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Titolo: Fiore di fulmine Autrice: Vanessa Roggeri Editore: Garzanti Prezzo: € 16,40 Numero di pagine: 280 Sinossi: È quasi sera quando all'improvviso il cielo si fa livido, mentre enormi nuvole nere galoppano a oscurare gli ultimi raggi di sole. Da sempre, la prima cosa da fare è rintanarsi in casa, coprire gli specchi e pregare che il temporale svanisca presto. Eppure la piccola Nora, undici anni e il coraggio più scellerato che la gente di Monte Narba abbia mai conosciuto, non ha nessuna intenzione di mettersi al riparo. Nora vuole sfidare il vento che soffia sempre più forte e correre sulla cima della collina. È appena arrivata sotto una grande quercia quando un fulmine la colpisce sbalzandola lontano, esanime. Per tutto il piccolo villaggio sardo dove è cresciuta, la bambina è morta. Ma non è quello il suo destino. Nora riapre i suoi enormi occhi verdi, torna alla vita. Il fulmine le ha lasciato il segno di un fiore rosso sulla pelle bianca e la capacità di vedere quello che gli altri non vedono. Nella sua famiglia nessuno la riconosce più. Non sua madre, con cui amava ricamare la sera alla luce fioca di una candela, né i suoi fratelli, adorati compagni di scorribande nei boschi. C'è un nome per quelle come lei, "bidemortos", coloro che vedono i morti, e tutti ne hanno paura. Nel piccolo paese non c'è più posto per lei. La sua nuova casa è Cagliari, in un istituto per orfanelle, dove Nora chiude la sua anima in un guscio di dolore, mentre aspetta invano che qualcuno venga a prenderla. La recensione La scorsa domenica, noi, famiglia che non va spesso in giro, un po' per nostra stessa colpa e un po' per colpa di città che offrono rari stimoli, ci siamo ritrovati – come a dicembre, quando la venuta di Donato Carrisi aveva generato l'esodo, ricordate? – presso quel Centro Commerciale che, tutto gli si può dire, ma non si fa mancare niente. Compresi i preziosi incontri con quegli autori che, al massimo, avevo guardato da lontanissimo; sperato, un domani, di conoscere. Agli inizi di giugno, così, mi sono trattenuto qualche giorno in più a Chieti, sbarrato con una linea netta il primo esame della Estiva, giacché a presentare il suo ultimo romanzo c'era un'autrice che, due estati prima, avevo letto e consigliato energicamente: Vanessa Roggeri, passata nelle vostre wishlist, sul comodino di mamma e, una storia dopo, in Abruzzo, per parlarci di un'ultima fatica che, fortunatamente, non si era fatta attendere troppo. Il ritardo non è elegante, e ciò che non è elegante, sapete, non le si addice. Non si è fatta aspettare nemmeno quella domenica in libreria: puntualissima. Mi aveva riconosciuto lei per prima, seduto in seconda fila, in mezzo a un pubblico ciarlielo e vivace. Io non avevo domande, perché timidissimo, segretamente allergico ai microfoni e ancora ignaro, se non nelle linee generali, di una storia che avrei cominciato a leggere soltanto la sera dopo. Al momento di firmare le copie abbiamo evitato le presentazioni di sorta: mi ha abbracciato come tra amici, il nome tenuto sorprendentemente a mente di colui che aveva recensito per primo Il cuore selvatico del ginepro. La scrittrice che si accorgeva del blogger in sala e, per un momento, gli sorrideva. Riconoscersi. Proprio come ho riconosciuto, a pagina uno di Fiore di fulmine, lei e le sue surreali storie di terre di Sardegna e donne magiche. L'accortezza di non deluderci un po' a vicenda. Lei, me lettore. Io, lei lettrice. Di cose diverse, opposte, ma – nell'arco della lettura chi di un romanzo, chi di un post – quasi sullo stesso piano. E Fiore di fulmine, come mi avevano assicurato in tanti, nonostante qualche piccolo “ma”, mantiene le promesse. Io, chissà, le manterrò? Dopo Lucia e Ianetta, sorelle separate dalla superstizione e legate dal più involontario degli amori, Vanessa – fresca di ricerche, passeggiate