Editore: Bollati Boringhieri
Collana: Varianti
Pagine: 224
Prezzo: € 16,50
Trama: Irlanda del Nord, 1892. Charlotte Ormond, quattro anni, viene trovata morta nella stanza del guardaroba della dimora di famiglia. Ha le mani legate con una calza annodata a un anello infisso nel muro. La piccola si è strangolata nel tentativo di liberarsi. A chiuderla lì dentro è stata la madre Harriet, mettendo in atto i rigidissimi principi educativi in cui crede: la situazione le è sfuggita di mano, la sua colpevolezza è evidente, ma le cose sono davvero andate nel modo che appare più ovvio? Sessanta anni dopo, Maddie, la vecchia tata di Charlotte, nel ricevere una lettera di Anna, l'ultima discendente degli Ormond, capisce che è giunto il momento di confessare un segreto che serba ormai da troppo tempo: solo lei sa cosa accadde veramente nell'ultimo giorno di vita di Charlotte. Al racconto di Maddie si alternano le pagine del diario che Harriet Ormond ha scritto in carcere dopo la condanna con cui si è concluso il processo a suo carico. Due voci potenti e straordinarie, quella arcaica, intrisa di spunti gotici, della popolana Maddie, e quella secca, tagliente, aristocratica di Harriet, una donna fiera e indipendente, algida e volitiva, incapace di scendere a compromessi. La piccola comunità del luogo è stata pronta a giudicarla, ma il suo diario rivela una realtà ben più complessa.
RECENSIONE
“Avevi detto che avevi una storia da raccontarmi, e io sapevo di quale storia si trattava. Negli anni ci sono state così tante voci, così tanti sguardi di intesa che sono riuscita a metterne insieme almeno una parte. Prima non mi sentivo pronta per ascoltarla, ma ora sì.”Il romanzo inizia con una lettera di Anna a colei che, nella sua famiglia, era conosciuta da tutti come tata Maddie. Ultima discendente, da parte materna, degli Ormond, Anna è figlia di Florence, morta quando lei era ancora bambina: “diceva di avere «l’aria di prigione» intrappolata dentro al petto” racconta Maddie. Ma quale prigione? Quella in cui era nata, nel 1892, nona figlia di Harriet ed Edward, mentre la madre stava scontando una pena di un anno con l’accusa di aver causato la morte accidentale di sua figlia Charlotte, quattro anni, legata, rinchiusa e poi apparentemente “dimenticata” per tre ore nello stanzino guardaroba dove lei era solita mettere in punizione i figli disubbidienti. Un evento di una drammaticità impensabile, al quale la scrittrice torna più volte nel corso di tutto il romanzo, svelandoci mano a mano diversi dettagli e alla fine non uno, ma diversi segreti, che indirettamente o direttamente potrebbero essere stati causa della tragedia di una donna e della sua famiglia, attraverso quanto raccontato in prima persona da Maddie ad Anna, e da Harriet attraverso il suo diario, ritrovato nascosto nello stipetto dove era solita riporre la sua amata collezione di farfalle.
La piccola Charlotte viene descritta dalla madre come indipendente e cocciuta: in grado di esprimere pensieri complessi come un adulto, e dotata di una singolare sensibilità - “I bambini vedono più degli adulti. Sono più vicini alla radice delle cose; a ciò che è implicito e non detto”, dichiara Harriet, - e provvista di una fervida fantasia, come sua zia Julia, sorella minore di Harriet. Il personale di servizio la adora: spesso maltrattata dai suoi stessi fratelli, chiede conforto tra le braccia della allora servetta Maddie, che sembra capirla a fondo, e che più di una volta, nel descrivere il rapporto tra madre e figlia, accusa Harriet di non “vedere quello che vede lei”, di non apprezzare le capacità e le potenzialità della bimba, che ama giocare con la sua casa di bambole immaginando, probabilmente, una vita piena di meraviglie ed eventi fantastici, di affetto e calore, vita che meriterebbe al pari di ogni bambino al mondo. Ma è sempre Maddie ad affermare che “A volte.. capitano incidenti la cui colpa ricade su più di una persona. Alcuni hanno più colpa di altri, forse, ma ugualmente ci vollero tante cose tutte assieme per fare accadere quella terribile tragedia.”
