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Recensione "Manna e miele, ferro e fuoco" di Giuseppina Torregrossa

Creato il 11 ottobre 2011 da Alessandraz @RedazioneDiario
Care lettrici e lettori,  ci sono dei libri che entrano sottopelle, toccando le corde nascoste dell'anima, riportandoci all'infanzia, alla dolcezza consolatoria del cibo, alla luminosità delle mattine d'estate, alla scoperta della prima, vera passione amorosa. I libri di Giusy Torregrossa sono tutto questo e molto altro ancora. E nel suo ultimo romanzo, edito da Mondadori e curato da Giulia Ichino (presente al Festival di Matera, di cui presto potrete vedere l'intervista) dal titolo Manna e Miele, Ferro e Fuoco, l'autrice mescola  come in un preparato alchemico magia, stupore per il mondo, passione per la vita e per la femminilità insieme a una cura meticolosa nel descrivere il mondo intero racchiuso in una sola terra: la Sicilia. Trama:
Romilda Gelardi viene alla luce in una notte di tormenta. Nel caldo della loro casa, Marica e Alfonso si illuminano davanti al miracolo di quella figlia femmina tanto desiderata, bella e polposa come una spiga di grano a giugno. Romilda si rivela subito una bambina speciale, capace di stabilire un dialogo istintivo con cose e persone. E suo padre Alfonso si rende conto che, di tutti i figli, forse solo Romilda ha le capacità per ereditare i segreti del suo mestiere. Sì, perché Alfonso è un mannaluoro: uno dei pochissimi depositari dell'arte di estrarre dai frassini la manna, sostanza dalle miracolose virtù nutritive e curative. Romilda cresce così tra gli insegnamenti della madre, e quelli del padre. Ma Romilda è destinata a incontrare presto la violenza del ferro e la prepotenza del fuoco: don Francesco, barone di Ventimiglia, la chiede in sposa ancora bambina. Seguire don Francesco significherà lasciare il bosco, conoscere le durezze di una vita più agiata ma profondamente inautentica - in cui anche l'esperienza della maternità può finire per espropriare una donna di se stessa. Giuseppina Torre-grossa torna ai temi che le sono visceralmente cari: la sua terra e la femminilità. Una Sicilia nobile é feroce, terra di pazzi e sognatori, di aranceti e solfatare, è il palcoscenico sul quale si muovono personaggi memorabili, sul quale grandezza e miseria delle umane passioni prendono vita nel canto di una donna alla ricerca della propria libertà.
RECENSIONE Maschio e femmina, dolcezza e asperità, luce e ombra. E' sulla dualità che si gioca questo nuovo, raffinato romanzo di Giusy Torregrossa, medico prestato alla letteratura. La storia è quella di Romilda, la giovane figlia di un mannaluoro, (ossia colui che conosce l'arte segreta e misterica di raccogliere la manna, tipico prodotto delle foreste madonite)  Alfonso Gelardi, e di Maricchia, una donna forte e insieme umorale, perfetto archetipo di  una sicilianità declinata al femminile che colpisce e coinvolge, emoziona e seduce. Dall'altra parte abbiamo il Barone Ventimiglia, Francesco. Figlio trovatello dell'anziano barone, adorato dalla madre adottiva, vive in un contesto fortemente anaffetivo, in cui la sensualità diviene sinonimo di debolezza e l'unico linguaggio conosciuto è quello dell'intimidazione. Famiglia potente, quella dei Ventimiglia, il cui castello a Castelbuono svetta sopra le Madonie, le montagne che fronteggiano il mar Tirreno.
I destini di Romilda e Francesco si intrecciano nel momento in cui questi scorge la protagonista, poco più che una bambina, insieme al padre. E' bella, circondata da api che le fanno da corona, con i capelli color del miele. Il barone, un uomo avanti negli anni che non ha avuto quasi esperienze con l'altro sesso, si sente attratto da quella creatura straordinaria e chiede al padre di portarla al castello per le nozze quando diventerà donna. E così accadrà: Romilda diverrà baronessa. Ma questa creatura strana, libera "dentro" non rimarrà a lungo imprigionata da un marito che la considera più una proprietà e che, nello stesso tempo, la teme per l'ascendente che ha su di lui.
Manna e Miele è Romilda. Ferro e Fuoco, Francesco. Eppure durante la narrazione si comprende che la violenza del ferro non potrà piegare la dolcezza del miele. Mentre Francesco Ventimiglia è una figura dagli accenti quasi verghiani (nel suo attaccamento ai beni o nell'incapacità di adattarsi al nuovo regime politico che avanza), Romilda, divenuta una donna coraggiosa e libera, usa il linguaggio quasi fatato delle donne della grande letteratura sudamericana. Romilda parla con le api e da loro riesce a farsi dare il miele: la ragazzina è la depositaria dell'antica saggezza del padre, il Mannaluoro di Ganci. Alfonso ha avuto tre figli maschi e a loro spetterebbe di raccogliere la manna, la linfa preziosa che sgorga dai frassini da cui si estrae la manna, un dolcificante naturale usato dagli Arabi, prezioso e ricercato, degno della tavola di nobili e re. Nelle Madonie il mannaluoro  non era solo un contadino. Era una figura dalla saggezza e dal ruolo sciamanico, in grado di comprendere la natura e le condizioni in cui i frassini "femmina", i c.d. muddrii sono in grado di cedere la loro preziosa linfa. Gli animali lo rispettano, le piante lo amano e lui per primo ricambia quest'amore prezioso e geloso. Perché, se il mannaluoro non intacca bene la corteccia del frassino, questo soffrirà e non vi sarà raccolto.
