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Recensione: "La signora Dalloway" di Virginia Woolf

Creato il 19 agosto 2012 da Alessandraz @RedazioneDiario

Pubblicato da Germana Maciocci

Cari lettori, 

cimentarsi nella lettura di un classico della letteratura al fine di scriverne la recensione non è impresa facile. Non solo l'importanza del testo e l'ombra dell'autore, ma anche quelle di migliaia di critici e relativi saggi che ci hanno potrebbero intimidire il lettore. Quando si tratta di "mostri sacri" come Virginia Woolf, poi, l'unica via secondo il mio umile parere è quello di affrontare la piacevole impresa con spirito libro e occhi "nuovi": leggere un opera come se non ne avessimo mai sentito parlare, come se fossimo i primi a scorrerne le pagine. E condividere con gli amici del blog le proprie impressioni e le vibrazioni provocate dalle parole dell'autrice, con la consapevolezza che, in alcuni casi, un minimo di conoscenza di quello che voleva trasmetterci attraverso il suo romanzo. La signora Dalloway, appena pubblicato dalla Marsilio Editore in un'edizione testo a fronte tradotta e curata da Marisa Sestito  include nella prefazione tratti di diari e lettere della Woolf e presenta una traduzione scorrevole e coerente, offrendo al lettore tutti gli strumenti per una comprensione del testo e una lettura estremamente piacevoli. Enjoy!
Titolo: La signora Dalloway  Titolo originale: Mrs. Dalloway  Autore: Virginia Woolf  Traduttore: Marisa Sestito  Editore: Marsilio Editore  Pagine: 484  Prezzo: € 24,00  Data di pubblicazione: 13 giugno 2012  Trama: Dopo l'audace sperimentazione de La stanza di Jacob, nel 1925 Virginia Woolf approda a La signora Dalloway, il suo primo grande romanzo, per molti il più bello. A ridosso dell'Ulisse di Joyce (che Virginia non amava, ma con il quale inevitabilmente intreccia un dialogo a distanza), ancora un racconto concentrato su un unico giorno (un mercoledì di giugno 1923), e un unico spazio, Londra: una fantasmagoria di strade, sguardi, prospettive e personaggi che si intrecciano e si toccano per poi perdersi e disperdersi nella splendida e lacerante forza vitale della grande città modernista. A contenere questa materia frammentaria e sfuggente sta un uso magistrale di tempo e spazio, marcati da segnali ricorrenti (il suono del Big Ben, il canto degli uccelli, il volo dell'aereo sul quale convergono gli sguardi) e, sul piano della storia, la festa - il ricevimento che Clarissa Dalloway sta preparando per quella calda sera di giugno. Ma è soprattutto la splendida Clarissa - cinquantenne, alto-borghese, una vita apparentemente dorata e un passato di desideri segreti e negati - il punto di attrazione di questa «pioggia di atomi» (come si esprime Virginia Woolf in un famoso saggio) che attorno a lei e alla sua festa si aggrega e si trova per poi perdersi di nuovo. Clarissa e il suo "doppio" sconosciuto, Septimus Warren Smith - giovane, povero, reduce allucinato di una guerra che gli ha sconvolto per sempre la mente e la vita: due esistenze che si intrecciano e si rispecchiano senza mai incontrarsi, lontane eppure accomunate dal dolore e dalla paura, della morte e della vita. Dolore e paura di cui si libereranno, alla fine, con scelte opposte - la morte per Septimus e l'accettazione della vita per Clarissa - che chiudono il viaggio della coscienza di entrambi e i mille percorsi di quella lunga giornata londinese. 
RECENSIONE

Spesso il male di vivere ho incontrato: era il rivo strozzato che gorgoglia, era l’incartocciarsi della foglia riarsa, era il cavallo stramazzato. 
Bene non seppi, fuori del prodigio che schiude la divina Indifferenza: era la statua nella sonnolenza del meriggio, e la nuvola, e il falco alto levato. (1925, Eugenio Montale) 

