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Réflexions sur la violence

Creato il 17 dicembre 2011 da Albertocapece

Réflexions sur la violenceQualcuno si chiederà perché un titolo in francese e perché lo stesso del celebre saggio di Sorel che ha sempre suscitato entusiasmi e sospetti. Per molte ragioni che mi si stanno affollando nella mente in questi giorni di ordalia della finanza: per la copertina di Time dedicata agli indignati come fenomeno dell’anno, per la scomparsa della sinistra in Italia, risucchiata nel ventre di vacca della necessità e incapace di esprimere un’alternativa,  per il modo nel quale sono state trattate alcune vicende di cronaca.

E’ quasi ovvio che l’eclisse  di una vera sinistra in quanto organizzazione-partito, fenomeno  non solo italiano, e la sua faticosa reincarnazione in inquietudini e movimenti che si coagulano inaspettatamente in alcuni appuntamenti istituzionali o cominciano a manifestare una radicale conflittualità, a noi vecchi ragazzi ricorda immediatamente Sorel che, in polemica con il marxismo ortodosso, pensava che l’auto organizzazione delle masse era capace di creare una coscienza rivoluzionaria senza bisogno di partiti e di mediazioni. Era  l’azione in sé che diventava mito sociale capace di trascinarsi dietro la trasformazione,  diventare pensiero.

Ma Sorel non viveva ancora al tempo dei media: la conoscenza reale era ancora quella del luogo di lavoro, la solidarietà a portata di mano, quasi fisica, la separazione dal potere evidente e assoluta. Oggi è diverso: l’informazione, la mediazione finisce per essere determinante nei fenomeni di aggregazione politica o sociale e questa è di fatto detenuta dai potentati economici che costituiscono una specie di rete di contenimento e di indirizzamento che diventa via via meno efficace quanto più l’informazione o comunque lo scambio è sottratto alla logica di dominio e diventa orizzontale. Di qui l’allarme per le potenzialità di internet, per quel passa parola sotto e attorno ai canali ufficiali che non riesce ad essere imbrigliata, che spesso risulta fine a se stesso, ma che pian piano in quanto operazione attiva e reattiva comincia a creare consapevolezza.

Leggendo Time infatti ci si accorge che l’omaggio ai movimenti di indignati è in realtà un tentativo di portarli dentro un recinto di maggiore controllabilità, quasi che si cominci ad avere un qualche timore che da questi maelstrom  nasca un antagonismo non più ricucibile dentro le logiche del potere prima economico e poi politico, come grumo di seconda istanza. L’operazione è fattibile perché le tesi, le proteste, le prospettive dei movimenti possono acquisire rilievo e incisività nella società generale solo grazie ai tradizionali canali informativi, stampa e televisione che sono tuttora il main stream dell’informazione. Insomma le inquietudini sociali sono costrette a passare attraverso i loro addomesticatori, per avere visibilità. Qualcuno la chiama un’operazione di seduttiva volta a depotenziare la protesta in cambio delle notizie che la riguardano.

Ma questo funziona fino a che gli eventi si fermano agli accampamenti, ai cartelli, ai cortei. Quando per una qualsiasi ragione la situazione per qualche motivo precipita in violenza, anche non clamorosa, questo costringe l’informazione ad occuparsene e a dare comunque visibilità ai protagonisti. E per quanto si possano enfatizzare solo gli episodi spiacevoli e nascondere motivazioni, ragioni, speranze, qualcosa rimane. E’ anche per questo che episodi come quelli recenti di Roma, che erano tutto sommato abbastanza limitati e ridotti all’azione di pochi individui, hanno tenuto banco per giorni, è per questo che alla manifestazione antirazzista di Firenze dopo la mattanza di senegalesi, c’è chi si è adontato per il danneggiamento di due o tre motorini, ecco perché la no-tav è ormai ridotta a problema di ordine pubblico. Questi episodi riducono la capacità del sistema di controllare gli umori sociali attraverso la capacità contrattuale dei media che a causa della dissoluzione dei partiti ha finito per prendere il posto di quella politica.

Naturalmente non intendo né demonizzare oltre il ragionevole come è stato fatto, né tanto meno auspicare,  ma solo mettere in luce le dinamiche che sono in atto e far notare che esistono dei punti limite oltre i quali questo tipo di “contrattazione”  arriva al suo limite di utilità marginale, come direbbe un’economista o detto meglio diventa privo di senso. E alcuni indicatori dicono che il confine è probabilmente più vicino di quanto non si immagini: la pressione sempre più evidente dei poteri economico finanziari, la progressiva disgregazione della rappresentanza, la mancanza di voce, la stessa crisi che mentre aumenta la potenza del ricatto del lavoro ne diminuisce la platea, portano naturalmente la protesta dapprima confusa e contenuta dentro le possibilità del sistema a diventare antagonista e radicale.

Del resto se il mercato è definito come mano invisibile, spesso la violenza di chi lo determina acquista una specie di qualità eterea e impersonale, culturalmente spacciata come unica realtà possibile  e operativamente come necessità. C’è, ma quasi non appare perché è compresa all’interno di modalità universalmente accettate: quando però si palesa nella sua essenza, vale a dire come violenza, allora la strada è  la rassegnazione emotivamente complice o l’antagonismo intellettualmente capace di vedere un altro mondo. Con tutto ciò che questo comporta.


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