque cosa facciano (anzi: prima che l’abbiano fatta). Ma l’etichetta #quellochenonho, soprattutto lunedì, mostrava una diffusa perplessità. Molti, pur ammirando gli interpreti, dubitano dello spartito. La seconda puntata, come abbiamo detto, ha corretto in parte questi errori. La trasmissione «senza gioia» (Aldo Grasso) non è diventata, improvvisamente, divertente; non poteva né voleva farlo. Ma l’impressione è che autori, conduttori e ospiti abbiano capito: serenità non è sinonimo di disimpegno. Neppure per la sinistra classica, abbondantemente rappresentata in trasmissione. Storture e assurdità ci sono ed è giusto raccontarle, visto che troppi in Italia hanno interesse a nasconderle. Ci sono nella politica ottusa (Lerner/Travaglio) e nella finanza ingorda (Paolo Rossi), nell’Europa sorda (Gramellini) e nella violenza domestica (Littizzetto, che per una volta poteva evitare le escursioni anatomiche). Ma non è il caso di abbattere una nazione abbattuta. Ci pensano già i cattivi. I buoni, soprattutto se hanno una telecamera puntata addosso, cerchino di rialzarla, e la convincano a ripartire. Si può fare.

Meglio la fiction sulla Brianza del Saviano «telepredicatore»

L’altro ieri sera, mentre Fabio Fazio e Roberto Saviano snocciolavano parole e orazioni nel corso di Quello che (non) ho, programma in onda su La7, sette milioni e mezzo di italiani restavano inchiodati per la sesta volta di fila di fronte alla fiction di Raiuno, Una grande famiglia. Il successo di pubblico della «coppia dell’impegno» (un ottimo 12,66 per cento, record per La7, pari a circa 3 milioni di spettatori) non ha scalfito minimamente lo zoccolo durissimo dei fan della serie scritta da Ivan Cotroneo, genietto delle più innovative serie tv. Sostenere che il pubblico di Una grande famiglia fosse solo in cerca di svago, al contrario di Quello che non ho, sarebbe un errore. A che spettacolo ha assistito infatti chi si è sintonizzato sul primo canale della tv di Stato? Non certo a uno show incapace di entrare, coi modi tipici del racconto, proprio quelli che piacciono a Saviano, nella più viva attualità. Nella storia tragica, misteriosa e infine felice (ma durerà? Lo sapremo nel sequel) dei Rengoni, titolari di un mobilificio in Brianza, lo spettatore infatti ha potuto vedere: due generazioni di piccoli imprenditori del Nord alle prese con la concorrenza globalizzata; un ritratto credibile di una parte del Paese raramente rappresentata sugli schermi; il tentativo scorretto di una Banca di appropriarsi del mobilificio di famiglia al fine di piazzarlo alla concorrenza; l’alleanza, un tempo irrituale oggi più abituale, fra imprenditori e sindacati in nome della comune lotta contro la recessione; una forte etica del lavoro radicata nei proprietari come nei dipendenti, tutti quanti convinti che la fortuna dei primi non sia separabile da quella dei secondi, e viceversa; una solidarietà che discende dal senso della comunità tutt’altro che perduto almeno in certe zone del Nord; una mobilità sociale che non dipende solo dai legami di parentela ma dalla volontà di intraprendere e di rischiare. Questo sul piano economico e sociale. Su quello del costume, è stata trasmessa una scena delicata, giustamente presentata senza falsi pudori ma con la prudenza necessaria per una fiction popolare in onda sulla rete ammiraglia della Rai: un bacio omosessuale, accompagnato prima dall’incomprensione dei genitori, poi dalla riappacificazione. Discutibile ma coraggioso e soprattutto fatto senza urtare la sensibilità altrui: il modo migliore per far passare un messaggio. Infine, per quanto riguarda ancora la famiglia, lo scontro-incontro fra genitori e figli ha mostrato quanto possa essere talvolta difficile la convivenza fra caratteri diversi. Ma anche la situazione più complicata si ricompone e trova soluzione perch´, banalmente (ma è poi così banale?) i legami profondi non si lasciano troncare da divergenze in fondo marginali. Nel frattempo, Roberto Saviano affrontava temi simili, in chiave più drammatica. Se la crisi, su Raiuno, era racconto, certo edulcorato, su La7 era orazione civile. Condita però da un narcisismo ostentato, a tratti fastidioso («Il governo mi deve ascoltare» dice a un certo punto Roberto. E perch´ mai? Non farebbe meglio ad ascoltare i parenti delle vittime e gli imprenditori attualmente nei guai?).  Per carità, nessuno intende sminuire il valore civile dell’intervento di Saviano sul suicidio degli imprenditori abbandonati dallo Stato insolvente. Vi sono stati momenti intensi e commoventi. Qui si vuole solo sottolineare il diverso linguaggio televisivo con cui sono stati affrontati argomenti tutto sommato vicini. La fiction è narrazione; il monologo, in questo caso, è stato orazione, con una spiccata tendenza alla predica. E tra la predica di chi vuole spiegarci come va il mondo, senza che gli sia stata rilasciata la patente di maestro, e la semplice (ma non meno ambiziosa) narrazione di una storia, in moltissimi non hanno avuto dubbi: hanno scelto la seconda. Chi può dire quale, tra le due, quella «impegnata» e quella «leggera», sarà la lezione più duratura?

