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Renato Fucini, A Pisa “Il capopopolo”

Da Paolorossi
Pisa - Lungarno

Pisa – Lungarno

[…] Rimasto solo a Pisa, mi ricordai che mio padre mi aveva dato una lettera di presentazione per Beppe Dell’Omodarme, il capopopolo di Pisa. I due giovani cospiratori s’erano incontrati e s’erano intesi a Campiglia Marittima dove mio padre risiedeva come medico della Commissione sanitaria, e dove Beppe capitava di quando in quando per sorvegliare una sua officina di carradore. Recatomi al Portone dove Beppe abitava, e non sapendo la sua casa, bastò che io rammentassi il suo nome perchè alcuni popolani, guardandomi con simpatia, me la additassero e premurosi mi vi accompagnassero.

Beppe, come ebbi poi ad accorgermi, era il loro re, il loro imperatore, il loro Dio. Egli era un bell’uomo per l’alta e robusta persona, ma non bello di viso per causa del naso rincagnato come quello di Michelangiolo. Ma il lampeggiare dei suoi occhi e il vigore e la bontà dell’animo che scaturivano da quei lampi, lo facevano a prima vista simpatico e quasi bello. Parlava rozzo e a sbalzi, intercalando circa dieci bestemmie fra mezzo a cinque parole; e, parlando, lavorava di bracci e di mani con tanta energia che ne seppe qualche cosa il mio esile corpicciuolo quando fu investito dalle sue carezze.

— Pezzo di sbarazzino! Dio…! O che sei ‘l figliolo der mi’ Davide?! O quant’anni hai? Qua, Dio…, dammi un bel bacione collo schiocco e io te ne dò due: uno per te e uno per el tu’ babbo. Che sei venuto qui a studiare? O quando sei arrivato?… Hai bisogno di nulla? Voi mangiare? Voi bere? Giù, mettiti a sedere e ricordati. Madonna…, che qui sei come in casa tua!… — E mi strizzava e mi sballottava amorosamente con quelle sue mani pelose che erano grosse e calde come il suo cuore. Ho detto che egli era il re, l’imperatore, il Dio dei popolani di Pisa. Era vero. Cedendo al fascino di quell’anima onesta e generosa se lo erano eletto spontaneamente per loro capo, e dipendevano così fiduciosamente da lui che una sua parola, un suo cenno, una sua bestemmia erano capaci di ridurli all’istante da tigri in conigli e viceversa. Ed ebbi occasione di vederlo più volte alla prova.

Pisa - Ponte della Fortezza

Pisa – Ponte della Fortezza

Una sera di carnevale, pochi giorni dopo la morte di Cavour, si sparse per Pisa la voce che nel palazzo Scotto, sui Lungarni presso il ponte della Fortezza, l’aristocrazia nera della città doveva riunirsi per festeggiare con un ricevimento e con un ballo il triste avvenimento che aveva messo nel lutto tutta l’Italia. Non so se lo scopo della festa fosse veramente quello attribuitole; ma tutti prestarono fede a quella voce. La popolazione era in fermento; gli scolari non stavano alle mosse per mostrare il loro sdegno e per impedire agli sciagurati austriacanti la vergognosa e imprudente dimostrazione. Verso l’imbrunire incominciarono a formarsi dei capannelli dinanzi al caffè dell’Ussero, e in poco tempo tutta la scolaresca, meno gli ammalati, credo io, era lì radunata, con le mani sui bastoni e con gli occhi al triste covo reazionario. Fra le nove e le dieci incominciò il via vai delle carrozze sulla piazzetta che si slarga dinanzi a quel palazzo, e da molte delle sue finestre principiò a farsi viva la sfarzosa illuminazione dell’interno. Passarono alcuni quarti d’ora che alla impazienza di tanti giovani parvero secoli, e finalmente, avuto avviso da alcuno delle nostre scolte che il ballo era incominciato, tutti, in un folto gruppo, seguiti da un nuvolo di popolani, ci muovemmo a passo di carica per entrare in ballo anche noi. Da prima urli, fischi e imprecazioni, poi sassate ai vetri alti e bastonate a quelli del piano terreno; e, da ultimo, con un crescendo infernale, tonfi al portone e botte di bastoni, di mazze ferrate e di pali, fatti capitare nelle nostre mani non si sa da qual parte nè da chi.

