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Recensione "Shiiku" di Kenazaburō Ōe

Creato il 21 maggio 2012 da Alessandraz @RedazioneDiario

Recensione "Shiiku" di Kenazaburō Ōe

Pubblicato da Valentina Coluccelli Titolo edizione italiana: L'animale d'allevamento Titolo originale : Shiiku Autore: Kenazaburō Ōe Editore: Il Sole 24 ORE Collana: Racconti d'Autore Pagine: 72 Prezzo: 0,50 euro Data uscita: gennaio 2012 Trama: In un villaggio del Giappone affamato dal secondo conflitto mondiale, un aereo si schianta al suolo e un soldato americano di colore è fatto prigioniero. Confinato un un sotterraneo, le caviglie legate con la catena di una trappola per cinghiali, l'uomo diventa l'idolo dei bambini, il loro animale domestico, un nuovo compagno di giochi. Quando le leggi della guerra infrangono l'idillio e l'innocenza è spazzata via dalla violenza della morte, il piccolo protagonista - io narrante di questo sapiente racconto - si affida all'emancipazione dell'età adulta.
RECENSIONE Nel Giappone del secondo conflitto mondiale, un piccolo villaggio rimasto isolato dopo le inondazioni del periodo delle piogge si trascina in una vita placida e ripetitiva. Gli adulti si concentrano sulla produzione e sulla ricerca del cibo, la scuola è stata chiusa e i bambini, abbandonati a loro stessi, sono liberi di scorrazzare nelle strade polverose e torride o nel bosco o alla fonte del pozzo comune, dove scoprono una sessualità naturale ma al contempo morbosa e dove fanno valere la legge del più forte e del più furbo. Per gli abitanti del villaggio la guerra è solo un fantasma. Il fantasma della fame e della povertà, e non degli scontri, dei bombardamenti, della morte.
“Fuori di quella dura epidermide, vicino al mare che dal tetto si vedeva brillare lontano e sottile all’orizzonte, nella città oltre le creste sfalsate dei monti, la guerra solenne e ostinata, come una leggenda che ha sfidato il tempo, vomitava aria stagnante. Ma la guerra per noi non era altro che l’assenza dei giovani dal villaggio e il postino che di tanto in tanto portava la notizia di un altro caduto sul campo.”
Ma il fantasma della guerra diviene improvvisamente una realtà concreta quando un aereo americano si abbatte nel bosco vicino al villaggio. Gli adulti accorrono sul posto e tornano dalla comunità raccoltasi in strada con l’unico sopravvissuto allo schianto: un nero grosso, goffo, dagli occhi sempre annacquati, che il giovane io narrante e i suoi compaesani non riescono proprio a vedere come un “nemico”. Il prigioniero viene così rinchiuso in un magazzino sotterraneo, con le caviglie incatenate con una trappola per cinghiali e una sorveglianza continua. La sola presenza dell’uomo è fonte di profonda paura eppure, al contempo, anche di eccitazione e di indefinita aspettativa, soprattutto per i bambini. Il villaggio, incapace di prendere la risoluzione di eliminarlo e in attesa che dalla città arrivino direttive su come agire, decide di addomesticarlo, allevarlo (da qui il titolo originale shiiku 飼育, letteralmente “allevamento”).
“Che ne farete di lui?”, chiesi deciso.“Finché non sapremo che cosa ne pensano in città, lo alleveremo.”“Allevare?”, chiesi stupito. “Allevare come un animale?”“Sembra davvero un animale”, disse mio padre seriamente. “Puzza come un bue!”[…] Allevare il soldato negro! Io mi cinsi il corpo con le braccia. Avrei voluto denudarmi e urlare.Allevare il soldato negro come una bestia…
Presto, all’atterrita cautela iniziale si sostituisce una strana fiducia nell’animale, che appare così mansueto, che non cerca mai di fuggire e che mostra un’inaspettata propensione per lavorare e aggiustare i congegni di ferro. Il prigioniero diventa davvero una sorta di animaletto domestico degli annoiati bambini del villaggio, da accudire, privo della parola, incomprensibile, capace di comunicare solo con grandi sorrisi, spesso ingiustificabili, rozzo. Per lui provano quella divertita condiscendenza che si usa per le bestiole: ridono di gusto, ma con tenerezza e a volte ammirazione, del terribile odore che emana, della sua voce “profonda e vigorosa” quando canta, persino del suo sesso “magnifico, eroico, incredibilmente bello” cui offrono una caprone per vederlo in azione.
