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Recensione di “Solo Dio Perdona” – Refn come anti-Tarantino

Creato il 05 giugno 2013 da Retrò Online Magazine @retr_online

Il cinema di Nicholas Winding Refn ruota attorno un singolo argomento raccontandolo in ogni suo aspetto: la violenza. Dopo il mini-boom di Drive, con cui si è fatto conoscere dal grande pubblico, Refn è emerso come autore underground surreale e di impatto. Le SOLO-DIO-PERDONA-recensioneatmosfere violente e pulp dei suoi film lo porterebbe in competizione con Quentin Tarantino, ma il paragone è inappropriato.

Refn non cerca di realizzare film di cassetta in maniera piaciona o simpatica, ma segue un’intuizione declinando ogni volta il medesimo tema in forma diversa, senza copiare a man bassa dai film altrui e basandosi su idee proprie. A differenza di Tarantino la violenza non è un gioco e non è rappresentata in maniera ruffiana per fingere di essere crudo pur rientrano nella commerciabilità di massa. Qui una singola sciabolata o un arto amputato emerge in tutta la sua realistica crudezza.

In “Solo Dio Perdona” Ryan Gosling interpreta un uomo per cui la violenza è parte della famiglia: Julian, dopo che suo fratello è stato ucciso per aver commesso uno stupro, si trova obbligato ad innescare una gara di ritorsioni contro un influente poliziotto locale, obbligato suo malgrado da una madre spietata, che gestisce il suo rapporto con il figlio come allo stesso modo del giro di narcotraffico di cui è a capo. Sullo sfondo una Bangkok assente, in cui le persone, al pari degli spettatori, possono soltanto assistere a questo passaparola cruento, contribuendo ad accentuare il senso di alienazione che si pone tra i protagonisti e il mondo reale, delle figure che abitano nel mondo ma nel quale non si possono integrare se non marginalmente. Julian stesso è un personaggio freddo e reso apatico dalla violenza che lo ha accompagnato in famiglia, conduce una vita incompleta, capace a stento di comunicare con gli altri, abituato dalla stessa madre a parlare solo un linguaggio di sangue. Sua nemesi è un enigmatico polizotto thailandese, che dispensa una sua personale giustizia grazie alla complicità dei suoi sottoposti, che sfocia in una forma di venerazione.

Solo Dio Perdona richiede allo spettatore un’immersione completa. I tempi sono dilatati e i dialoghi sono ridotti al minimo, come in Drive e Valhalla Rising, lasciando ai personaggi il compito di comunicare tramite “situazioni” e “gesti” anzichè parole o frasi ad effetto. Pur avendo pochissime battute in tutto il film Goslyng riesce ad esternare il diagio del suo protagonista grazie alla microespressività che ha dimostrato di saper padroneggiare: una smorfia, un corrucciarsi appena accennato, uno sguardo distante, gridano tutta l’umanità persa dal suo personaggio.

Un’ottima fotografia incornicia una Thailandia vissuta tra notte e alba, in perenne semioscurità e in molte scene si respirano le atmosfere di David Lynch. Forse l’unico difetto della pellicola è inscenare l’idea che Refn ha delle sue creature senza preoccuparsi troppo di renderla digeribile allo spettatore, che rischia di rimanere spiazzato dall’assenza di dialoghi e da un mix di astrazione e realtà dell’animo oscuro delle persone.

Solo Dio perdona” riconferma il grande talento di Nicholas Winding Refn, capace di comunicare attraverso il cinema usando nuovi strumenti al suo interno, forse preoccupandosi troppo poco di essere scorrevole per lo spettatore, ma offrendo pellicole di grande potenza.

Articolo di Francesco Dovis


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