di Francesco Agnoli*
*scrittore e giornalista
In un’ intervista ai giornalisti americani Henry Margenau e Abraham Varghese, il premio Nobel per la Fisica del 1977 Sir Nevill Mott notava che la cosmologia attuale ci mette di fronte al Principio Antropico, cioè al fatto “indubitabile che le costanti della natura… hanno valori proprio esatti” per permettere la formazione delle stelle e della Terra “su cui noi possiamo vivere”. Se solo esse fossero leggermente diverse, “noi non potremmo esistere”. Continuava poi asserendo: “Io credo che ci sia un gap per cui non ci sarà mai una spiegazione scientifica, e questo gap è la coscienza umana. Nessuno scienziato, in futuro, equipaggiato con un super computer del ventunesimo secolo o oltre, sarà capace di metterlo al lavoro e di mostrare che cosa un uomo stia pensando”.
Anche Sir John Eccles, premio Nobel per la medicina nel 1963, ed autore di “The self and its brain”, con Karl Popper, e di “The Human Psyche”, intervistato dagli stessi personaggi nel 1982, notava che la teoria del Big Bang lo porta ad intravvedere un “Dio trascendente”, cioè Creatore di una “loving creation”. Ma quando si viene all’uomo, continuava, al Dio trascendente occorre affiancare il Dio “immanente”, visibile nella “coscienza personale umana”. Insomma, per arrivare a Dio, ancora oggi, si può partire come sempre o dalla realtà esterna a noi, o dall’uomo, dalla sua natura spirituale, dall’unicità della creatura umana.
Il professor Giovanni Straffelini, dell’Università di Trento, nel suo “L’Anima e i confini dell’umano. Tra scienza, fede e bioetica” (Il Margine), in uscita in questi giorni, ha deciso di partire dall’uomo, dalla sua coscienza, dalla sua anima, secondo le sue competenze scientifiche. Con grande capacità logica e di sintesi, servendosi di numerosi studi, Straffelini ha dimostrato che per la scienza sperimentale si può dire dell’anima quello che avevano già capito secoli orsono filosofi e teologi che non possedevano certo gli strumenti di indagine odierni, e che nulla sapevano delle neuroscienze. Nelle creature viventi, in tutte, esiste un certo grado di coscienza, a seconda della loro complessità. Si potrebbe, per capirci, disegnare un “cono di coscienza” che va via via allargandosi nel passaggio dalle piante e dai virus sino alla persona adulta. Aristotele avrebbe detto che le prime possiedono un’anima vegetativa, gli animali un’anima sensitiva, mentre le persone un’anima intellettiva. La domanda da porci è ora questa: esiste solo una differenza quantitativa tra l’anima di una pianta e quella di un uomo? E’ solo questione di una differenza di grado o vi è anche una differenza qualitativa?
Straffelini ammette i dubbi della scienza, il nostro essere ancora lontani dal sapere qualcosa di definitivo sull’origine della vita e sulla natura dell’anima, ma sottolinea come molti studi portino a propendere per una differenza di qualità, come tale incolmabile. Per intenderci: non siamo solo “scimmie nude”, né sarà tanto facile, per coloro che lo asseriscono, dimostrarlo, magari provando ad educare un animale qualsiasi, il più complesso possibile, a parlare, dipingere o a suonare il pianoforte… L’anima dunque ci riporta a Dio, benché rimanga un “dilemma per la scienza (forse irrisolvibile)”, o meglio forse proprio per questo: con essa, con la riflessione sulla coscienza (come originano la bellezza e i colori della nostra vita dalla piccola massa di materia grigia del nostro cervello?) e sul libero arbitrio, (materialisticamente inspiegabile), giungiamo ad un “qualcosa” di “divino” che ci rimanda ad un’oltre, ad un Senso, al Dio che ci trascende ma che è anche il “Dio con noi” di Eccles.
Dalle speculazioni scientifiche sull’anima, nella II° parte del suo lavoro, Straffelini giunge alla bioetica. Ed analizza la posizione della cosiddetta bioetica laica, che, negando all’embrione, al feto e al neonato, l’anima intellettiva, finisce per considerare l’uomo in fieri, non ancora adulto, alla stregua di un vegetale, o di un animale, e perciò passibile di aborto ed anche di infanticidio. Argomenta Straffelini: «da un punto di vista quantitativo il complesso sistema neuronale del feto è sì confrontabile con quello di un animale con anima sensitiva», ma «lo stesso non si può dire se valutiamo il grado di animatezza considerando anche la dimensione qualitativa». «Le informazioni che sono trasmesse nel cervello del feto con la formazione delle sinapsi e che il cervello stesso comincia ad elaborare e integrare sono, infatti, qualitativamente diverse da quelle che sono trasmesse nel cervello di un animaletto con pari complessità quantitativa, per via delle peculiarità delle conoscenze innate che si stanno concretizzando nei circuiti neurali e nelle primitive rappresentazioni neurali». Per cui si può «considerare il feto come una persona e l’embrione come un essere vivente con la natura di una persona». Non è finita: Straffelini affronta anche il fine vita, condividendo le posizioni di Carlo Alberto Defanti, laico, già medico di Eluana, «noto neurologo… che inizialmente propendeva per il criterio della morte cerebrale e, in un secondo momento, per quello della morte corticale», e che infine è giunto a considerare la “morte cerebrale” come «un punto di non ritorno verso la morte, ma non la morte stessa».