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[Recensione] Hunger Games, di Suzanne Collins

Creato il 13 novembre 2014 da Queenseptienna @queenseptienna

[Recensione] Hunger Games, di Suzanne CollinsTitolo: Hunger games
Autore: Suzanne Collins
Traduttori: Paracchini F., Brogli S.
Editore: Mondadori
Data di Pubblicazione: Ottobre 2009
ISBN: 8804594101
ISBN-13: 9788804594109
Prezzo: € 15,00
Voto: [Recensione] Hunger Games, di Suzanne Collins

[Recensione] Hunger Games, di Suzanne CollinsEcco un’altra delle mie squisite parentesi che vi faranno tagliare le vene. Quella che sto recensendo è la versione Flipback che raccoglie i tre capitoli in uno (sembra un po’ la pubblicità del Bolt). Tuttavia, essendo ciascuno di essi parecchio lungo, rischio di dimenticare cos’è avvenuto in precedenza o confondere le trame: il resoconto sarà distinto per ogni libro.
Ci tengo a precisare che non si diventa ciechi (come molti sostengono) con un Flipback. È un prodotto comodo, versatile e utile soprattutto per chi è abituato a leggere in giro. Sì, certo: un e-reader è più sensato per lo scopo; ma per essere una soluzione cartacea è più che valida.
Bene, è chiaro che sto per illustrarvi non tutta la trilogia, ma soltanto il primo libro. Questo qui, per intenderci.

Trama:
Gli Hunger Games non  danno scampo ai deboli: il vincitore è uno su ventiquattro, l’unico capace di uscirne vivo, di combattere, imbrogliare e sopravvivere meglio degli altri.
Katniss Everdeen non riflette un solo istante, prima di sostituire la sua sorellina Primrose quando il suo nome viene estratto per mettere piede nell’arena. Troppo innocente per farcela, Prim non è nata per uccidere come lei.
Non sarà restare in vita il problema principale di Katniss; non quanto lo sarà scegliere tra l’amore che Peeta dice di provare per lei, le amicizie e la sua stessa vita. Scelte troppo rapide per poter essere ponderate in modo giusto. Ogni amico lì dentro è nemico nel contempo e non c’è spazio per la pietà.
Ci sarà un modo per non diventare degli animali senza cuore?

Recensione:
Se dovessi definire con una parola sola il primo capitolo di questa promettente saga, molto probabilmente userei il termine “travolgente”.
Vieni assalito da un branco di emozioni fameliche che non ti danno modo di respirare.
La narrazione sembra figlia di Orwell, delle grandi saghe fantasy come Harry Potter… e della tv. Riuscite a immaginare tante cose così distanti tutte insieme? Per essere un libro con tendenze distopiche, ha combinato talmente tanti elementi da nascondere le reali intenzioni. C’è un sistema che non si può sovvertire.
Panem ha una Capitol City che regna incontrastata e dodici distretti assoggettati ad essa. Svolgono ognuno una funzione (ad esempio il 12 estrae il carbone; l’11 è per l’agricoltura e così via) ma poco si sa di ciò che accade al di fuori della propria limitazione territoriale. Non è possibile viaggiare né raggiungere un altro distretto, tantomeno la Capitol senza permessi straordinari. Questo sarebbe già abbastanza triste senza valutare gli Hunger Games: sanguinari reality in cui due tributi (ragazzi dai dodici ai diciotto anni scelti mediante un’estrazione) per ogni distretto vengono chiusi in un’arena insieme agli altri, al fine di ammazzarsi reciprocamente fino ad ottenere un solo sopravvissuto: il vincitore che otterrà onori e glorie.
Saltano subito all’occhio proposizioni dirette, rapide come frecce. Frasi di uno stile che sa essere tanto essenziale quanto ampiamente descrittivo. Rende perfettamente il senso di quanto narrato; il lettore non fatica affatto ad immaginare le scene, a vivere come se ne facesse parte. In certi punti le parole si serrano tanto da far male. Come se creassero silenzio, sgomento con la loro crudezza. I concetti più spietati vengono resi senza mezze misure, con sincerità disarmante e tagliente.

Ma c’è anche il cibo, se sai dove cercarlo. Mio padre lo sapeva, e mi ha insegnato qualcosa prima di essere fatto a pezzi dall’esplosione di una mina. Non è rimasto niente da seppellire. Io avevo undici anni. Ne sono passati cinque e mi sveglio ancora urlandogli di scappare.

