Titolo: Seminario sulla gioventù
Autore: Aldo Busi
Editore: Mondadori
Anno: 2010 (ed. or. 1984)
ISBN: 9788804607397
Numero pagine: 409
Prezzo: € 10,00
Voto:
Trama: Tutto è diverso da quello che sembra. E se l’amore negato, l’ingiustizia che accende una rabbia cocente, «tutto il dolore che abbiamo creduto di soffrire da giovani» diventano i semi di una storia da far fiorire a fuoco nella mente degli altri, l’esistenza può perfino rivelarsi un inaudito viaggio dentro e fuori dal labirinto in cui scalpita, smascherato, il minotauro dei falsi sentimenti. Qual è la verità che Arlette, Suzanne e Geneviève cercano di nascondere al giovane protagonista di questo Seminario? Quale ruolo sociale potrà ingabbiarlo mai, se fino dall’infanzia Barbino si ribella a ogni convenzione e tradisce soltanto per garantire una sincerità profonda? Luminoso e ustorio, questo è stato il primo romanzo di Aldo Busi ed è già diventato un punto di riferimento per i giovani dei molti paesi in cui è stato tradotto: un classico della letteratura più elegante, quella che sa parlare con il ritmo e il respiro della vita.
Recensione: Seminario sulla gioventù è un romanzo densissimo, da gustare frase per frase, virgola dopo virgola.
Nessuno sembra capace di frenare Barbino, un Pinocchio scalpitante uscito da chissà dove, scoppiettante di entusiasmo, tendenzialmente nato fuggiasco e capace di mille e più sentimenti alla volta, sfumature comprese. È ribellione allo stato puro verso qualunque cosa lo possa ingabbiare. Precoce anzitempo, la sua personalità è definita e per niente scissa, ineducabile perché il bene e il male assumono in lui un’unica sostanza chiamata libertà.
Barbino vorrebbe farsi autore e sovrano degli eventi e quasi suggerire gli accadimenti. Ma è l’Autore, quello vero, ad avere l’ultima parola, a porre un freno (anche se fittizio e di maniera) a un personaggio che scivola da tutte le parti. Pur sfidandosi a distanza, più o meno ravvicinata, non sembra esservi completa identificazione tra Barbino e Busi, piuttosto vi è con i luoghi a loro comuni (Montichiari, Parigi, la prospettiva di un viaggio a Londra).
Il Pinocchio-Barbino non tiene le fila del racconto, e tuttavia si ribella al fatto che esse siano in mano ad altri. Preferisce pronunciarla lui l’ultima parola, scegliersi il finale che più gli vada a genio, questo il suo modo di porre nel sacco il destino, o dare lo scacco a chi intralcia il suo cammino.
Qualunque libertà ha il suo prezzo: la forza dirompente di un genio in fuga delle lettere diventa agli occhi di qualcuno una macchietta da sollazzo. Non viene capito.
Un conto è infilarsi una vestaglia e ballare, cantare mambo italiano per gioco. Altra storia è quando qualcuno gli infila a forza la stessa vestaglia, e lo costringe a ballare e a cantare sopra un tavolo di osteria. Barbino si rende conto dell’oltraggio quando è già in strada
con addosso ancora la sensazione legnosa di gesti fatti contro voglia.
Scopre il disgusto, sì, ma non di sé, piuttosto di coloro che hanno frainteso la sua eccitazione, la sua esaltazione. Barbino a quel punto si sente derubato, non solo deriso. Scopre la differenza tra lui e gli altri, qualcosa che lo rende diverso perché unico. Si domanda cosa deve inventare, adesso, per ritrovare l’odore del peccato senza la caramella dentro.
La soluzione traspare velatamente, quella di un gioco che si rivolta contro chi l’ha dileggiato, per poi riderne.
Barbino confonde il bene e il male perché si pone al di là di qualsiasi metro di giudizio. Una cosa importante, infatti, si nota tra le pagine. Egli non giudica, piuttosto elenca dettagliatamente immagini, sensazioni ed emozioni; esprime un modo di esser-ci che non può che dare scandalo dato che sfiora una verità priva di contraddizioni.