tra antichi cimiteri, indagini da scrittrice – non si sposta troppo dall'incanto in cui aveva mosso i primi, timidi passi. Siamo nella sua Sardegna: vietato abbandonarla per il Continente. Siamo in un piccolo mondo antico tutto al femminile, scosso dai tuoni e popolato da donne parafulmine per ogni crudeltà. Sulle miniere di Monte Narba – così familiari che strizzi gli occhi per mettere a fuoco il panorama e per scorgere l'aliena Ianetta nel cuore secco della natura – infuria una tempesta, preludio dell'estate che sarà. Ma Nora, che urla contro il cielo e il temporale sperando che le sue parole, in tal modo, arrivino prima al padre che è volato lassù, non ha mica paura: con la sfrontatezza e la curiosità dei bambini disubbidienti prende il pericolo di petto. La luce del fulmine la trapassa e lei muore e rinasce, anche se a chiamarsi Lazzaro è uno dei suoi tre fratelli maggiori. Segno del miracolo – o della maledizione? - una cicatrice che, come un'edera in attesa di fiorire, le solca il corpo; le anime dei defunti che, al suo risveglio, fino alla giovinezza, vedrà chiedere aiuto al piedi del letto. C'è una parola per chi è come lei e, tanto quanto coga, in paese fa paura: bidemortos. Trait d'union tra l'esordio e la gradita riconferma, dunque, le donne – diverse, ma ugualmente tribolate -, lo sfondo storico e quel caratteristico sentore crepuscolare. Le leggende che nel sud dello Stivale hanno radici profonde. Immaginavo, in realtà, basandomi almeno sulla prima metà, che i punti di contatto sarebbero stati di più; nella seconda parte, invece, con Nora adulta e il lavoro malpagato di domestica presso la magione della facoltosa Donna Trinez, Fiore di fulmine imbocca altre vie. I sentieri d'ombra dei giardini in rovina, delle case infestate, del romanzo ottocentesco. Chi è la ragazza dalle lunghe trecce che Nora vede vagare al buio e che nessun altro sembra vedere? Cosa fanno i proprietari della villa, il venerdì sera, dietro la segretezza di una porta che la servitù non può violare? Nel darci le risposte, benché guidata da un'autrice operosa e intelligente che vede e provvede, la misteriosa Nora – che a furia di vedere i morti ha perso il contatto coi vivi; che ha sviluppato un cuore duro come un osso di pesca ma che, all'improvviso, inizia a battere per i fratelli Alagon, giovani e dai corpi fragilissimi, peggio di quanto lo sia il suo, marchiato per sempre a fuoco – a volte dà l'impressione di perdersi nello schematismo delle gotici britannici: da Jane Eyre al recente Il miniaturista, ragazza nuova, stanza segreta, amori al cianuro. Colpo di scena conclusivo, inoltre, che si presagisce e smorza, purtroppo, la vivacità del giallo. Per forza di cose, volendomici qualche tempo affinché la ghost story sarda rimpiazzasse nel mio immaginario quella inglese e, a lungo andare, scoprendosi un romanzo d'interni, ho immaginato la Londra vittoriana, così diversa dalla Sardegna brulla e indomita del Cuore selvatico del ginepro, qui guardata attraverso una finestra che dà sul cortile. Si vede, ma questa volta si tocca di sfugitta. Abbastanza per potere giurare, come se la storia fosse un esclusivo souvenir, di esserci stati? Questo il soggettivo “ma” a cui alludevo, in una delicatissima vicenda fluttuante tra fantasia e realismo, altrimenti tanto ben scritta da sembrare – e più del primo, che comunque ho preferito, nella sua vaga crudezza – a disegni. Uno di quelli di Giaime, tutto anima e occhi grandi. La leggerezza delle linee a matita, l'ombreggiatura, il calacare la mano giusto al momento dei dettagli da sottolineare, i personaggi prodigiosi che solo nelle fiabe popolari. E nella fantasia di autrici che sanno renderli autentici. Il mio voto: ★★★★ Il mio consiglio musicale: Lana Del Rey – I Can Fly
“I had a dream that I was fine
I wasn't crazy, I was divine."
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