Dopo solo due settimane, Canale5 ha sospeso la nuova versione di Dallas a causa degli ascolti troppo bassi. Infatti la prima puntata era stata seguita martedì 16 ottobre da 2 milioni 302 mila telespettatori (pari al 8.27% di share), scesi a 1 milione 705 mila (5.72%) nella seconda. Dopo la sospensione della programmazione su Canale5, il nuovo Dallas si sposterà su La5, dove andrà in onda dal 30 ottobre in prima serata. Il sequel della serie cult Anni Ottanta ambientata in Texas continuerà dunque ad andare in onda nella serata del martedì ma si sposterà dalla rete ammiraglia alla sorella “minore” con target prevalentemente femminile in onda sul digitale terrestre.
Ultima fermata Dallas
(di Massimo Gramellini – La Stampa) Dopo Silvio, anche J. R. ha fatto un passo indietro, precipitando in un burrone di sbadigli che ha costretto Canale 5 a sospendere la nuova serie di Dallas già alla seconda puntata. Ogni tanto la vita sa offrire coincidenze ineffabili. Chi fra voi è diversamente giovane ricorderà come la saga dei petrolieri texani abbia segnato il destino pubblico del Cavaliere. Prima di Dallas, un imprenditore in carriera come tanti. Dopo Dallas, il rabdomante dei gusti popolari che acquista uno sceneggiato americano rottamato dalla Rai e trasforma Canale 5 e se stesso in fenomeni televisivi di massa. Esagerando un po’, ma neppure troppo, senza Dallas non avremmo avuto il ventennio berlusconiano. Fu quel telefilm a lanciare la tv commerciale in Italia e a rieducare al ribasso i palati degli italiani, abituandoli al lusso volgare, alla ricchezza ostentata, al cinismo simpatico e agli altri stereotipi con cui la cultura pop degli Anni Ottanta ha innervato la proposta politica del berlusconismo. La riproposizione, trent’anni dopo, di quei valori di sfrontato materialismo va letto come l’ultimo tentativo di restare aggrappati a un mondo della memoria. L’esito è stato inevitabilmente patetico. La seconda serie di Dallas, con i divi incartapecoriti che si muovevano fra giovani affamati di denaro e potere, restituiva l’atmosfera falsamente allegra di certe «cene eleganti» o, nei momenti peggiori, dei vertici di palazzo Grazioli. E la faccia liftata dell’ottantenne J.R. richiamava inesorabilmente quella che ieri, col sopracciglio sinistro ormai paralizzato dal bisturi, ha letto sul gobbo di una telecamera il suo testamento politico.
Non è più tempo di «Dallas»
(di Renato Franco – Corrriere della Sera) È finita l’epopea dei cowboy cafoni che lottano per il petrolio. Questo lifting fuori tempo – come tutti i lifting, anche quando sono in tempo – ha lasciato perplessi i telespettatori. Che hanno assistito (in pochi) a quello che pareva un ritrovo di reduci, di quelli che mettono una tristezza infinita. Che si sono ritrovati (sempre in pochi) a spiare quello che succedeva in una dependance di Villa Arzilla (con tutto il rispetto per le dependance). Guardare quelle facce tirate, liftate, piallate, tutta sagomate in una medesima monoespressione, ha spinto molti a pigiare su un altro tasto del telecomando, con quel senso di imbarazzo che prende quando ci si vergogna per qualcuno che in tv sta facendo una figuraccia imitando il se stesso che fu. Canale 5 stacca la spina al nuovo «Dallas». Troppo flebili i battiti di share, prima l’8%, poi il 5%. Una situazione disperata che ha reso vani i tentativi di rianimazione, così alla fine non c’è stato nulla da fare se non prendere atto del decesso. Nonostante il doping di una campagna mediatica e pubblicitaria massiccia, nonostante le repliche quasi a reti unificate (Rete4 e Canale 5), «Dallas» ci ha lasciato dopo due sole puntate. Poteva sembrare un’operazione nostalgia, un tuffo amarcord, un riflusso vintage – prendere tre protagonisti di una serie il cui episodio finale della stagione 1979-1980 venne visto da 85 milioni di americani e riportarli alle antiche trame. E così è stato, una frana di telespettatori, un tracollo di Auditel, un naufragio di share. Trentacinque anni dopo non interessano più le vicende di Larry Hagman (John Ross, abbreviato in J.R., italianizzato in Gei Ar), il cattivo che conosce due sole espressioni, quella da carogna con il cappello da cowboy in testa e quella da carogna senza cappello. Trentacinque anni dopo non ha più senso vedere che fine ha fatto Patrick Duffy (Bobby), il fratello di Gei Ar, apparentemente il buono, anche se un fondo di rancore e perfidia è nel dna di tutta la famiglia, dunque anche lui, sotto quell’aria eternamente glabra, non ne è esente. Trentacinque anni dopo gli spettatori pensavano che Linda Gray – l’alcolizzata Sue Ellen, che quando chiede un dito di vino, intende in verticale – fosse ormai buona solo per gli Alcolisti Anonimi e non avevano nessuna intenzione di toglierla dal freezer dei ricordi. Non è servito a niente cercare di ringiovanire le trame di odi ormai stantii mettendo uno contro l’altro i due cugini, John Ross III, figlio di Gei Ar, e Christopher Ewing, il figlio adottato di Bobby. A scimmiottare di nuovo le faide, cane contro cane, in un digrignare di denti ormai consunti, le cattiverie che si facevano i due fratelli in nome del dio petrolio. Il mondo è cambiato intorno a loro, ma loro non se ne sono accorti, come quei soldati giapponesi nelle isole del Pacifico che credevano ci fosse ancora la guerra. Il vecchio «Dallas» fu uno dei pilastri su cui quella che oggi è Mediaset ha costruito le basi del suo impero televisivo, fu un trampolino di lancio per Canale 5 e per il Berlusconi imprenditore. Oggi non è più tempo né dell’uno né dell’altro. R.I.P.