Com’è tetra la lezione di Saviano

(La Teledipendente di Stefania Carini – Europa Quotidiano) Allegria! Potessimo scegliere, questa è la parola che vorremmo a Quello che (non) ho. L’allegria oggi è così sottostimata, soprattutto da chi vuol fare pensare in tv. Mica deve essere sempre una tortura tetra la cultura. E invece nel programma di La7 pare perpetrarsi una cara vecchia idea, molto borghesuccia, molto paternalistica, anche molto di sinistra. Qualcuno decide che ne sa più di te, e vuole farti la lezione. Punitiva. E tu, che sei un po’ borghesuccio, un po’ sottomesso, un po’ di sinistra, ti senti in colpa della tua ignoranza e così sopporti, attendendo l’assoluzione dai tuoi peccati. E il giorno dopo puoi ricominciare con la solita vita. Ci sono veri e propri riti di espiazione culturale: assistere al Grande Spettacolo Teatrale, visitare la Celebre Mostra d’Artista, sostenere i giovani-vecchi che Fanno Arte. Fazio butta là ironico un OccupyLa7, e pareva riecheggiare quelli di Macao, il collettivo sgomberato il giorno dopo dalla Torre Galfa di Milano. Pretendere uno spazio e farne quel che si vuole: è la vera tendenza della cultura italiana. È anche la tendenza di quest’anno televisivo (Volo, Bignardi, Guzzanti…): senza alcuna vera idea, si va in scena con i propri amici e si monologa autoelogiandosi. È la tv dalla cameretta. La dialettica non esiste, e lo spettacolo di parola della tv, tipico del talk, collassa. Fazio ha l’occhialino nerd, segno che qui fa sul serio. Saviano è sempre in posa. Nei suoi infiniti monologhi qualche fonte la poteva pure citare, in fondo non si trasmette in occasione del Salone del Libro? (Su Beslan, Anna Politkovskaja, Proibito parlare, Mondadori, citata dal nostro in altri suoi interventi non televisivi). La scenografia è enorme, ma tutto si riduce a primi piani sugli ospiti-santini, e a qualche piano più largo nel quale si vede alle loro spalle una videoproiezione. Il visivo non conta, ma la parola rimbomba, e risuona vuota. Non c’è ritmo, è litania. Ci fosse la tv profumata, avremmo sentito odor d’incenso. Prima dello show, da Mentana, Fazio parla delle tre serate citando ironicamente Sanremo. Ed è proprio così: entrambi gli eventi hanno i loro predicatori, solo che Quello che (non) ho si crede più nobile e nobilitante. Eppure c’è una terza via tra il solito trash e l’evento cupo. Si può fare grande cultura e una bella tv senza noia, moralismo, retorica. Basta sostituire al principio del dovere quello del piacere. Alzando sempre il tiro con umiltà, professionalità, allegria.