“Credevo che non avrei più dormito, la prima notte della sua morte. Poi, una volta addormentata, credevo non mi sarei più svegliata. Ora queste due azioni continuano ad accadere, in sequenza, una dopo l’altra, e ogni volta ne sono sorpresa. È terribilmente difficile, devo dedurre, spezzare le abitudini del corpo. Sono stata io ad ucciderla? Non posso pensare a quanto abbia sofferto, da quel pensiero sarebbe impossibile tornare indietro. Ne sono responsabile, non c’è dubbio, non c’è modo di fuggire a quel giorno.”Il racconto di Maddie ad Anna di ciò che accadde il giorno dopo la morte di Charlotte, quando “la padrona.. fece il giro di tutti gli specchi, prima che venissero coperti o girati verso la parete, e li lucidò fino a farli brillare,” esprime, tramite un’azione compulsiva, volta a fare ordine e pulizia, la confusione e i sentimenti di colpevolezza, di disordine, di sporcizia, che si radicano sempre di più nel cuore di Harriet, e il suo tentativo disperato di non pensare più. Per la maggior parte del suo diario, soprattutto nella parte iniziale, ella sembra infatti parlare di tutt’altro che di quanto le è accaduto: di come ha conosciuto suo marito, del giorno del matrimonio, della sua passione per la vita all’aria aperta e per la caccia alla volpe. Al di là della voglia di narrare se stessa, in questa sua continua lotta interiore tra il desiderio di affermare la sua indipendenza, senza riuscire a smettere di “lavorare facendosi ombra”,
Verso la fine del libro, cercando di auto analizzarsi riguardo la punizione, purtroppo fatale, inflitta a Charlotte, ribadisce: “Stavo cercando di insegnarle a salvarsi.” “Non so cosa i miei genitori vedessero in me di cui non potersi fidare”, si chiede Harriet. Anche a questo dilemma troverà spiegazione, prima di lasciare il carcere: un’ulteriore conferma di non-appartenenza a quello che già lei non percepiva come mondo “suo”, che la trascina ancora di più verso il centro di una spirale infinita di solitudine e di incertezze.
Harriet non vuole più essere dopo la morte della figlia, ripete in continuazione nel suo diario che vuole scomparire. Subito dopo viene descritta la disperazione di Harriet nel ritrovare il corpicino, i suoi sforzi inutili per cercare di riportare Charlotte alla vita, i primi segni di un’umanità e di un amore materno che fino ad oltre metà del libro non erano stati palesati da nessuna delle due narratrici: e il dubbio che Harriet non sia solo un mostro inizia ad affacciarsi insistentemente, mano a mano che la donna si svela più intimamente mostrando la sua disperazione e, verso la fine, la rassegnazione verso un destino che vede ormai segnato. Nonostante siano infatti ‘solamente’ dodici i mesi che passerà in carcere, niente potrà essere più come prima, naturalmente. Il triste evento della morte di Charlotte la fa riflettere inoltre ulteriormente sul suo passato di bambina, trascurata dalla madre, che favoriva in continuazione la secondogenita, dal carattere brillante ma più sottomesso. E racconta come, ad esempio, fosse stata forzata ad indossare il corpetto anche di notte, contro la sua volontà: Harriet ha passato l’esistenza desiderando di essere sempre più invisibile. Lo stesso volere così tanti figli, nove in dodici anni di matrimonio, da una parte l’ha “divisa” in tanti piccoli se che da una parte la fanno scomparire, limitandola ed annullandola, facendola dubitare a volte di riuscire a farcela; dall’altra, invece di alleggerire il peso della sua esistenza, le ricordano le complesse sfaccettature del suo carattere e il suo stesso amore per la libertà, che però, a differenza di lei, manifestano senza rimorso e senza sosta, ribellandosi a qualsiasi imposizione, legittima o meno. “Io non credo che abbia un cattivo sapore. Credo che stia bluffando.”
“Mia madre mi insegnò una grande lezione..a costruirmi un bozzolo impenetrabile..a nascondermi dentro me stessa. Ho cercato di insegnare questa lezione ai miei figli, ma loro sono sempre stati più forti di me..Se sono colpevole di non aver fatto il mio dovere di madre, ecco in cosa lo sono: nel non essere stata capace di insegnar loro come proteggersi dall’amore.”Più che come una madre crudele ed egoista, Harriet mi è apparsa quindi una donna molto sola, priva di riferimenti “sani”, privata di esempi educativi da poter trasmettere ai figli, in particolare a Charlotte, così simile a lei; e che non poteva chiedere aiuto a nessuno, una donna alla quale viene preclusa qualsiasi possibilità di essere restituita all’umanità.. Una vita persa, quindi, alla ricerca di se stessi ma senza strumenti, votata alla tragedia, sola come un faro in mezzo al mare, tanto presente nella vita del suo prossimo e della sua famiglia quanto non considerata, desiderosa di diventare come una farfalla, simbolo fugace e fallace di ordine e bellezza, catalogabile e riconoscibile ma allo stesso tempo in grado di ridursi in polvere al primo raggio di sole. “C’è un suono dentro di me, bloccato in gola, che nessuno sentirà mai.”
L'AUTRICE:
Bernie McGill , commediografa, nel 2008 ha vinto il premio Zoetrope: All-Story Short Fiction Contest, voluto da Francis Ford Coppola. La donna che collezionava farfalle è il suo primo romanzo. Vive a Portstewart, nell’Irlanda del Nord, con la sua famiglia.