Titolo: Giorni di neve, giorni di sole
Autori: Fabrizio e Nicola Valsecchi
Editore: Marna
Genere: Testimonianza
ISBN: 9788872034989
Anno: 2009
Num. Pagine: 128
Prezzo: 12,00€
Voto:
Contenuto: Un uomo ormai anziano, durante il viaggio di ritorno verso l’Italia, la sua terra d’origine abbandonata da ormai settant’anni, ripercorre gli anni trascorsi nella nuova patria adottiva, nella quale ha sperato in una vita serena e libera. Ma il rapimento e la scomparsa della figlia e del genero, desaparecidos, hanno infranto questo sogno. Solo il ritorno alle origini riesce in parte ad attenuare la sua sofferenza…”I desaparecidos sono lì presenti per reclamare che la coscienza, i valori e la dignità del popolo non desiderano l’impunità né l’oblio. Patricia e Ambrosio e tutti coloro che hanno dato la vita per la libertà rimangono nella memoria e nella resistenza.” (Adolfo Perez Esquivel, Premio Nobel per la pace nel 1980). Gli autori, Fabrizio e Nicola Valsecchi, nati a Como nel 1976, gemelli scrittori cernobbiesi, hanno precedentemente pubblicato con la casa editrice Mamma i romanzi “La Chiromante” “Una Profezia” (2002) e “B. e gli uomini senz’ombra” (2004), riscuotendo un buon successo di critica e pubblico, oltre al racconto “Il Seme della Discordia” (2006), apparso sul giornale “Il Popolo Veneto”. Scrivono realmente a quattro mani, procedendo insieme, senza ripartirsi i compiti, con una scrittura asciutta e innovativa.
Recensione: L’intento del libro è più che meritorio. Qui la pagina scritta si fa denuncia contro i crimini del regime militare argentino; ricordo e non sterile celebrazione delle vittime della storia recente (i desaparecidos); testimonianza amara e accesa di ciò che è stato e accadrà di nuovo, sotto altre forme e in altri luoghi.
Sicuramente è un modo per non passare sotto silenzio una pagina amara che conoscono in pochi, e ovviare al negazionismo che a oltranza semina oblio e smorza sul nascere la memoria.
Il volume, liberamente tratto dalla vita di Alfonso Mario dell’Orto, italiano emigrato in Argentina nel lontano 1935, contiene la prefazione del premio nobel argentino Adolfo Perez Esquivel, oltre una postfazione approfondita e circostanziata di Gianni Tognoni, segretario del Tribunale permanente dei Popoli.
Quella di Alfonso Mario dell’Orto è una vicenda drammatica, toccante, la quale emerge dal flusso dei ricordi che lo invadono durante la trasvolata per tornare al suo paese natale. In Italia ha un compito importante: depositare, fissare e tramandare ai posteri la memoria di ciò che è stato, nella forma del monumento che ricordi la figlia scomparsa da trent’anni (desaparecida).
Non bastano tuttavia né l’impegno profuso in tal senso, né il tema affrontato a garantire le virtù letterarie di uno scritto.
Al momento sono alle prese con una serie di dubbi che si sono fatti strada man mano che la lettura procedeva, e che non sono stato in grado di vincere. Essi hanno il loro peso nel giudizio complessivo.
Non parlo tanto dei fatti, ridotti all’osso. A creare sconcerto è la costruzione delle frasi, spesso cantilenanti, brevi e anodine a fronte dell’enormità di quanto dovrebbero esprimere. Ciò è sintomo di una scrittura minimale che stenta a entrare nella sostanza di cose, persone e, soprattutto, sentimenti. Il lessico utilizzato per dar voce alla sofferenza di chi ha un terribile peso nel cuore è scarno e a tratti banale. In questo modo si erge una cortina tra gli eventi e il lettore, tale da ostacolare l’immedesimazione, il coinvolgimento emotivo, la comprensione.
Ne deriva che i ricordi di Alfonso Mario dall’Orto rimangono nell’alveo della sua coscienza perché sottaciuti e latenti dietro il filtro che sono le parole stesse.
La grave carenza espressiva si fa evidente quando, nei flashback che si susseguono nei capitoli, entrano in scena i congiunti di Alfonso Mario dall’Orto. Le emozioni che scaturiscono sono descritte con approssimazione. Il contesto stesso, dato per scontato, non è che un sintetico elenco di fatti. Non sembra neanche siano stati vissuti direttamente.
Chi legge fatica a immaginare e far proprio ciò che gli autori cercano invano di rappresentare. Direi che la criticità del racconto, al di là di velleità letterarie, è tutta qui. L’uomo sull’aereo potrebbe essere chiunque, provenire da ovunque. L’occhio degli autori appare lontano, distaccato, per non dire estraneo. Chi legge ha l’onere di immaginare da sé l’Argentina, il regime dittatoriale, il dramma dei desaparecidos. Di suo genio deve procedere oltre le parole di un testo che, paradosso tra i paradossi, è scritto in prima persona ma sembra raccontato in terza.