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Renato ed Andrea Morelli. I due fratelli spina dorsale dei Giaguari Torino

Creato il 31 maggio 2012 da Sportduepuntozero
Giaguari Torino - Foto Massimo Pinca

Giaguari Torino - Foto Massimo Pinca

Sono due fratelli ed insieme sono cresciuti diventando due colonne portanti dei Giaguari Torino. Renato ed Andrea Morelli, rispettivamente linebacker classe ’86 e quarterback classe ’88, di questo sport ne hanno fatto la loro vita. Fin dall’inizio si sono innamorati della palla ovale, dei lanci e dei placcaggi e non sono più riusciti a staccarsi. I risultati ottenuti fin dall’inizio sono stati positivi e l’ambiente che li ha accolti li ha coccolati trasformandosi in una vera famiglia.

Il football in Italia non è lo sport più praticato. Come vi siete avvicinati?

Renato: «Ho cominciato a 16 anni, quando ho smesso col basket. Conoscevo gente che giocava a football e allora ci ho provato. Ho sempre giocato con i Giaguari, tranne un anno, quando mi hanno chiamato da Milano. Purtroppo mi sono infortunato subito al ginocchio ed ho dovuto saltare quasi tutta la stagione».

Andrea: «Ho iniziato un anno dopo mio fratello. Fino a 15 anni giocavo a calcio ma ero 120 kg. Giocavo gli ultimi minuti ed in allenamento ero sempre in fondo al gruppo. Qui ai Giaguari mi hanno messo subito un casco ed un paraspalle e mi hanno buttato in campo. Ho subito trovato una famiglia che mi ha accolto benissimo e ora sono nove anni che sono qui».

Quanti ruoli avete cambiato prima di trovare quello definitivo?

R: «Ho sempre giocato in difesa. Pesavo 105-110 kg ed inizialmente ero lineman. Con gli anni ho cambiato leggermente la mia conformazione fisica ed è aumentata la velocità. Hanno deciso di spostarmi linebacker ed è lì che gioco tuttora».

A: «Anche io ho iniziato lineman. Poi, piano piano che il mio peso scendeva, mi hanno spostato verso ruoli sempre più veloci. L’anno scorso ero tight end ed il sostituto del quarterback titolare, mentre in questa stagione la società ha deciso di puntare su di me come regista offensivo».

Quando avete capito di poter arrivare a giocare a questi livelli?

R: «La convocazione in nazionale mi ha fatto capire che ero tra i più quotati in Italia. Però credo che la cosa più importante di tutti sia la dedizione all’allenamento. Per arrivare a questo punto bisogna volerci arrivare. Ogni anno ci sono sempre raduni con altri giocatori, ma fino a quando non ti chiamano non ne hai la certezza».

A: «Già quando pesavo tanto lanciavo bene, ma con quel fisico non potevo fare il QB. Poi, di colpo ho perso 40kg e quando ho riacquistato la muscolatura adatta e la velocità necessaria mi hanno detto: “ora sei pronto”. Piano piano ho fatto pratica ed ora sono titolare. Insieme alla squadra sto disputando un’ottima stagione. A quando la convocazione in nazionale? Sto facendo bene, ma ci sono bravi QB che giocano in A1 e che sono più abituati a certe partite, anche se la il divario tecnico non è così elevato… I QB a cui mi ispiro dell’NFL?  Ce ne sono tanti. Mi piace Drew Breese, Tom Brady, Aaron Rodgers…»

Con i Giaguari quest’anno avete ottenuto uno splendido record di 6-0. Vedendo i risultati siete voi la squadra da battere.

R: «No, non siamo noi la squadra da battere. Sono i Titans Romagna che sono arrivati in finale la scorsa stagione. Ci sentiamo una squadra ben allenata e credo che neppure noi sappiamo veramente fin dove possiamo arrivare. Andiamo agli scontri con squadre forti e poi i risultati ci stanno dando ragione. Mi viene in mente l’ultima gara contro i Red Jackets Lunigiana: a metà tempo c’era un divario di 40 punti. Guardavo il tabellone e non capivo… C’è la convinzione di poter fare bene, ma c’è anche una piccola dose di paura. La prossima gara è contro Rivoli. Ne parliamo da un po’ nello spogliatoio: per qualcuno è un derby per altri una gara come un’altra. Io credo che sia un gara come le altre nel senso che tutte per noi sono derby».

