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In effetti il termine esatto riportato su wikipedia sarebbe “accettazione”, ma sento che, per quanto mi riguarda, è molto più adatto rassegnazione.
Accettazione è una parola che non mi è mai piaciuta. Non potrò mai accettare, per esempio, la morte dei miei cari, ma rassegnarmi alla loro mancanza. Posso rassegnarmi al fatto di essere stato rovinato da un piccolo ometto presuntuoso, ma non lo accetterò mai fintanto che il mio cervello non sarà assalito da qualche malattia degenerativa che possa impedirmi di ricordarlo.
Le parole sono importanti e tra accettazione e rassegnazione passa una bella differenza. Per questo posso rassegnarmi ai rovesci della vita, ma non significa che li debba accettare.
È un po’ come accettare il fatto di arrivare sempre troppo presto o troppo tardi alle occasioni che la vita riserva. Posso rassegnarmi, ma accettare è un termine che implica un obbligo: o accetti oppure no, o mangi la minestra o salti la finestra.
Per esempio, nel 1968 ero solo in prima elementare, e quindi non ho avuto nemmeno la lontanissima percezione che il mondo stava cambiando. Quell’estate ero in colonia a Pinarella di Cervia e cantilenavo assieme ai compagni quella che sembrava una stupida filastrocca: “Lu-ce, svo-bo-da, lu-ce, svo-bo-da” senza avere la minima idea di cosa potesse significare. Anni dopo ho capito che Luce stava per Dubcek, e svoboda il cognome di Ludvik Svoboda. Era probabilmente una conseguenza della cosiddetta primavera di Praga, durata un refolo di vento; il 21 agosto i carri armati sovietici invasero la Cecoslovacchia, schiacciando quella breve illusione di libertà.
E io cosa ne sapevo? Un emerito niente. Solo una cantilena che avrò sentito in qualche telegiornale. Troppo in anticipo sui tempi, ho vissuto nella mia bambinaggine un momento così importante.
I Beatles si sciolsero più o meno nel 1970, me li hanno scippati a otto anni mentre muovevo i primi passi nella musica "seria". Quando al liceo ho acciuffato per i capelli gli ultimi scampoli del progressive rock, già stava arrivando il punk e l’elettronica degli anni ‘80. Anche questa volta, troppo giovane per essere un hippy o un figlio dei fiori.
Potevo fare l’indiano metropolitano, o buttarmi nella sinistra extraparlamentare ma, gli anni di piombo, mi hanno sorpreso quattordicenne e, onestamente, le manifestazioni di quei tempi mi facevano cagare sotto. Preferivo prendere le cose di striscio, leccare le briciole, andare ai concerti, cazzeggiare al Macondo, ma ero troppo vigliacco, o troppo giovane, per rischiare le manganellate, o partire per l’India in cerca di non so cosa. Altra occasione in cui sono stato maledettamente in anticipo sui tempi.
Mi sono invece sentito in ritardo quando ho cominciato a lavorare in un mondo, quello della comunicazione, che, appena qualche anno prima, vedevo come un lontano miraggio. Non è stato facile: tanta fatica, tanta gavetta, tante umiliazioni e frustrazioni. Ma alla fine ci sono riuscito, complice un periodo squallido culturalmente, ma in cui giravano tanti soldi. Milano era la città da bere, Craxi il suo padrone e c’era una specie di frenesia, di elettricità, di eccitazione che ci faceva correre come burattini impazziti.
È durato una decina d’anni. Troppo poco per permettermi di affermare la mia personalità, per consolidare la situazione lavorativa.
Poi è arrivata tangentopoli e la crisi finanziaria, la prima guerra del golfo e le difficoltà di rimanere a galla dopo aver appena imparato a nuotare.
In questo caso non si è trattato di anticipo, ma di ritardo. Come diceva Jannacci, se me lo dicevi prima... se solo arrivavi prima...
Oggi non so se devo parlare di anticipi o ritardi, di combinazioni, di sfiga, di karma o, più semplicemente, dare dello stronzo a me stesso.
So che la rassegnazione che mi sta prendendo non è una cosa buona, non è positiva. Forse si sta trasformando in quell’altra brutta parola: accettazione.
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