Qualche giorno fa ho letto un articolo interessante scritto da Richard Hillesley dal titolo “The pragmatism of free software idealism – and the idealism of open source pragmatism“. Ve lo presento brevemente, poi cerchero’, per quanto mi sara’ possibile, di dire la mia su un argomento cosi’ complesso da mettermi in soggezione. In questo modo porto avanti il discorso cominciato nel post “Possibilita’, scelte e cambiamento“.
L’articolo di Hillesley inizia cosi’:
“Quello del Software libero e’ una proposta idealistica, che mira a cambiare il mondo e il modo in cui viviamo, lavoriamo e agiamo, sebbene con particolare riferimento ai programmi per computer e al modo in cui sono fatti. [...] La separazione tra idealismo e pragmatismo e’ diventato un modo conveniente di presentare le apparenti differenze tra Open Source e Free Software.”
L’Open Source e’ nato per rendere alcune idee di fondo del software libero “accettabili” per le imprese, ed ecco dove risiede l’inghippo. L’Open Source ha rinunciato ad alcuni principi su cui si basa l’”idealismo” del Free Software, per il pragmatismo della realta’ (o meglio di una realta’). Nonostante questo sia evidente, Simon Phipps, della Open Source Initiative (OSI) ha detto:
“La mia opinione e’ che i principi guidano le azioni, e l’opinione dell’OSI quando e’ iniziata nel 1998 era che c’era un gruppo di persone che hanno capito che i principi del software libero non riuscivano a penetrare il mercato, cosi’ decisero di fare qualcosa di pragmatico a riguardo. [...] Le imprese non sono persone, e solo le persone hanno una morale. [...] Gli individui possono avere una morale, ma le imprese non ce l’hanno. L’OSI e’ stata creata a partire dalla consapevolezza che le imprese non hanno morale, e se vuoi che un’organizzazione partecipi al software libero, quello che devi fare e’ darle una serie di benefici obiettivi, qualcuno questo non lo capisce. Pensano che dare alle imprese riferimenti obiettivi e benefici obiettivi sia in qualche modo un tradimento dei principi del software libero. Ma non lo e’. Ci si aspetta che le persone all’interno delle imprese accolgano i principi del software libero e ci si aspetta che le imprese si dirigano verso i vantaggi dell”Open Source’, e la separazione tra le due aspettative e’ piu’ apparente che reale.”
Riassumendo il pensiero di Phipps, le imprese sono cattive ma stupide, dunque basta dar loro qualche zuccherino affinche’ si prostrino a te, senza che debba rinunciare ai tuoi principi, anzi riesci a farli accettare a chi e’ dentro l’impresa. Tutto cio’ non mi sembra minimamente pragmatico.
Leggendo la storia del progetto GNU scritta da Richard Stallman troviamo:
“L’obiettivo principale di GNU era essere software libero. Anche se GNU non avesse avuto alcun vantaggio tecnico su Unix, avrebbe avuto sia un vantaggio sociale, permettendo agli utenti di cooperare, sia un vantaggio etico, rispettando la loro liberta’.”
Ecco l’enorme differenza che evidenzia le contraddizioni di quanto detto da Phipps. Come ho gia’ scritto nel post “Essere monotoni non sempre e’ un difetto” l’Open Source considera i principi del software libero come un mezzo per giungere al fine della qualita’ e diffusione del software open source; mentre la comunita’ del software libero considera la liberta’ il fine, mentre la qualita’ e la diffusione del software libero sono un effetto sperato ma non a scapito della liberta’.
Occorre prestare attenzione alla scelta dei mezzi per raggiungere il fine, perche’ se il fine e’ quello della diffusione, allora diventa giustificabile l’utilizzo di mezzi non in linea con i valori del software libero, se non addirittura contrari. In questo caso lo stesso raggiungimento del fine, proprio perche’ realizzato rinunciando ai principi, diventa privo di significato. Su questo tema nel 1999 Richard Stallman intervistato da Glyn Moody disse:
“La sola ragione per cui abbiamo un sistema operativo totalmente libero e’ grazie al movimento che disse di volere un sistema operativo totalmente libero, non libero al 90 percento. Se non hai la liberta’ come principio, non capirai mai la ragione per la quale non dovresti fare eccezioni. Ci saranno sempre momenti nei quali per un motivo o per un altro ci sara’ qualche convenienza a fare un’eccezione.”
