Titolo: Il caso Collini
Autore: Ferdinand von Schirach
Traduzione di: Irene Abigail Piccinini
Editore: Longanesi
ISBN: 9788830433298
Anno: 2012
Numero pagine: 166
Prezzo: € 14,00
Genere: Legal Thriller
Voto:
Trama:[dal risvolto] Una grande occasione si presenta al giovane avvocato Caspar Leinen quando viene nominato difensore d’ufficio di un omicida reo confesso: può finalmente esercitare la professione che ama, indossare la toga ed entrare nell’austero tribunale del Moabit, a Berlino. In un primo momento sembra che si tratti di una causa di routine: dopo una vita tranquilla e interamente dedicata al lavoro in fabbrica, l’irreprensibile italiano Fabrizio Collini ha ucciso con quattro colpi di pistola un ricco industriale ottantenne noto in tutto il Paese, Hans Meyer. Quello che l’avvocato Leinen ancora non sa è che in questa storia nulla è come appare. Mentre l’imputato si chiude nel silenzio, rifiutando ogni difesa, Leinen scopre che la vittima era il nonno di un suo amico dei tempi del liceo. Benché il ricordo di quell’uomo ricco e potente, ma anche affettuoso e gentile, sia ancora vivo nella sua memoria, il giovane avvocato decide di non rinunciare all’incarico e di cercare in tutti i modi di far luce sul movente. Solo scavando nel passato di Meyer, Leinen riesce a trovare una traccia che lo riporta a un episodio accaduto in Italia durante la seconda guerra mondiale. Da qui avrà inizio un dibattimento teso e serrato che metterà i protagonisti, ma anche i lettori, davanti ai sottili e incerti confini della giustizia. Con una scrittura secca e implacabile, Ferdinand von Schirach riesce a farci sentire il dolore di una ferita mai rimarginata, un passato con cui non abbiamo ancora chiuso tutti i conti.
Recensione: Il romanzo è scritto in modo semplicissimo, lineare, quasi freddo. Il lettore è invitato a condividere e a interpretare le emozioni che suscitano le vicende narrate. Il velo che cala dagli occhi scopre una storia personale toccante, macabra e crudele. Entra prepotentemente anche la Storia fatta di vittime e carnefici. Il destino delle vittime è quello di conservare nel proprio cuore ricordi dolorosi e incancellabili; qualcuno ha il coraggio di riviverli portandoli alla luce, facendo emergere diari, racconti, denunce. Altri ancora si vendicheranno, laddove la giustizia, facendo il suo corso, si ferma davanti alla prescrizione. Ciò che fa male è la sorte dei carnefici, di coloro che allora vestivano per esempio l’uniforme delle Waffe-SS, e che sono rientrati nei ranghi del consorzio umano semplicemente rimuovendo il loro scomodo passato, conducendo una vita normale: questo il ritratto di Hans Mayer. Ma è anche il ritratto di molti altri. Come una bomba, in questi giorni, è esploso il caso di Horst Tappert, il celebre ispettore Derrick, in forze nella divisione “Testa di morto” delle SS (Totenkopfstandarten) sul fronte russo nel 1943.
Il nucleo del romanzo è questo: è legittimo da parte di chi si è reso responsabile di crimini contro l’umanità, far finta di niente, tagliare col passato, trascorrere da un certo punto in poi un’esistenza pacifica e onorevole, essere additato a esempio della comunità, godere della stima altrui? Hans Meyer è quasi un padre della patria, un ricco industriale dalla specchiata onorabilità. Dall’altra parte, sommerse dal silenzio, faticano a levarsi le voci di coloro che vorrebbero dimenticare ma non possono. Fabrizio Collini ha un conto in sospeso, una ferita mai rimarginata.
Il romanzo di von Schirach è uno di quei rari esempi in cui è il lettore a pronunciare l’ultima parola, a formulare un giudizio, una considerazione, a porsi delle domande. Ci sono colpe che sopravvivono alla morte, pesando come un macigno sia su coloro che hanno vissuto direttamente i fatti cui si riferiscono, sia su coloro che, venuti dopo, ne sono giunti a conoscenza, riaffiorati nel presente in tracce indelebili, magari per caso.
La vendetta di Fabrizio Collini è postuma, avviene dopo sessant’anni. Perché aspettare tanto? La colpa di Hans Meyer, e di quelli simili a lui, è ancora più grave. Sono arrivati a ottant’anni, ai novanta, sfiorano persino i cento (Erich Priebke, classe 1913), non è passato loro per la testa che il buon Dio fino all’ultimo ha dato loro il tempo per cercare, se non di rimediare, di chiedere scusa, di confessare, di ridestarsi, comprendere quello che hanno fatto. Se ne sono chiamati fuori. Hanno voltato la faccia a una responsabilità sovrumana, certo, ma così facendo si sono tenuti lontani dall’inferno in cui hanno lasciato gli altri.