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Rem tene, verba sequentur

Da Marcofre

Non c’è niente da fare: il latino ha un suo fascino. Dovrebbe significare: “Se possiedi la cosa, le parole seguiranno”. Però siccome avevo dei votacci in questa lingua morta, non garantisco nulla. Ma immagino che il senso sia proprio quello.
Bello il verbo “possiedi”. Indica che sono necessari muscoli, e la determinazione per tenere, possedere appunto la cosa. Non è un lavoretto semplice.

Nella scrittura ci sono due elementi che è necessario possedere.
Il primo è la lingua, intesa come grammatica, sintassi e via discorrendo. Nessuno ha voglia di perdere tempo o soldi in una narrazione zeppa di errori o che mostra una lingua povera, zeppa di sciocche immagini retoriche.

Il secondo… è più complicato. Diciamo, ma solo per capirci al volo, che è necessario affrontare la pagina bianca come se fosse una cosa dannatamente seria. Perché è dannatamente seria. Prima che la storia prenda avvio, che i personaggi appaiano come un lampo, e si incominci a seguirli, bisogna possedere quella pagina. Ma se è bianca? Solo in apparenza.

Molte persone chiedono e si chiedono cosa fare per pubblicare. Domanda sbagliata.
Quella giusta dovrebbe essere: cosa voglio ottenere?
A questo punto ci troveremo a un bivio.

Da una parte, la via al successo. Per percorrerla però consiglio di seguire un corso di marketing, e curare un po’ la scrittura; ma nemmeno troppo. Se il corso di marketing è fatto bene, il prodotto che ne uscirà troverà qualche entusiasta di un ufficio marketing di una grande casa editrice che colmerà lacune e risolverà errori e refusi.

Dall’altra parte, c’è sì una via ma non è detto che conduca al successo, anzi. Non è che uno voglia l’insuccesso, però costui o costei sa che il libro è un bene. Desidera raccontare e svelare il mistero che c’è nell’essere umano. Celebrare le erbacce, vale a dire quelle persone di cui ci si occupa un poco se ci sono le elezioni. A nessuno in realtà frega niente delle erbacce, dei poveracci, o di quelli che non hanno un posto in prima fila.

A volte la narrativa, quella migliore, si diverte a rovesciare le regole del gioco. Mentre si celebra la forza dell’economia, parla di balordi che sterminano una famiglia diretta in Florida. Naturalmente i benpensanti si indignano, con molta civiltà. Fanno presente che comunque i progressi ci sono stati. Che se ci fossero stati gli altri, le cose sarebbero ben peggiori. E che almeno un ringraziamento se lo meriterebbero e che insomma, sarebbe carino se ci fosse un riconoscimento dell’impegno profuso.

Al diavolo.

Sembra che mi sia troppo allontanato dal titolo del post, vero? Non è esatto.
Possedere la cosa vuol dire innanzitutto accettare che la scrittura per restare, per piacere almeno un poco, deve essere profonda. Non fate quella faccia per favore: non ho scritto “pesante”. Profonda, cioè semplice.

Cosa c’è di più semplice di un’immagine? Non si dice forse che un’immagine vale più di mille parole? La Cappella Sistina è un insieme di immagini (lo so, scritta così pare un’eresia), eppure esse trascinano lo spettatore distante. Lontano.
Come diavolo è riuscito Michelangelo a ottenere tanto?

Talento smisurato; tecnica (appresa a bottega). Ma non può essere sufficiente se non c’è anche il possesso pieno, la conoscenza di quello che si vuole conseguire. È un esempio che può essere trasferito anche nella scrittura?
A mio parere, sì.

Dall’idea per una storia che scaturisce da un’immagine, è indispensabile tirare il fiato (e il freno) e fermarsi a studiare il personaggio. Sarà spesso una conoscenza che riserverà sorprese, ma è necessaria per riuscire a scrivere qualcosa di interessante. La “sorpresa” di cui parlo è lo stupore perché d’un tratto, c’è un finale che non si poteva prevedere (e che si scopre mentre si scrive). Solo così probabilmente si riuscirà a andare oltre l’ovvio, quelle apparenze e forme che ci impediscono di apprezzare le erbacce.

Non credo affatto che sorpresa e conoscenza siano in contraddizione; anzi. La seconda aiuta a cogliere i dettagli del personaggio, le sue sfumature. Egli non è “tutto d’un pezzo”, ma complesso e contraddittorio. Dopo questa fase, le parole cominciano a scivolare fuori, con apparente semplicità.

La sorpresa è più bella e gustosa proprio perché arriva da qualcosa che conosciamo. Non parlo di rimpinzare le storie di artifici per tenere alta l’attenzione del lettore, o per preannunciargli che ne vedrà della belle tra qualche pagina.
Accade. Come un fulmine a ciel sereno. Conosciamo molto bene i fulmini, come si producono. Così come abbiamo una conoscenza piuttosto estesa dell’atmosfera: ma quando se ne verifica uno, forse non sobbalziamo?


Filed under: buona scrittura, cassetta degli attrezzi Tagged: scrivere bene

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