Senza il software libero non potrebbe esistere il software open source, come scrisse Glyn Moody in un suo articolo nel 2009 (Without Free Software, Open Source Would Lose its Meaning):
“[...] senza la loro ostinazione, il loro costante impegno e le loro eventuali vittorie, perderemmo tutti queste liberta’, perche’ sono solo temporanee, e devono essere continuamente riconquistate. In particolare, senza il punto fermo dell’intransigenza del software libero, l’open source non avrebbe piu’ alcun senso.”
Questo perche’ il software libero contiene in se dei valori sia individuali sia sociali che l’open source non ha.
IDEALISMO PRAGMATICO – Spesso chi si dice pragmatico ha semplicemente elevato la mera ricerca del profitto (o altro) a unico ideale, la frase che conclude il testo di “Copyleft: idealismo pragmatico” recita cosi’:
“Parlando in termini pragmatici, pensare agli obiettivi a lungo termine aumenterà il desiderio di resistere a queste pressioni. Concentrandosi sulla libertà e sulla comunità che si può costruire rimanendo fermi in questa decisione, si riuscirà a trovare la forza per farlo. ‘Battiti per qualcosa o soccomberai per nulla’. E se i cinici ridicolizzeranno la libertà e la comunità… se i “realisti più intransigenti” diranno che il profitto è l’unico ideale possibile … ignorateli e continuate ad utilizzare il copyleft.”
Vi propongo un’altra citazione, questa volta dall’Enciclica “Caritas in Veritate” di Joseph Alois Ratzinger (alias Benedetto XVI), comunque la pensiate la trovo interessante:
“Il profitto e’ utile se, in quanto mezzo, e’ orientato ad un fine che gli fornisca un senso tanto sul come produrlo quanto sul come utilizzarlo [...] i tradizionali principi dell’etica sociale, quali la trasparenza, l’onesta’ e la responsabilita’ non possono venire trascurati o attenuati. [...] si sta dilatando la consapevolezza circa la necessita’ di una piu’ ampia ‘responsabilita’ sociale’ dell’impresa.”
Purtroppo siamo, chi piu’ chi meno, tutti convinti che il relativismo ci costringa a rinunciare ad alcuni dei nostri principi, a nascondere o cancellare la morale in nome di un pragmatismo crudele ma inevitabile. Eppure non e’ cosi’, anzi, la mia intenzione scrivendo questo post e’ quella di dire chiaramente che il vero pragmatismo e’ quello che non rinuncia ai principi morali ne’ alla liberta’, Benjamin Franklin disse:
“Chi e’ pronto a dar via le proprie liberta’ fondamentali per comprarsi briciole di temporanea sicurezza non merita ne’ la liberta’ ne’ la sicurezza.”
Ora cerchero’ di spiegare (piu’ o meno, per quanto mi sara’ possibile) perche’ l’idealismo del software libero e’ piu’ pragmatico di quanto non lo sia l’open source, ed essere pragmatici non significa rinunciare ai propri principi etici. Ma per dimostrarlo, o cercare di dimostrarlo devo partire da lontano, dal relativismo, dall’utilitarismo. Premetto che quanto segue deriva solo dal mio piacere per la lettura e l’ascolto, ma il fatto che abbia letto libri sull’argomento, non significa che abbia capito qualcosa, e anche se dovessi aver capito qualche piccola cosa, in modo superficiale, non e’ detto che riesca a comunicarla.
