In ambito digitale il mondo delle open source e le pratiche del copyleft sono significativi perché predispongono una sorta di via di fuga dalla logica del diritto d’autore, senza contestare l’esistenza della sua disciplina. Le nuove tecnologie hanno determinato un ampliamento delle opportunità di accesso ai diritti culturali e al tempo stesso hanno aumentato il divario culturale. Per affermare l’uso democratico delle nuove tecnologie è stata avviata una riflessione che mette a confronto i software proprietari e quelli liberi, definiti open source. Nel 1969 una ristretta comunità di hacker uscì dal suo isolamento universitario dando alla luce il sistema operativo Unix, primo sistema sviluppato in linguaggio C (linguaggio di programmazione) e non in linguaggio macchina (binario). Le culture hacker susseguitesi nel tempo hanno influito in maniera determinante sulle istanze di copyright del software, i cui punti cardini sono: la libertà di accesso alle risorse (dati, informazioni), condivisione delle conoscenze e degli strumenti, cooperazione ed unità nella realizzazione di progetti utili alla comunità, creatività e credibilità (malgrado lo spirito goliardico latente). Negli anni 80 si verifica un ribaltamento della filosofia ereditata dalla tradizione hacker: la quantità sostituisce la qualità, il controllo al posto della libertà di accesso, profitto invece di personale dedizione, divisione invece di cooperazione, segretezza invece di condivisione. Nasce in questo modo la figura del programmatore professionista, il quale svolge le stesse funzioni tipiche dei suoi predecessori, ma essendo inquadrato nella gerarchia aziendale e non essendo più unico padrone delle proprie creazioni informatiche.
In questo sistema Richard Stallman, programmatore indipendente, col tentativo di recuperare lo spirito di condivisione tipico dell’etica hacker si impegna in un progetto che promuove la creazione e diffusione di sistemi operativi e applicazioni informatiche liberi, indipendenti e gratuiti. Mette a punto un sistema operativo (basato su Unix e chiamato GNU- gnu’s not unix) svincolato dal copyright e basato su un sistema di particolari licenze, chiamato appunto copyleft, con il quale costringeva chiunque volesse apporre modifiche al codice sorgente del software distribuito liberamente a ridistribuirle altrettanto liberamente. L’ideologia open source tornò a vivere, ma il sistema GNU per svincolarsi del tutto dai software proprietari necessitava di un kernel, cioè una piattaforma in grado di far funzionare il software autonomamente. Negli anni 90 un giovane finlandese Linus Torvalds inventò il kernel mancante e inventò Linux, il primo e più famoso dei software del mondo open source gratuito e completo. Il mercato del software nel quale oggi si confrontano i due modelli di business nasce nel 1969, quando l’Autorità Antitrust americana avvia un procedimento contro IBM per aver monopolizzato, il mercato dei general purpose electronic digital computer system. La IBM decise così di vendere separatamente hardware e software rendendo possibile la nascita di un autonomo mercato del software. In quanto opera dell’ingegno, il al software doveva essere applicata la legge sul diritto d’autore o quella brevettuale. La prima individua l’oggetto principale della tutela nella forma espressiva di un’opera e prevede che i diritti sorgano in capo all’autore a fronte di una semplice creazione/pubblicazione, mentre il sistema brevettuale riconosce la privativa industriale esclusivamente sulla soluzione originale oggetto dell’invenzione a prescindere dalla forma conferita dall’inventore al trovato. Evidente che qualora il software fosse stato inquadrato nella categoria delle invenzioni industriali il modello Open Source probabilmente non avrebbe mai visto la luce.
Non vi è dubbio che il diffondersi dell’open source software trovi una delle sue principali ragion d’essere nella volontà di sfuggire al regime costrittivo imposto dalle regole dedicate alla tutela. Sulla base del tradizionale copyright si è sviluppato un modello di distribuzione aperto dei programmi ed hanno stimolato la creazione condivisa di loro ulteriori versioni. Una particolarità dell’open source è la possibilità di distribuire i programmi nelle versioni in codice sorgente (), mentre normalmente i programmi tradizionali vengono distribuiti nella sola versione in codice oggetto (cioè quella eseguibile dal computer). Il software in codice oggetto abbinato alla protezione offerta dal diritto d’autore si impedisce che le idee ed i principi alla base di un programma possano circolare ed arricchire il sapere informatico della collettività, in spregio ad uno dei principi fondamentali della disciplina di protezione delle opere dell’ingegno secondo il quale dell’opera creativa è tutelata la sola forma espressiva e non il suo contenuto ideologico.