La trama è ben tessuta. Funziona l’ambiente, funzionano i personaggi e le azioni che essi compiono.
Il contesto Orwelliano è imponente, lo si ritrova fin da subito e si staglia come un ostacolo insormontabile e un pericolo costante. L’autrice è stata molto brava nel presentare questa minaccia in modo così palese, che poi in un certo senso viene ammorbidita un po’ dalle vicende umane. Non desta lo stesso interesse delle prime pagine in cui è lampante; eppure questo controllo perenne, resta un rumore di fondo semplicemente assordante. Tutto ciò avviene anche perché, i pensieri della protagonista sono più liberi di fluire nelle battute iniziali, dove si permette di esternare invettive ben precise: lei è di indole ribelle e non ha poi così paura di darlo a vedere.

Prendere i ragazzini dai nostri distretti, obbligarli ad uccidersi l’un l’altro sotto gli occhi di tutti… é così che Capitol City ci ricorda che siamo totalmente alla sua mercè. Che avremmo ben poche possibilità di sopravvivere a un’altra ribellione. Indipendentemente dalle parole che usano, il messaggio è chiaro. “Guardate come prendiamo i vostri figli e li sacrifichiamo senza che voi possiate fare niente. Se alzate un dito, vi distruggeremo dal primo all’ultimo. Proprio come abbiamo fatto con il Distretto Tredici.”

Katniss è la figura principale, ma c’è sotto un’impalcatura forte, imponente che la sorregge e le permette di essere ciò che è. Lei è una ragazza forte, fiera. Sfama la sua famiglia, ma non è pratica di sentimenti; quello è un mondo che scoprirà solo grazie a Peeta, secondo tributo del suo distretto che, pur essendo suo rivale nell’arena, si dichiara per lei davanti alle telecamere di tutta Panem. Prima c’è stata l’amicizia di Gale, che in teoria è sempre rimasta un sentimento innocente; l’amore di Peeta invece la confonde e spiazza più della violenza, perché perlomeno la violenza è una cosa certa, di cui si può fidare. Infatti non sa come reagire, si lascia guidare dalla diffidenza. Poi è confusa, non lo sa. Non sa come trattare questo amico/rivale/innamorato/pericolo che esce allo scoperto così spavaldamente.
Il tributo del Distretto 12 è un tipetto molto particolare. Sa farsi notare proprio per essere realmente complementare rispetto a Katniss: è un ragazzo molto in contatto con la propria parte emotiva e non ha affatto paura di sembrare vulnerabile. Si rivela più umano di lei in parecchie circostanze, ma non è così semplice capire e fidarsi, quando in ballo c’è la vita.

Un Peeta Mellark buono è molto più pericoloso di un Peeta Mellark crudele, per me. I buoni hanno un modo tutto loro di entrarmi nel cuore e metterci radici. E non posso lasciare che lo faccia Peeta. Non dove stiamo andando.

Hunger Games non è solo questo. Tra le righe comunica molto più di quello che sembra e non contiene esclusivamente richiami orwelliani. Ci si accorge di ciò quando Katniss arriva a Capitol City ed è tutto così ricco, nuovo, semplice rispetto alle sue parti dove per mangiare devi cacciare e non puoi sempre contare sulla corrente elettrica. Dove la sopravvivenza è la parola chiave e non c’è posto per le cose frivole. Dove non c’è tempo per chiedersi come passare il tempo, perché impiegato costantemente nel disperato tentativo di non morire.
Allora si pensa al benessere moderno, al fatto che tutto bene o male in occidente è possibile, ma in altri luoghi no. Ci si sente quasi ingiusti a vivere nel benessere, ad essere così vicini ma sempre costantemente lontani dalla felicità. Ad avere qualsiasi cosa, ma percepire ogni volta il nulla intorno a noi.

A Capitol City la gente fa interventi chirurgici per apparire più giovane e più magra. Nel Distretto 12  i segni della vecchiaia sono una specie di conquista, data la quantità di persone che muoiono giovani. Appena vedi un anziano, vuoi quasi congratularti con lui per la sua longevità, chiedergli il segreto della sopravvivenza. Una persona ben pasciuta la invidi, perché non tira avanti a fatica come la maggior parte di noi. Ma qui è diverso. Le rughe non sono apprezzate. Una pancia rotonda non è indice di successo.

Scrittevoli, perché sono una persona magnanima cerco sempre di non spoilerarvi, ma la faccenda della ghiandaia imitatrice è troppo grande e bella. Io mi sono innamorata di quell’animale, tanto che ho comprato addirittura una collana con esso.
Non ho ancora visto il film, ma non oso nemmeno immaginare quanto possano essere belle le scene in cui compare quell’uccello.
Credo propro che, detto questo, mi lancerò a seguitare la lettura. Era dai tempi di Harry Potter che non mi esaltavo così per una saga.


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