Clarissa Dalloway, signora londinese protagonista del libro, una mattina di giugno del 1923 annuncia alla sua cameriera Lucy che si occuperà di acquistare personalmente i fiori per la festa che ha organizzato in casa sua per quella stessa sera. L'aria fresca e frizzante che pervade la sua città quella mattina le ha ispirato, fin da quand'era giovane, in altri luoghi e altri ambienti, una sensazione di leggerezza e voglia di vivere: la prima di molteplici immagini "mentali" descritte in terza persona che ─ ricorreranno nel corso del romanzo, del periodo passato a Bourton quando era ragazza ─ la vede spalancare la finestra del terrazzo della sua casa; mentre il suo amico e innamorato Peter Walsh la aspetta fuori, e lei, diciottenne e fresca come l'aria che le accarezza la pelle, si offre con leggerezza alla nuova giornata.  E tale leggerezza sembra accompagnarla tutt'ora, mentre, cinquantaduenne, signora dell'alta borghesia della capitale inglese, si avvia verso Bond Street per acquistare i suoi fiori, Ma come nella vita reale, anche per questo personaggio creato dalla penna di Virginia Woolf vale il detto che non tutto è come sembra. Mentre Londra e i suoi abitanti sembrano pulsare di vita e positività; mentre l'eco della Grande Guerra sembra ormai un incubo lontano, e che niente di brutto possa accadere in una giornata così radiosa, l'autrice inizia a scavare quelli che lei amava chiamare “tunnel” intorno ai suoi protagonisti, al fine di svelare al lettore i recessi più reconditi delle loro anime.  La spensieratezza di Clarissa si rivela ben presto più una ricerca ostentata che una realtà; un desiderio velato di malinconia verso gli anni della sua gioventù, quando tutto il suo mondo sembrava costituito da gioia e scoperte, amicizie e piani per il futuro. Riflettendo bene però, lei stessa si rende conto che l'illusione era durata ben poco; che già a quei tempi piccoli e grandi eventi le avevano fatto capire che la vita era “altro”il suo rifiuto di sposare Peter, per quanto lo amasse, per il timore che un uomo dal suo carattere così coinvolgente e indipendente avrebbe potuto minare il suo desiderio di libertà, anche in un rapporto affettivo; il suo amore per l'amica Sally, dalla quale non avrebbe mai voluto separarsi, un'attrazione che trascendeva il semplice rapporto affettivo che Clarissa non aveva avuto la forza e il coraggio di affrontare, lasciando dei sospesi per lei ancora inconfessabili; la paura della morte, che la accompagna in ogni istante, in modo sottile, inconscio, strisciante, soprattutto dopo la malattia che l'ha recentemente colpita e alla quale si fa riferimento nel corso di tutta la sua storia, senza però mai specificare di quale malattia si sia trattata, quanto tempo sia durata, un espediente della Woolf proprio per far avvertire a chi legge il disagio emotivo di Clarissa nei confronti di tale paura. 

"Era insoddisfaceNte, convenivano, sapere così poco degli altri. Ma lei, seduta sull'omnibus che risaliva Shaftesbury Avenue, disse di sentirsi in ogni luogo; non "qui, qui, qui", picchiettando sullo schienale; ma dovunque... Così per conoscere lei, o chiunque, bisognava scovare la gente che li completava; perfino i luoghi... Ne conseguiva una teoria trascendentale che, visto il suo orrore della morte, le permetteva di credere, o dire di credere (scettica com'era) che, data la transitorietà del nostro apparire, la parte di noi che appare, se paragonata all'altra parte di noi, quella invisibile che si estende in ogni dove, l'invisibile poteva sopravvivere, venir ritrovato in una qualche forma congiunto a questa o quella persona, o perfino aleggiante incerti luoghi, dopo la morte. Forse ─ forse." 

Tutto questo e molto altro si nasconde dietro i modi di aggraziata sicurezza di Clarissa; in un insieme di piccole battaglie con se stessa che costituiscono un incessante guerra, sotterranea ma senza fine, nell'animo della donna.  Septimus Warren Smith, l'altra “voce” principale del romanzo, la guerra l'ha combattuta sul serio, la Prima Guerra Mondiale. Il giovane uomo, sposato con l'italiana Lucrezia, ha visto morire il suo amico Evans e, dopo un apparente indifferenza iniziale, dopo lungo tempo ha iniziato a soffrire di depressione e allucinazioni. L'amicizia sembra essere, in effetti, più dell'amore uno dei temi principali del libro, come sentimento duraturo, inespugnabile, che resiste oltre la morte. La moglie, chiaramente presa da forte preoccupazione e ansia dalla difficile situazione che vive Septimus, cerca di affrontare razionalmente le paure del marito, portandolo da specialisti, alla ricerca di una possibile cura. Septimus ha infatti chiaramente dichiarato le sue intenzioni: vuole uccidersi, perché gli esseri umani sono malvagi.  In realtà, quello a cui non riesce a rassegnarsi Septimus è la morte di nobili ideali come la fratellanza tra gli uomini; la speranza di rendere il mondo un posto migliore combattendo i simboli del male, illusoriamente rappresentato dal nemico durante la Grande Guerra: nel momento in cui si era arruolato aveva pensato che proteggere la propria patria, rappresentata nel suo cuore dalla fidanzata di allora Isabel, e dall'arte di Shakespeare, fosse la cosa giusta da fare. La morte di Evans poi lo aveva cambiato, inevitabilmente e irrevocabilmente, con una forza talmente sovrastante, da non farsi avvertire subito. 

"Sicché non c'erano scuse; non aveva niente di niente, tranne il peccato per cui la natura umana lo aveva condannato a morte; quello di non sentire. Era rimasto indifferente quando Evans era stato ucciso; la cosa più brutta era stata quella; ma tutti gli altri delitti sollevavano la testa e agitavano le dita nelle prime ore del mattino, canzonando e schernendo da sopra le colonnine del letto il corpo prostrato che giaceva consapevole della sua degradazione..." 