Nella figlia, Alfonso riconosce le caratteristiche peculiari dei mannaluori, ed è lei che il padre sceglie come sua erede nella professione: una sorta di rivoluzione epocale in un mondo declinato al maschile. A educare Romilda in ciò che compete una donna del XIX secolo ha pensato la madre, Maricchia. Testarda, forte, dalla bellezza ormai sfiorita, la madre di Romilda rappresenta la femminilità potente, in cui il magico si unisce alla consapevolezza. E' lei a fare una maaria su Romilda appena nata: pochi frammenti di manna sulle sue parti intime, che renderanno il suo corpo irresistibile per l'uomo che l'assaggerà. Ed è la madre a spiegare come una donna deve usare la propria femminilità e la conoscenza del proprio corpo per tenere stretto un uomo. Le scene in cui questo accade sono insieme esilaranti e colme di una delicatezza rara: in esse si assiste al passaggio della sapienza nel senso stretto del termine (gnosis seauton, dicevano i Greci) da una donna che ormai conosce il segreto legame tra un uomo e una donna (e il potere della dolcezza e della seduzione) a una ragazzina che deve iniziare il cammino della vita, per cui la maturità sessuale corrisponderà all'ingresso in un mondo ostile e difficile qual è quello della nobiltà. 
Se Maricchia e Alfonso sono in una fase della vita in cui ogni giornata si ripete uguale a se stessa, per Romilda, questa fase è ancora lunga. Sarà l'asperità del marito prima e le difficoltà date dalla nascita dei figli dopo, a sottrarla a quella magia unica e rara che è il suo motore vitale. E altresì, sarà il bisogno di tornare a se stessa, al suo io vero e profondo, che la porterà a prendere in mano il suo destino e lasciare il castello, un po' come l'Italia appena nata cerca di fare, faticosamente, affrancandosi dalle potenze straniere. Manna e Miele, Ferro e Fuoco è un romanzo che è insieme storia familiare e romanzo di formazione... ma con le caratteristiche peculiari, date dalla sensualità profonda della scrittura di Giusy Torregrossa, un unicum nel nostro panorama letterario.
In questo lavoro, a differenza del bellissimo Il conto delle Minne, ha una vocazione più "nazionale": Romilda vive la sua esistenza nello stesso periodo in cui l'Italia viene faticosamente unificata; e anche lei, come la neonata nazione lotta per trovare una propria identità, schiacciata dalle pretese di chi vuol trasformarla in qualcosa di diverso. E' un romanzo intimo e  insieme potente, in cui la scrittura dell'autrice abbandona quell'impianto linguistico/dialettale che rappresentava uno degli elementi salienti dei suoi precedenti romanzi per approfondire maggiormente l'aspetto psicologico e sociale in cui i personaggi sono immersi. La scrittura è poetica, a tratti evocativa, impregnata di quel realismo magico che è patrimonio di autrici come Laura Esquivel, ma che la Torregrossa padroneggia con autentica originalità.
Una prosa pulita, dialoghi e narrato si giustappongono in perfetto equilibrio. Notevoli le descrizioni delle zolfare, ritratte nella loro sordida miseria, e delle Madonie che la scrittrice ha descritto con piglio quasi fotografico, e non solo. Perché ha saputo caratterizzare il silenzio, la dolcezza sospesa, i colori tenui ed eleganti di una delle zone più belle della Sicilia. Ma, ancora una volta, convitato di pietra di questo romanzo è il cibo. Giusy Torregrossa amalgama - è il caso di dirlo - con sapienza i legami tra femminilità e nutrimento. Le donne non sono solo creatrici e portatrici di vita (come accadeva nel bellissimo finale de Il conto delle Minne), non sono spiriti profondamente liberi (come la protagonista dell'assaggiatrice): le donne sono streghe, alchimiste, incantatriciIl cibo diviene sinonimo di vita, allegoria della forza, del coraggio delle donne, capacità di reagire alle disgrazie, autentica forza creativa: nutrimento dato con dolcezza, che ammalia e seduce e che, nello stesso tempo, nutre e rafforza. Il cibo è allegoria del corpo femminile: dei seni (che nutrono e che segnano "visibilmente" la femminilità) o della vagina, dolce come il miele, che attira con il suo profumo e la morbida accoglienza. Dall'altra parte l'uomo, "u masculu" che prova da sempre a distruggere la forza delle donne, ma che non può cancellare la forza vitale che esse custodiscono. Un romanzo delicato e potente che stregherà i lettori e che segna la consacrazione definitiva di una delle più grandi voci  femminili del panorama letterario italiano.

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