Secondo le comuni definizioni il “codice sorgente” altro non è se non un insieme di “istruzioni in un linguaggio di programmazione che, per essere eseguite, devono essere compilate”. È il così detto punto di partenza di un programma. Quindi esso “può essere letto e interpretato, nonché corretto o modificato, mentre il programma compilato è pressoché incomprensibile perché tradotto in linguaggio macchina e risulta quindi immodificabile”. (rif. http://www.pc-facile.com/glossario/codice_sorgente/).
Tranquilli, questa non è una lezione di informatica, è solo che uscire da una sala cinematografica con un enorme punto di domanda sulla fronte non mi piace e mi porta ad analizzare il problema (la pellicola).
Credo (temo), ma non ho per nulla la certezza (!), che l’opera seconda del regista di “Moon” Duncan Jones voglia comunicarci che le nostre vite hanno un codice sorgente, quindi sono “compilate”. Conseguentemente, accedendo ad esso possiamo leggerle, correggerle o modificarle. Ancora non chiaro? Primo, esistono universi paralleli; secondo, essi talvolta si intrecciano, si sovrappongono, si sostituiscono; terzo, questo processo di “riscrittura” è possibile solo sfruttando una esigua finestra temporale: durante il, chiamiamolo, riverbero che le azioni lasciano.
Riflettendoci bene, ho visto un film che era un vero e proprio inno alla vita e all’umanità. L’uomo è un essere meraviglioso, è fallibile e lo sa, ma non per questo si da per vinto, al contrario, non molla mai grazie a quello spirito di sopravvivenza che lo rende unico. Quindi tenta, cade e si rialza per riprovare anche se ciò comporta sacrifici e dolori e soprattutto solitudine. Perché si sa, le battaglie più importanti si combattono spesso da soli, ma alla fine il successo ha un sapore tutto speciale. In un periodo di crisi globale un happy ending di questo genere è ciò che ci serve per credere in noi stessi. No?
Oh mannaggia, non ho ancora compreso il messaggio? Prima troppo tecnica/sopra le righe, poi troppo filosofica? Va bene, sarò basica. Ho visto una pellicola che mescola i ritmi tipici dei film di azione e dei thriller con una buona dose di fantascienza. Matrix docet e i piccoli adepti non solo crescono numerosi, ma tentano pure di eguagliare il genio (la follia?) dei fratelli Wachowski e… tra tanti schianti alcuni ci riescono.
Ancora lontana? Allora facciamo così: ho assistito alle avventure di un impavido e tenace elicotterista di stanza in Afghanistan che un giorno si risveglia in una rudimentale capsula. Attraverso un video grondante condensa un militare lo riporta alla realtà e gli spiega che sta entrando/ uscendo da una finestra temporale conseguente un attentato al fine di individuare il colpevole e salvare una città intera. Film dall’alta tensione, che ruota tutto intorno alle varie evoluzioni dei medesimi 8 minuti. La noia aleggia sino al finale in cui, come ho cercato di fare nei paragrafi sopra, si incasina lo spettatore.
Non fraintendetemi, l’idea è buona e lineare se non fosse tangibile la volontà di “dimostrare” chissà cosa. Continuo a leggere titoli che osannano regia, sceneggiatura e protagonisti. Partiamo da questi ultimi: Jake Gyllenhaal è bravo, chiuso nella sua capsula al gelo, disorientato, sconfortato, ma determinato sino allo sfinimento a comprendere cosa stia accadendo dentro e fuori dalla sua mente, è convincente; così come le crisi di coscienza di Vera Farmiga, son realistiche. Lascia perplessi la sceneggiatura: ancora un film ricco di intrecci (qui temporo-spaziali) che vengono ingarbugliati per rendere la conclusione inaspettata. Missione compiuta: ciò che sino a qualche minuto prima era solo prevedibile si è chiuso con non so che. Ah beh eh beh… per fortuna che piace ed avvince, anche se temo la salvezza risieda nella mano ferma di una regia che presenta già i propri tratti distintivi nonostante sia giovane. Provare per credere
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