Esse (contraddizioni) sono accolte senza la pretesa di risolverle. In questo modo Barbino vive la propria omosessualità, come una verità della quale non si può predicare nulla, un luogo dove le contraddizioni esplodono e poi si dissolvono fino a non darsi più battaglia, salvo che nelle chiose, dove si insiste nel cogliere un aspetto anziché l’altro, per continuare in altri luoghi l’alterco.Quando credo di amare qualcuno comincio a odiarlo e a trovargli mille difetti e incompatibilità, forse perché così, attraverso l’odio, riesco a decifrare anche l’amore che, da solo, si consumerebbe…
L’oggetto dell’odio e dell’amore è il vizio altrui che di Barbino si nutre, è un mondo rovesciato ma nascosto, la perversione altrui di cui Barbino ha schifo e che gli rimane incollata come una seconda pelle. Eppure, lo dice chiaramente, lui riluce, brilla sotto le apparenze, e non vede l’ora di annientarlo, lo schifo che gli spargono addosso e che lui asseconda per sopravvivere. Barbino vorrebbe essere, più che assecondato, ricambiato:
Mi sento comprato anche stavolta, conglobato a poco a poco in un ruolo, quelle delle sue fantasie passate, da cui non si è liberato neanche con me.
Al vizio dell’amante Barbino contrappone la passione, il trasporto, sentimenti nobili dietro uno scambio di sguardi, la vera e propria attesa di un innamorato.
Allora si capisce la necessità dell’autore – a mezzo di Barbino – di difendere a spada tratta la verità di cui si è detto, da qualunque parte provenga l’offesa. La ribellione di Barbino allo scandalo di un modo di pensare dà scandalo a sua volta. Si dice che Proust fosse malato:
… nessuno è intervenuto, io sono scattato in piedi e gli ho chiesto che tipo di pregiudizio poteva gettare sulla sua opera un po’ d’asma, si spieghi. Lui sembrava sollevato, gli pareva di essere stato chiaro abbastanza, la malattia era… E non nominava l’innominabile.
Seminario sulla Gioventù è molte cose insieme. Barbino racconta i suoi amori disattesi, profanati e mortificati ( per esempio Giacomino) che a lungo andare si fanno masochistici. Sono disattesi e mortificati perché diventano mezzo sordido (a pagamento), pretesto per sopravvivere agli stenti di quando si trovava a Parigi e tirava avanti grazie a espedienti più o meno fortunati. Insomma, si lamenta Barbino, nessuno poi che ti tenga a dormire e che ti impedisca di patire nello stesso momento la fame, il gelo, il sonno, l’umiliazione del corpo in tutti i sensi.
Ma Barbino come si è detto accoglie tutto, bene e male, amore e odio, notte e giorno. Evita di cogliere le cose a metà, preferisce l’intero, dietro l’amore c’è l’odio, se ama odia, se odia ama. Ama ciò che vorrebbe preservare e non preserva, odia ciò che desidera distruggere e non distrugge. L’odio divampa come il sentimento ugualmente profondo che lo avversa, prendendo su questo il sopravvento e alimentandosi di propositi di vendetta troppo sofisticati per andare realmente in porto. Barbino è anche colui che sogna vendette crudeli nell’oltretomba e quindi impossibili da consumare. Ma in fondo, e questo lo sa, non faceva altro che escogitare castighi per dilaniare l’anima di chi non l’aveva mai posseduta:
«Lei sopravvaluta la sensibilità della gente mio caro. Delle sue vendette, temo, nessuno ne sa niente»
dirà Arlette più avanti nel romanzo, colpendo nel segno.
L’alternativa qual è, in fondo? Barbino abita un mondo che non gli rassomiglia, fatto di lupi e di agnelli che sognano di tramutarsi in lupi, per vendicarsi contro quelli, rincarando la dose dei soprusi.
I soprusi sono fondamentalmente quelli ricevuti da chi è incapace di restituirli. Del dolore sofferto ci si fa il callo, si dice. Esso a un certo punto è troppo dentro di lui, ormai inscindibile da lui, quasi natogli dentro insieme alla milza e al fegato.
Un callo. Ecco cosa resta di tutto il dolore che abbiamo creduto di soffrire da giovani. Ma scopriamo che questo adagiarsi nel proprio dolore fino a cauterizzarlo significa cadere in schiavitù, se non di altri, di pregiudizi e lacci, di situazioni contro le quali occorre reclamare la ribellione immediata.
Saranno tre donne a sorprenderlo (Arlette, Suzanne e Geneviève), ad aiutarlo a trovare lavoro e a dargli un tetto disinteressatamente. In questo modo si è allacciato in nuove catene, che gli dispiacciono fino a un certo punto. Si è quasi innamorato, di quelle catene, ed è per questo che comincia a detestarle, spine nel fianco della libertà che invoca, anche in questo caso, il diritto all’abbandono, alla fuga.