Fazio e Saviano inventano la Ruota della Sfortuna

(di Massimiliano Lenzi – Il Tempo) Al centro sempre e comunque la lingua – in una cadenza teatrale e monologante: quello che fu declinazione di cronaca e racconto in Vieni via con me – andato in onda su Rai 3 nell’autunno 2010, in piena era berlusconiana – diviene elogio dell’assenza in Quello che (non) ho, su La7 (lunedì, ieri e stasera, alle 21.10) con la coppia Fabio Fazio e Roberto Saviano a rammentare che c’è una nostalgia delle cose che non hanno mai avuto un cominciamento. Certo, i tempi sono cambiati e siamo nell’era tecnica e della crisi dell’Europa ma le parole dimenticate e per questo abusate dall’oblio restano la chiave narrativa che dovrebbe scardinare il resto. Una cerimonia, insomma, sotto la regia sapiente di Duccio Forzano e immersa nella scenografia di ciò che resta delle Officine Grandi Riparazioni di Torino. Un rito, che prende il ritmo lento di una liturgia laica, che sale di minuto in minuto perché le celebrazioni (persino quelle religiose, figuriamoci televisive) funzionano per accumulo. Dal programma di Fabio Fazio, Che Tempo che fa, arriva in eredità la funzione aggregante del parlato, ora non più affidata alla presentazione di un libro o di uno spettacolo ma alla nudità dei vocaboli. È scritto anche nel Vangelo di Giovanni: “In principio fu il Verbo” e il verbo, nel format della coppia Fazio-Saviano, non è Dio ma la laicità dello scritto che diviene morto orale. Entriamo così nel monologo di Saviano che cita John Lennon e parla della crisi, riduce il visto all’osceno (cioè nascosto alla vista), per metterci in ascolto. Anni fa Giuliano Ferrara, che le ha cantate dure a Roberto Saviano, ironizzando sul suo programma di allora (anche quello su La7) Otto e mezzo, disse che si trattava di un programma radiofonico trasmesso in televisione. Anche Quello che (non) ho ha molto del radiofonico, ma i mezzi e il risultato sono diversi. Anzitutto il consenso di pubblico, gli ascolti per la prima puntata di lunedì sono stati ottimi, oltre 3 milioni di spettatori e il 12,66% di share, ma anche la natura televisiva che ha assunto, sin dal tam tam di prima del debutto, la natura dell’evento mediale. Pensato per la televisione, endogeno. Luciana Littizzetto poi, in questo racconto, ci ha sparso qua e là un po’ di sana sapidità ma, a differenza del pensiero di Giuliano Ferrara o di un programma alla Michele Santoro, la coppia Fazio-Saviano resta sempre all’interno del politicamente corretto. Marco Travaglio e Gad Lerner, nella prima puntata, ne hanno incarnato, metaforicamente, assieme allo stesso Saviano, il confine estremo di libertà, anche loro però incastonati dentro la liturgia narrativa che incornicia le ore di trasmissione. La7, e questo riguarda il contesto editoriale, non si è neppure sognata di far dichiarazioni sugli inviti come invece successe, nel 2010, in Rai quando per Vieni via con me l’allora Dg della tv pubblica, Mauro Masi, ed il suo vice Antonio Marano scrissero a Paolo Ruffini (all’epoca direttore di Rai 3 ed ora a La7), allarmati dagli inviti a Bersani e Fini, chiamati nel programma a parlare dei valori della sinistra e della destra. Un episodio che creò attorno al programma un’atmosfera epica, da difesa della libertà, con i due politici che andarono in trasmissione e con Marano a sollecitare: “Allora invitate anche gli esponenti degli altri partiti”. Altri tempi. Oggi, dopo aver visto la puntata del debutto, Quello che (non) ho dovrebbe vestire l’antitesi al ruolo assunto dalle parole nei quiz popolari (ricordate il programma di Mike Bongiorno, La Ruota della fortuna, in cui si compravano vocali o consonanti?), quasi che potesse esistere un programma alto e di grande pubblico, estraneo al volgare televisivo. Comunque vada, parlate in pace.


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