Nel mondo del copyright tutto ciò che è innovativo e creato dall’intelletto umano deve essere protetto giuridicamente, e può essere commercializzato. Più complicato nei fatti: non si può pensare che un’idea possa essere bloccata da un lucchetto legale. Con la messa in discussione del modello tradizionale di copyright si arriva ad applicare alternative licenze d’uso anche alla sfera della creatività artistico-espressiva. Opere di questo tipo sono lontane dai principi di disponibilità di apertura del codice sorgente, ma ci si concentra sulla libertà di copia e sulla trasparenza dei formati attraverso il concetto di copyleft. Non si considera più l’opera creativa come un tutt’uno con il supporto fisico e si giunge alla concezione di nuove licenze per opere testuali, musicali e artistiche in generale. Nel modello copyleft a cambiare sono i meccanismi classici del diritto d’autore: libertà di produrre e distribuire, libertà di pubblicare e in seguito di intervenire sull’opera, libertà di riprodurre l’opera su qualsiasi supporto. Questo genera due effetti: la disintermediazione – che nasce con il file-sharing dove il soggetto smette di essere solo ricevente e diventa parte attiva del messaggio – e la differenziazione – che riguarda l’indipendenza tra autore e copyright tradizionale, potendo egli scegliere tra diversi set di licenze da applicare alle sue opere, cioè dei contratti elastici che vanno dalla totale rinuncia ai diritti intellettuali a modelli “alcuni diritti riservati”-. Tali modelli non rappresentano la negazione delle leggi sul diritto d’autore, ma poggiano su di esso. Il copyleft e le licenze che lo regolamentano hanno due campi d’applicazione: il web e l’editoria cartacea. Per regolare le opere stampate c’è bisogno che un editore e specifichi nel contratto di edizione che l’opera distribuita è copyleft, che l’autore e l’editore rinunciano a determinati diritti, in un ambito di non esclusività, elencando cosa è permesso di fare con quel testo e cosa no cioè commercializzazione, condivisione o riproduzione (la rivista Internazionale ne è un classico esempio). Altra particolarità è quella di avere un doppio canale, la vendita in libreria e la scaricabilità online.
Con questo sistema si possono gestire i diritti d’autore in modo alternativo rispetto al modello tradizionale come testimoniano i numerosi casi sperimentati che, oltre all’editoria, riguardano la didattica, l’editoria scientifica, l’editoria musicale). In questa onda si innesta il progetto Crative Commons. Ovvero un progetto che promuove a livello globale nuovi paradigmi di gestione del diritto d’autore e diffonde strumenti (le licenze) che permettano di realizzare un modello di “alcuni diritti riservati” nella distribuzione di prodotti culturali. Creative Common utilizza diritti privati per creare benefici pubblici, perché nel caso di beni come i prodotti della creatività e dell’ingegno umano , ogni creazione aumenta il suo valore sociale quante più sono le persone che ne possano beneficiare; non sono soggette a deperimento e nemmeno auna scarsità naturale, poiché la creatività non ha limiti.
Ciò che può essere sottoposto a controllo è lo strato fisico, ma non i saperi. Così come per il digitale, anche le conoscenze indigene e tradizionali possono essere tutelate con una reinterpretazione degli istituti convenzionali di protezione della proprietà intellettuale, come si è cercato di fare in sede Onu nel 2007 attraverso il riconoscimento delle conoscenze tradizionali come proprietà intellettuale, ma non basta “bisognerebbe stipulare un trattato internazionale che vieti la biopirateria, e tutti i Paesi del mondo dovrebbero sottoscrivere la convenzione sulla biopirateria”. (Stiglitz). La recinzione della conoscenza ha avuto, e sta continuando ad avere, degli esempi di resistenza che cercano di farci uscire dal tunnel della segregazione delle idee attraverso un reale sistema di comunicazione libero, disponibile nel mondo digitale, che coinvolge il mondo della produzione creativa, dalla scienza alla didattica. La tecnologia oggi è a disposizione di tutti e permette di agire in questo senso quotidianamente senza che ce ne accorgiamo, basti pensare all’utilizzo di Wikipedia, l’enciclopedia online libera, multilingue e a contenuto aperto. Licklider e Taylor gli inventori del protocollo TCP/IP (l’“accesso remoto” per accedere ad internet) affermarono che “se il vantaggio dell’amplificazione dell’intelligenza sarà riservato a un’élite privilegiata della popolazione, la Rete non farà che esasperare le differenze tra le opportunità intellettuali. Se l’idea della rete dovesse restare un ausilio per l’istruzione e se tutte le menti vi dovessero agire positivamente, di certo il beneficio umano sarà smisurato”.
Fonti :
Lo snodo della rete – G. Rizza, 2006
Oltre il pubblico e il privato – M.R. Marella, 2012
Copyleft e open content. L’altra faccia del copyright – S. Aliprandi, 2005
Il Bene Comune della Terra – V. Shiva, 2006
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BENE COMUNE conoscenza copyleft Cultura diritti opensource slider 2015-04-22