[Recensione] Le cinque colombe di Jenny Gecchelin

Creato il 13 aprile 2012 da Queenseptienna @queenseptienna

Titolo: Le cinque colombe
Autore: Jenny Gecchelin
Editore: Ciesse edizioni
Anno: 2011
Pagine: 304
ISBN Libro: 978-88-97277-69-9
ISBN eBook: 978-88-97277-70-5
Prezzo libro: € 19,00
Prezzo eBook: € 8,00
Voto:  

Trama: (sinossi tratta da http://www.ciessedizioni.it/le-cinque-colombe/)

Il confine tra leggenda, superstizione e realtà è così sottile che le protagoniste del romanzo, cinque sorelle di un’inconsueta bellezza, lo oltrepassano spesso, ignare di un passato che segna in modo indelebile il presente. Ines è la più giovane ed è lei a tenere il filo conduttore della narrazione, che parte in tempi recenti, per ripercorrere l’intero ventesimo secolo attraverso le vicissitudini della famiglia Dalla Vecchia. Frequenti riferimenti ricordano un momento storico assai tormentato, raccontato tramite la vita di gente comune. All’interno di una realtà chiusa e rurale, figli illegittimi, sparizioni misteriose, inganni e persino inspiegabili sortilegi alimentano le credenze popolari che, in fondo, celano sempre un pizzico di verità.

Recensione: Le cinque sorelle (cinque colombe), un po’ mi ricordano le sorelle Pintor di Canne al Vento di Grazia Deledda. E’ lei (e pochi altri) che leggo per ritrovare atmosfere ormai perdute, tanto da domandarmi se vi siano ancora, da qualche parte, le anguane, le donne di fiume, le vivene, le mari de gnot. Più che immaginarsele non si può, se le ho incontrate non si sono rivelate: ho riconosciuto o creduto di cogliere qua e là un tratto. Il loro fascino è tutto qui: tra il detto  il non detto. Di esse ho trovato traccia in Veneto nelle poesie di Andrea Zanzotto. Anche Carlo Sgorlon (per il Friuli) ha parlato di loro, avendo in mente l’inafferrabile eterno femminino di goethiana memoria (das Ewigweibliche). Per il resto vi sono bellissime raccolte di fiabe di cui faccio man bassa.
Jenny Gecchelin è in linea con questo filone: non distingue le anguane dalle altre figlie di Adamo. La cultura popolare se le ricorda, quella moderna le sta dimenticando. Ben vengano, quindi, romanzi e racconti che parlino di loro.
La prima ad apparire, cronologicamente, è Anna. Di lei si dice sia un’anguana, una stria (strega), di fatto una creatura dei boschi e delle acque. E’ nel numero delle creature che non fanno del male senza motivo, ma puniscono fatalmente il minimo sgarbo. La loro è una bellezza insidiosa e ingannevole perché ammaliatrice: questo potrebbe bastare ad assimilarle ai “Mostri” dei tempi antichi, non necessariamente a un Grendel o a un drago. Anna cresce in una realtà rude e dura, tra gli ultimi anni dell‘800 e i primi del secolo scorso dove, nonostante le rigide convenzioni sociali e i dettami della morale comune, non vi è argine o freno al naturale fluire delle cose. Cacciata di casa perché in attesa della figlia Antea, è accolta da una donna d’erbe, che le tramanderà la sua arte. Nel frattempo fa presa un sentimento nuovo: l’odio nei confronti dei genitori, della comunità nella quale era nata e alla quale tuttavia non era mai appartenuta. Nutre un istintivo affetto invece per colei che l’aveva accolta senza nulla domandare, senza emettere alcun giudizio.
Antea è la madre delle colombe che erediteranno la nomea di “stria” e di “anguana”, a sua volta ereditata dalla nonna Anna. Le sorelle, Gertrude, Marianna, Carolina, Maria e Ines sono riservate, non entrano nel giro delle donne della contrada, alimentando in questo modo chiacchiere e maldicenze.
Non è un romanzo corale, perché parla di anime e non di popolo, a meno di considerare le sorelle una piccola comunità. Perché è chiaro che hanno avuto la fortuna di ritrovarsi insieme: un piccolo miracolo o un gioco del destino che non fu concesso ad Anna prima, ad Antea poi.
L’intreccio si sviluppa a seguito del ritrovamento, dentro un baule, del diario di Antea. Da questo momento è tutto un precipitare di eventi. Chi volesse trovare nel romanzo un mondo di fiaba, idilliaco, ha sbagliato strada. Viene reso manifesto il mondo che noi stessi abitiamo, un universo da cui emergono istinti e impulsi, dove trova spazio un radicato materialismo non cattivo in sé, fintanto che la posta in gioco è la stessa sopravvivenza.
Ciascuna sorella è destinata a vivere un dramma, quasi fosse lo scotto pagato per aver contravvenuto a un monito antico: l’essere uscite quel tanto che basta dal guscio (protettivo), dall’isolamento che il paese rimprovera loro, come se non vedesse l’ora di afferrarle, di ghermirle, sopraffarle. E’ come se un cancro fosse entrato nella famiglia, che si sgretola da tutte le parti. Si rompe il guscio che le proteggeva dalle malelingue, dai pettegolezzi. Il mondo di fuori è entrato in casa come un vento malefico, quando sarebbe stato possibile il contrario. E’ bastato tenere scostata una porta, schiuso un balcone.
E’ entrata la divisione: Maria e Carolina contendono le proprie ragioni contro quelle di Gertrude e Ines, le “anime salve”, le ravvedute e redente avverse alle “anguane”. Il destino infierisce sulla famiglia Dalla Vecchia – o su quello che ne rimane – presentando di stagione in stagione un conto sempre più salato, fonte di un dolore che sa di predestinazione.
Il racconto non procede in un unicum temporale, come a sottolineare la dimensione del ricordo, un eterno presente di cose passate, di cose presenti e, volendo, di cose future. Chi ricorda fa incetta di istanti e momenti che, come pezzi di un mosaico, ci accompagnano nella storia. La struttura a episodi riporta alla tradizione del filò, quando di sera, interrotto il lavoro, si racconta di questo e di quel momento della vita di qualcuno, o si evocano storie e personaggi antichi. Non vi è frammentarietà e dispersione, ma anzi unità e amalgama di una memoria comune, consolidata da opportuni riscontri storici. Fa un po’ effetto trailer perché in ogni scena evocata si trova il resto, quasi fosse una sfera che poggia, con tutto il suo peso, in un punto soltanto: Ines.

E’ Ines il raccordo tra i diversi momenti, colei che via via alza i coperchi che lasciano emergere emozioni mai sopite, in un inventario di cui non si vuole perdere nulla. E’ un modo diverso per dire che qualcuno deve pur rimanere, qualcuno deve pur farsi depositario di quel briciolo di verità che resta, del suo richiamo, affinché resista alla consunzione dei tempi.

Ines ha capito che le anguane, le fate d’acqua, le mari de gnot, le vivene o vivane possono essere chiunque. Una volta che la loro natura ti accalappia non si ha via di scampo, si deve obbedirle. Non è un impossessamento, questo no,  perché si rimane quelle di sempre, solo in un altro stato: di grazia, di resa o di ribellione, poco importa.

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