RELATIVISMO E UTILITARISMO – Protagora sosteneva che “l’uomo e’ misura di tutte le cose, di quelle che sono in quanto sono, di quelle che non sono in quanto non sono“, e con uomo intendeva il singolo individuo (in questo caso specifico, poi a seconda del contesto intendera’ comunita’ e umanita’). Dunque ciascuno di noi e’ misura di quello che egli stesso percepisce, quello che gli appare ai suoi sensi e’ vero per se’. Il tema della percezione e dei sensi e’ meglio analizzato da un contemporaneo di Protagora, Gorgia, secondo il quale: nulla c’e’, dunque, tutto cio’ che esiste e’ solo apparente; se anche qualcosa c’e', essa non e’ conoscibile all’uomo (che non puo’ conoscere); se anche e’ conoscibile non e’ comunicabile agli altri. Ecco il relativismo, non esiste una differenza in termini di vero e falso per quanto riguarda le percezioni perche’ per ognuno sono vere le proprie percezioni delle cose. Anche se piu’ che parlare di percezioni e sensazioni sarebbe piu’ corretto parlare di esperienze personali, che sono piu’ ampie, poiche’ non riguardano solo la singola percezione, ma l’intera vita dell’individuo. E’ l’esperienza personale a rendere gli individui diversi tra loro, esperienze maturate anche dai diversi contesti nei quali vivono gli individui, le diverse situazioni ambientali, culturali e politiche. Per questo Protagora dava una grande importanza alla collocazione e partecipazione attiva dei singoli individui alla vita della citta’, interpretata da Protagora come un complesso apparato educativo, che mira a garantire la conservazione della citta’ stessa immune da conflitti mediante la trasmissione dei valori che ne sono alla base, dunque individualismo e comunita’. Per questo la tecnica politica diventa prerogativa di tutti i membri di una comunita’, una tecnica politica che si manifesta nella giustizia e nel rispetto reciproco, che sono vincoli di solidarieta’ e di amicizia tra i membri della citta’. Questo si realizza tramite l’insegnamento dei principi e la realizzazione delle leggi.
Ecco che diventa estremamente importante l’azione educativa. La condivisione dei principi etici, e la liberta’ e’ uno di questi. Il relativismo di Protagora pur evidenziando le diverse esperienze personali degli individui, riconosce tuttavia l’esistenza (ed esigenza) di spazi di accordo tra gli individui, accordi che si creano quando riguardano cio’ che e’ utile e cio’ che e’ dannoso. Da cui l’utilitarismo. Per Protagora “la verita’ etica che guida le scelte non e’ un valore assoluto ed oggettivo, poiche’ e’ impossibile da individuare, ma e’ il risultato di una lunga esperienza, che dimostra l’utilita’ di un dato comportamento“. Eppure Protagora da’ grande importanza ai vincoli di solidarieta’ e di amicizia, cosa che sembra in contraddizione con l’assenza di una verita’ etica (o con l’impossibilita’ di una sua definizione). L’equivoco viene risolto in due modi, primo, i comportamenti solidali e di amicizia (cosi’ come altri valori etici) sono utili e dunque l’esperienza ha insegnato che sono verita’ etica, secondo, l’educazione serve per formare l’esperienza, dunque la verita’ etica puo’ essere insegnata (per favorire il “bene comune“).
Se non c’e’ l’io (l’individualita’) l’atto morale non c’e’. La morale che ognuno si forma con le proprie esperienze, e’ un atto del tutto individuale, eppure crea la comunita’. La societa’ nasce dunque da una scelta etica individuale, che viene fatta dal singolo individuo. Eppure crea un vincolo, perche’ viviamo in societa’ e siamo in societa’ solo in virtu’ del nostro essere morali. Ma “l’utile, che e’ razionale,” – come scriveva Benedetto Croce – “non sempre e’ identico a quello degli altri, per cui nascono degli utili sociali che organizzano la vita degli individui“. Scrive Zygmunt Bauman nel suo libro “Le sfide dell’etica“:
“L’estensione della responsabilita’ di cui «La societa’ del rischio» ha bisogno e di cui non puo’ fare a meno se non al costo di esiti catastrofici non puo’ essere argomentata o favorita nei termini che sono piu’ comuni e approvati nel nostro tipo di societa’: quelli dello scambio equo e della reciprocita’ dei benefici. Qualunque altra cosa si vuole che sia la morale cercata, dev’essere prima di tutto un’etica dell’autolimitazione.”
Secondo Bauman, nella modernita’ la morale e’ la regolazione coercitiva dell’agire sociale attraverso la proposta di valori o leggi universali a cui nessun uomo ragionevole (razionale) puo’ sottrarsi.
La societa’ “democratica” non sopravvive con cittadini passivi per ignoranza ed indifferenza politica. La liberta’ non e’ una proprieta’ acquisita una volta per tutte, e non e’ un regalo, ha bisogno di impegno per essere conquistata e per essere mantenuta.