Ridemmo fino a che le gambe non ci ressero più e cademmo a terra esausti, come se la tristezza si fosse insinuata nelle nostre morbide teste. Per noi il soldato negro era come un raro e splendido animale domestico, un animale di talento. Come posso esprimere il bene che gli volevamo, il sole che brillava sulla nostra pelle bagnata e pesante in quel lontano pomeriggio d’estate, l’ombra spessa sull’acciottolato, l’odore dei bambini e del soldato negro, le grida di gioia, il senso di appagamento, il ritmo di tutto questo?
La dura realtà della guerra e, ancor più dolorosamente, quella dell’età adulta, squarciano la vita del giovane protagonista quando corre ad avvisare il prigioniero dell’arrivo dalla città dell’incaricato al suo prelievo. Il docile e amichevole animale, invece di ringraziare, invece di accettare con rassegnata mansuetudine il destino, invece di tentare una fuga, se pur disperata, prende in ostaggio il bambino.
Con un agile balzo da animale, il soldato negro mi fu accanto e mi strinse con forza a sé, facendosi scudo col mio corpo; allora, divincolandomi dalle sue braccia e gridando di dolore, capii tutta la crudele verità. Ero suo prigioniero e suo ostaggio. Il soldato negro era diventato un “nemico”, mentre i miei alleati strepitavano al di là della botola. Rabbia, umiliazione e il dolore irritante del tradimento mi percorsero tutto il corpo, come fiamme brucianti. Ma, più di ogni altra cosa, mi montò dentro e mi travolse una gran paura, che mi chiuse la gola e mi indusse al pianto. Infiammato di rabbia, piansi tra le rudi braccia del soldato negro. Il soldato negro mi aveva fatto prigioniero…
Il soldato nero non ha alcuna possibilità di uscire vivo dal sotterraneo in cui si è rinchiuso col suo prigioniero – che era stato il suo primo carceriere e il suo primo liberatore – e nemmeno l’ostaggio ha la minima speranza di uscire indenne dalle conseguenze di quel gesto avventato, di quel capovolgimento di ruoli e di affetti: dalla paura, dalla rabbia, dal senso di tradimento da parte di quell’essere che aveva creduto non-nemico e dal senso di abbandono da parte degli adulti e del padre. Gli abitanti del villaggio, infatti, infervorati dal cambiamento di atteggiamento del prigioniero, come traditi da esso, e inferociti per il suo gesto, che ha ineluttabilmente portato la realtà della guerra in mezzo a loro, irrompono nel sotterraneo più per distruggere il nemico che per salvare il loro giovane. È il padre del protagonista che, brandendo un’ascia e non indugiando ad alzarla contro la mano del suo stesso figlio per raggiungere la testa del soldato nemico, pone fine alla vita di questi. Il protagonista perde così la mano, la fiducia negli altri e l’incanto dell’infanzia.
Inspirai profondamente e rimasi in silenzio. La guerra, quel lungo, sanguinoso combattimento su vasta scala, doveva continuare. La guerra che – come un’alluvione che travolge greggi di capre e prati rasati in un paese lontano – nessuno si sarebbe mai aspettato arrivasse fin nel nostro villaggio. E invece era venuta a spappolare le mie dita e la mia mano, mentre mio padre brandendo un’ascia si ubriacava del sangue di guerra. E improvvisamente il villaggio veniva avvolto da quella guerra e nel tumulto io non riuscivo nemmeno a respirare.
Il linguaggio di Ōe è schietto, crudo, minimale, si concentra su pensieri ripetitivi, piccole ossessioni, momenti di rivelazioni improvvise. E in poche taglienti e spoglie pagine, riesce ad essere una nuda denuncia dell’orrore della guerra e dell’odio. L'AUTORE Kenazaburō Ōe (31 Gennaio 1935) è un figura importante nella letteratura contemporanea giapponese. Le sue opere, fortemente influenzate dalla letteratura francese e americana, si occupano di questioni politiche, sociali e filosofiche, comprese le armi nucleari, l'energia nucleare, il non-conformismo sociale e l'esistenzialismo. L'autore è stato insignito del Premio Nobel per la letteratura nel 1994.

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