A: «Credo anche io che i Titans siano quelli da battere. Sono stati penalizzati da un girone molto difficile. Noi quest’anno riusciamo a vincere le partite abbastanza facilmente anche se ho paura a dirlo. C’è il rischio di arrivare troppo sorridenti agli appuntamenti e poi perderli per troppa poca concentrazione. Nel football basta poco per perdere. Nelle ultime partite, però, siamo entrati subito decisi e con voglia di vincere. Speriamo continui così».

Quanto vi ha aiutato coach Ankey in questa maturazione?

R: «Con il suo arrivo è cambiato tutto. Sono cambiati gli schemi offensivi e difensivi. Anche gli allenamenti sono diversi, ma credo che molto dipenda dagli schermi di gioco che abbiamo imparato. È importante un allenatore americano perché sa come spiegarti le cose. In tre o quattro parole riesce a dirti tutto quello che ti serve. Credo comunque che dipenda da noi: siamo giovani e siamo cresciuti molto in questi anni come giocatori».

A: «In poche parole riesce a farti capire tutto ciò che serve. Io non parlo bene inglese, eppure non ho problemi a capirlo. Poi sono cambiate tante cose a partire dagli schemi di gioco. Adesso giochiamo con quattro ricevitori, mentre lo scorso anno con due. Per me è meglio: so sempre su chi lanciare. Ho quattro ricevitori bravissimi: Iuliano, Mella, Torrente e Socci. Quando magari uno viene marcato più stretto ne ho sempre altri tre affidabili a cui passare la palla».

Quanto è ampio il gap tecnico tra l’Italia e gli altri campionati europei e mondiali?

R: «Il nostro livello è basso. Il motivo è che non abbiamo i mezzi economici per prendere cinque allenatori americani. Vi faccio un esempio: prima di farmi male avrei dovuto andare a giocare in un college canadese. Lì si allenano cinque volte a settimana, così come si allenano cinque volte a settimana nella High School e fin da piccoli crescono con i ritmi dei professionisti. Una squadra europea non ha mai vinto un match contro una squadra con un sistema scolastico come quello americano dove fin dall’infanzia sia allenano tantissimo. Nessuna squadra europea ha mai vinto contro USA, Giappone, Canada e Messico. È l’allenamento che fa la differenza».

A: «All’estero hanno i mezzi per potersi allenare in un certo modo. Al football viene data tanta visibilità, mentre in Italia la si dà al calcio. Gli sport minori non hanno sponsor e se non vai in giro a cercarli, oppure non trovi un Presidente disposto a finanziare la squadra diventa tutto più difficile. Per noi è stato un problema anche solo trovare un campo che non fosse occupato dal calcio. In questi ultimi anni qualcosa sta cambiando, ma non credo arriveremo mai a trovare gente che ti segue dalla mattina alla sera come negli USA».

Ultima curiosità. Ci vorrà ancora molto tempo, ma vi siete mai chiesti cosa farete una volta finito di giocare?

R: «Ovviamente rimanere in questo ambito sarebbe il sogno di tutti. Mi piacerebbe allenare o perlomeno fare il preparatore. Adesso lavoro in palestra e seguo la preparazione per diversi sport lì, però sarebbe bello farlo professionalmente nel football. Magari il football si evolverà e tra qualche anno gli allenatori italiani saranno più pagati. Adesso, però, non penso ancora di farlo: manca ancora un bel po’ di tempo».

A: «Sinceramente non lo so. Sia io che mio fratello siamo provando ad andare avanti nel football. Non sappiamo ancora dove potremo arrivare. Di sicuro per adesso non ci possiamo ancora vivere, quindi dobbiamo continuare nel nostro lavoro: lui in palestra, io nella piscina accanto. In futuro chissà cosa può accadere. Di sicuro, ci fosse la possibilità di rimanere in questo campo lo farei senza neppure pensarci su. Sarebbe il massimo lavorare facendo ciò che ti piace».

di Edoardo Blandino


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