Oggi invece il relativismo (e il pragmatismo) viene inteso come l’assenza di verita’ etica che diventa assenza di etica. E questa assenza non viene colmata ne’ dalla sua continua ricerca, ne’ dall’insegnamento dell’etica, ma da “valori” quali il profitto (e altro) come fine. Mentre l’utilitarismo non e’ piu’ la ricerca di cio’ che e’ utile per se’ e (per mezzo dei valori e in quanto individui parte di una comunita’ e di un’umanita’) cio’ che e’ utile per la collettivita’, ma esclusivamente cio’ che e’ utile per se stessi (totalmente slegati dalla comunita’ e dal resto dell’umanita’).
L’utilitarismo come il relativismo si sono evoluti distorcendosi e andando a giustificare l’abbandono della morale e l’elevazione del profitto (o altro) come obiettivo ultimo. Per questo oggi i vincoli di solidarieta’ e di amicizia e il “bene comune” di cui parlava Protagora ci sembrano in conflitto con l’utilitarismo e il relativismo. Il fatto e’ che diamo grande (troppa) importanza ad alcuni aspetti (esaltandoli o amplificandone ed estendendone il significato), trascurandone o dimenticandone (o meglio cancellandone) altri.
SENZA ETICA E SENZA LIBERTA’ – Nella teoria economica e’ avvenuta la medesima cosa, molti conoscono la famosa frase contenuta nell’opera di Adam Smith “La ricchezza delle nazioni” pubblicata nel 1776:
“Non e’ dalla generosita’ del macellaio, del birraio o del fornaio che noi possiamo sperare di ottenere il nostro pranzo, ma dalla valutazione che essi fanno dei propri interessi”
vedendoci in questo il fondamento del comportamento egoistico e privo di morale (mentre in realta’ valori morali quali altruismo, rispetto e altri valori sociali sono o dovrebbero essere nel loro interesse), ma in pochi conoscono o ricordano l’altra (e a mio avviso ben piu’ interessante) opera di Adam Smith, pubblicata nel 1759 “Teoria dei sentimenti morali” che comincia cosi’:
“Per quanto egoista si possa ritenere l’uomo, sono chiaramente presenti nella sua natura alcuni principi che lo rendono partecipe delle fortune altrui, e che rendono per lui necessaria l’altrui felicita’, nonostante da essa egli non ottenga altro che il piacere di contemplarla. Di questo genere e’ la pieta’ o compassione, l’emozione che proviamo per la miseria altrui, quando la vediamo, oppure siamo portati a immaginarla in maniera molto vivace.”
Questa e’ la “simpatia“, ovvero la capacita’ di immedesimarsi negli altri per dar loro e ottenerne soddisfazione e stima. Pensiero che Adam Smith apprende dagli insegnamenti di Francis Hutcheson e da David Hume. Hume in particolare diceva che la morale non rientra nel campo di giudizio della regione, e’ una “questione di fatto, non di scienza astratta“, e’ inconoscibile nella sua essenza dalla ragione e segue percorsi autonomi dalla ragione. Hume dunque distingue il concetto di vero/falso (la cui opposizione e’ una questione di conoscenza e ha a che fare con la sfera dell’essere) da quello di buono/cattivo (la cui opposizione riguarda il dover essere e dipende dal senso morale). Se dunque la morale non dipende dall’intelletto, la bonta’ di un’azione e’ (e deve essere) del tutto indipendente dalla promessa di un premio e dal timore di una pena. La morale si sviluppa grazie ad un altro sentimento, quello della “simpatia” (di cui scrive Adam Smith), grazie al quale ci sentiamo vicini ai nostri simili e ne condividiamo felicita’ e infelicita’. Dunque una migliore conoscenza delle motivazioni non porta a comportamenti piu’ collaborativi o solidali, a meno che non vi sia l’attesa di una maggiore utilita’. E comunque questa maggiore utilita’ attesa deve passare attraverso il senso morale, in altri termini, deve diventare convenzione sperimentata come utile e per questo percepita come dovere dalla comunita’.