Septimus avverte la bellezza della vita che pervade tutte le cose, eppure il vuoto che lo sta vincendo ormai ─ questo contrasto tra pienezza di sensazioni e sentimenti e completa, devastante insensibilità ─ non è altro che uno strumento automatico di protezione, perché l'uomo sente, eccome, e più di coloro che lo circondano, ogni sfumatura, ogni vibrazione. Tale dissociazione mentale lo porta ad avere frequenti allucinazioni, che, insieme allo schermo mentale dell'indifferenza, lo portano in continuazione verso pensieri di annullamento e di morte. Septimus si sente colpevole: colpevole di essere sopravvissuto, di aver sposato Rezia nonostante non la amasse. Gli inglesi hanno vinto la Guerra, ma sembrano non rendersi conto del conto che hanno dovuto pagare per quella vittoria. Per Septimus, ormai sentire equivale ormai a soffrire: l'unica soluzione è porre fine alle pene terrene, e togliersi la vita. 

"Lei si era salvata. Ma quel giovane si era ucciso."

In questo romanzo ricco di similitudini e contrasti; di individualità e comunione, le vite contemporanee di Clarissa e Septimus appaiono all'inizio quanto di più differente si possa trovare nella storia della finzione letteraria. Eppure, fin dalle prime pagine, grazie all'abilità letteraria della Woolf di creare mondi interi di parole, di dar vita a personaggi dai caratteri complessi come fossero reali, e per questo pieni di contrasti e conflitti psicologici e sociali insieme, nella mente di chi legge differenze e similitudini si intersecano senza sosta, mentre la storia di Clarissa e Septimus si svela tra presente e continui flashback, tra le loro impressioni personali sul mondo e su loro stessi e la coralità costituita dalla presenza e dall'espressione di idee e sentimenti nei loro confronti degli altri personaggi.  Sia Clarissa che Septimus desiderano vivere con tutte le loro forze, eppure la morte, come un'ombra, li accompagna in ogni gesto e istante di questa giornata di giugno del 1923. Come due volti della stessa medaglia, sono entrambi dotati di una sensibilità singolare, verso ogni livello e ogni tempo della loro esistenza. Quello che sembra differenziarli, almeno al termine di questo romanzo, la scelta finale tra la vita e la morte.  Ho iniziato questa mia recensione citando la poesia di Montale perché mi è venuta alla mente mentre leggevo questo romanzo, in particolare durante la descrizione di uno dei tanti drammatici episodi di straniamento di Septimus ─ o, se vogliamo, relativi al suo totale coinvolgimento in ogni sfumatura del mondo che lo circonda, ─ e riflettevo sull'abilità della scrittrice nel dipingere con così tanta arte e verosimiglianza una condizione psicologica così estremamente complessa e articolata come quella di Septimus, a rappresentare la condizione comune di una generazione che dovette affrontare l'impensabile, un conflitto di una portata mai provata prima e a un costo così grave. Quello che non sapevo è che, come La signora Dalloway, questa stessa poesia è stata pubblicata nel 1925.  Del 1922 è invece la prima pubblicazione di The Waste Land di T.S. Eliot, e senza dubbio i saggi di alcuni critici che hanno avvicinato le due opere paragonando stili, temi e riferimenti letterari ─ le citazioni riguardanti le strade di Londra per esempio, piuttosto che il senso di irrealtà avvertito da Septimus nei confronti della stessa città; la delusione inconscia nei confronti della vita da parte di Clarissa, l'intersecarsi di vari pensieri uno sull'altro e all'apparenza incoerenti, simili ad allucinazioni, nei personaggi, per non citare i riferimenti a Shakespeare ─ sono da giudicare tutt'altro che fuori luogo.  Più che un flusso di coscienza, quindi, quello della Woolf, in questo libro, è un avvicendarsi di maree; una risacca che si infrange incessantemente nell'espressione dei pensieri e delle sensazioni dei suoi personaggi, dipingendo sia il male sia la gioia di vivere che l'autrice viveva sulla sua stessa pelle, e che con Clarissa e Septimus, riflettendosi e riflettendo la coscienza collettiva di un'intera generazione letteraria, mentre rendeva la finzione più vera del vero, la eleggeva a sua insaputa alle alte sfere dei Maestri dell'espressione letteraria. L'AUTRICE
I due eventi più traumatici del Novecento, dai quali il volto della Storia esce mutato per sempre, incorniciano il tempo della scrittura di Virginia Woolf (1882-1941). La Grande Guerra ne segna l’esordio modernista in La stanza di Jacob e attraversa mirabilmente La signora Dalloway; la minaccia della seconda Guerra Mondiale occupa, possente e terribile, Le tre ghinee, e fa sentire la sua eco in Tra un atto e l’altro, la sua ultima opera. In mezzo, Al faro, Orlando, Le onde, Gli anni: alcuni degli splendidi testi in cui l’artista assolve al compito che si è data in anni lontani, «Voglio scrivere di vita e di morte, di sanità e di insanità», trasformando per sempre il volto del romanzo.


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