Inoltre, tradurre un progetto virtuale in un evento reale e in un posto fisico dove incontrarsi avvicina anche le persone che, pur sapendo della mia attività di blogger, non si sono mai fatte coinvolgere da questa stranezza.
Ci sono anche delle novità. Ad esempio ho scoperto che un amico ha scritto, in passato (e spesso su un treno), dei racconti. Non lo sapevo, tra una spiegazione sul funzionamento della macchina del pane e una passeggiata milanese questa cosa non era mai uscita. Tra i racconti, questo:
ANNA ALLE TREa. g.
Vorrei amarti, Anna, ma non posso. Sai,quando il cuore si tiene dentro troppo a lungo tutto quello che vive,rabbia, dolore, piacere, infine troppo congestionati per fluire nellevene, irrorare il cervello, stimolare i nervi e far muovere le labbraper dire a te quello che vorresti sentire...
Eppure gliel’ho chiesto, Anna, cosacredi? L’ho pregato, l’ho supplicato di fare un’eccezione.
Pensando a te, al tuo viso, alle tueparole, sono rimasto seduto per ore sul water dei miei sentimentiaspettando che succedesse qualcosa.
Niente. Stipsi emozionale.
Com’è successo, dici? Non lo so.Forse è stato maltrattato, ecco. Quando lo tratti male, il fisicoreagisce cosi. Si è stitici quando non si fa movimento, e non ci simuove quando non si sta bene. Il mio cuore non si è mai mosso molto.Quand’ero più giovane coltivavo in me la freddezza come unicapossibilità di sopravvivenza. Perché non reggo le emozioni.Qualsiasi tumulto mi mette il panico e la voglia di scappare, di nonvoler più sentire le parole, di non dover più sopportare tensioni.E in ogni posto dove sono stato, in ogni situazione in cui hovissuto, in ogni lavoro che ho fatto, ho dovuto sempre costruire etenere aperta una via di fuga, da poter prendere appena le cose sifacessero troppo vicine. Claustrofobia esistenziale.
Il fatto è che abbiamo troppo pocospazio: più o meno come un blocchetto di porfido e ci si può staresolo in bilico con la punta di un piede. Chi tocca giù con l’altropiede muore. E io invece vorrei potermi sdraiare, allargare legambe e stendere le braccia, e con le mani afferrare l’erba intornoe sentire il vuoto toccarmi la faccia e godermi la vertigine, senzapaura di caderci dentro. Invece qui, sul mio blocchettodi porfido, ho paura. Di mettere giù il piede, dico. Proprio adessoche mi sembrava si stesse muovendo qualcosa.
La fissa dell’equilibrio ce l’hoavuta sempre. Fin da bambino mi allenavo per ore camminando per lacasa con un manico di scopa tenuto sulla punta di un dito; oppure, conuna sedia in
bilico sul collo del piede, mi guardavonel grande specchio dell’entrata cercando di farla star su perquanto più potevo. E mi ripetevo: se cade, muoio. Invece poi cadeva,e sai che c’è?
Che mi sentivo più leggero, liberato.
Cosi adesso vorrei amarti, Anna, e allimite farmi male. Ma ormai è tardi, sono quasi le tre, e chi si amaa quest’ora dorme vicino. Quelli come noi invece scopano perdisperazione, dentro una macchina fuori da un locale, o su unospiazzo dello stradone con una prostituta, oppure si fanno da sé,tristi sotto le lenzuola, con la testa piena di insonnia.
Bello vero? Quella porticina che deve restare aperta per la fuga... sì, ce l'ho anch'io, quasi sempre. Poche volte la chiudo.
So che a.g. non ama troppo il mondo del web. Per questo considero il suo regalo particolarmente prezioso (e lo metto nel tumblr, insieme agli altri). Chissà che effetto gli farà leggersi qui.
Le sedie sono pretesti, metafore, alfabeti. Che momento strano e ricco che sto vivendo.
Marieta Golomehova, immagine da qui