Concetti che in parte ritroviamo anche in John Stuart Mill (vedi On Liberty) e nel liberalismo britannico dell’ottocento, per il quale “un individuo e’ libero di raggiungere la propria felicita’ come meglio crede e nessuno puo’ costringerlo a fare qualcosa con la motivazione che e’ meglio per lui, ma potra’ al massimo consigliarlo; l’unico caso in cui si puo’ interferire sulla liberta’ d’azione e’ quando la liberta’ di uno provochi danno a qualcun altro, solo ed unicamente in questo caso l’umanita’ e’ giustificata ad agire allo scopo di proteggersi. In tal senso lo Stato e’ giustificato ad indirizzare la vita degli individui solo quando il comportamento di uno di essi danneggia gli altri“. Anche in questo caso l’etica viene mantenuta centrale cosi’ come la liberta’.
Il pensiero di Adam Smith prima e quello di David Ricardo poi viene distorto da utilitaristi quali Jeremy Bentham, che elabora una terribile algebra morale, portando l’utilitarismo all’estremo, rendendolo quantificabile. Dunque l’utilita’ diventa felicita’, la felicita’ piacere e il piacere assieme al dolore sono per Bentham una grandezza oggettiva e misurabile e possono dunque essere quantificati per poter essere assunti come criterio dell’agire, per ottenere un calcolo quantitativo che ci permetta di conoscere le conseguenze dell’agire quantificando la felicita’ prodotta indirizzandoci verso azioni che massimizzino il piacere e minimizzino il dolore (frase troppo contorta).
Molti criticarono (e criticano) pero’ questo “utilitarismo“. Francis Ysidro Edgeworth e Vilfredo Pareto criticano l’”utilita’ cardinale” perche’ l’utilita’ e’ una grandezza soggettiva e psicologica e dunque non misurabile, proponendo invece una classificazione ordinale. Cosa che porta semplicemente alla ridefinizione dell’utilitarismo, che restava. Sara’ poi con Murray Rothbard (che scrive “Jeremy Bentham: The Utilitarian as Big Brother”) e con Bernard Williams e Amartya Sen che verra’ riportata l’attenzione sull’individuo, le sue esigenze, la sue integrita’ e i suoi valori etici. E soprattutto riportarono l’attenzione sull’esigenza della liberta’. Come scriveva Friedrich August von Hayek, “la liberta’ senza principi morali non ha mai funzionato“. Le civilta’ riconoscono i principi morali la cui esperienza mostra di guidarle verso una societa’ sana in quanto a prosperita’ e liberta’. In questo Hayek e’ stato ispirato dal pensiero di Lord Acton per il quale la difesa della liberta’ e’ un imperativo morale:
“La liberta’ non e’ un mezzo per un fine politico piu’ alto, essa e’ il fine politico piu’ alto. Non e’ per la realizzazione di una buona amministrazione pubblica che la liberta’ e’ necessaria, ma per garantire il perseguimento degli scopi piu’ elevati della societa’ civile e della vita privata”.
Il relativismo, l’utilitarismo e perfino le teorie economiche, sono state deformate e mistificate per giustificare un certo modo di agire e di pensare. Il relativismo (e successivamente il pragmatismo) non e’ piu’ un mezzo guidato dal rispetto dei principi etici, e con una verita’ come fine/faro (la sua ricerca o il suo raggiungimenti) ma il pragmatismo e’ diventato esso stesso il fine, l’obiettivo pragmatico, per raggiungere il quale tutto e’ permesso, anche rinunciare ai principi etici o l’uso distorto della verita’ trasformata da fine/faro a mezzo. In questo modo ad esempio si e’ arrivati a considerare, osservare e studiare l’individuo per le decisioni che prende, decisioni finalizzate alla massimizzazione (utilita’), e non invece per le azioni che compie in un processo dinamico (prasseologia). La conoscenza (informazione, esperienza) dei singoli individui non e’ piu’ soggettiva ed in continua evoluzione, ma obiettiva e costante.
E’ importante ridare centralita’ all’etica e all’individuo, assumersi la responsabilita’ delle proprie azioni e attraverso di esse cercare di non perdere di vista i propri valori etici (e la liberta’ e’ un valore etico), non rinunciare ai propri principi, riuscendo anche a considerarli come intransigibili.
[^] torna su | post<li> | |