Pisa - Giardino Scotto

Pisa – Giardino Scotto

Il contagio della furia si allargava pericolosamente, i più tranquilli erano diventati i più furibondi, e l’affare minacciava di farsi molto grave. Nel palazzo doveva esservi lo spavento. L’illuminazione si spense a un tratto e si udirono grida e si videro ombre di persone fuggenti le quali, come fu risaputo dopo, scappavano terrorizzate attraverso ai giardini e si disperdevano per una porticina segreta in fondo al recinto. Intanto i colpi nel portone raddoppiavano nonostante che un delegato urlasse e si sbracciasse dall’alto d’una carrozza. Vennero guardie, vennero carabinieri e venne anche il Prefetto in persona; ma le minacce di quelli e gli argomenti di questo non valsero a nulla: il clamore e i tonfi intorno a quel povero portone crescevano col crescere della sua resistenza. Non so a chi venisse la buona ispirazione d’avvisare Beppe Dell’Omodarme, il quale, nel momento proprio urgente comparve, e lavorando di braccia come se nuotasse di spasseggio sulle nostre teste, venne a mettersi in mezzo al tumulto gridando:

— Ragazzi, Dio….! o che stasera avete perso il giudizio peggio di quelli lassù che ballano?! Che noia vi danno? O che forse, Dio…, o che forse son venuti a ballare in casa vostra? Lasciateli sfogare la bile che hanno ne’ buzzacci verdi e finiamola! Finiamo le ragazzate; e voi, se volete bene al vostro Beppe, Dio…! tutti a casa, tutti a casa, Madonna…., e subito! Se no, sculaccioni a iosa e a letto senza cena! — Una formidabile risata accolse la ciceroniana allocuzione di Beppe, un lungo applauso soffocò la sua voce, e fu intorno a lui una ressa dei più vicini, che gli s’avventavano addosso per abbracciarlo. Una mezz’ora dopo la piazzetta era tornata deserta e tutto il rumore dell’avvenimento s’era allontanato silenziosamente verso le desolate regioni dell’oblio.

Pisa - Ponte della Fortezza

Pisa – Ponte della Fortezza

Giacchè mi è capitato di parlare di questa bella e generosa figura di popolano, non voglio lasciarla senza prima raccontare un altro fattarello che serve a illuminarne l’originalità.

Beppe Dell’Omodarme, trovandosi in ristrettezze economiche dopo aver dato quasi tutto il suo alla causa dell’indipendenza italiana, fu chiamato, per suggerimento di molti patriotti, da Vittorio Emanuele II a coprire un impiego sufficientemente lucroso nell’amministrazione delle caccie reali di San Rossore. Per quello che ne aveva sentito dire e piacendogli a prima vista la maschia figura di Beppe, il Re volle averlo spesso accanto, nelle cacciate. Ma, conversando poi coi suoi intimi, si mostrò un po’ deluso, dopo quello che dal fiero popolano si aspettava, perchè lo aveva trovato troppo taciturno. Ed era vero. Non essendo libero di bestemmiare a suo piacere, Beppe non sapeva aprir bocca dinanzi al Re, o, se l’apriva, non erano che poche parole e molte reticenze accompagnate da forti stringimenti di pugni e stralunamenti d’occhi e rabbiose grattature di capo.

Vittorio Emanuele che nel suo animo di soldato e di cacciatore aveva un largo fondo di buontempone, fece sapere a Beppe che anche dinanzi a lui avrebbe potuto parlare liberamente, secondo la sua usanza. Beppe non se lo fece dire due volte. Qualche sacrifizio e qualche soppressione avrà dovuto imporre al suo linguaggio abituale; ma diventò immediatamente il Beppe di prima anche dinanzi al Re che spesso si compiaceva di stuzzicare la sua facondia, invitandolo a parlare di politica e di caccia. Questo io seppi da una persona del seguito reale con la quale ebbi intimità molti anni dopo.

Pare che a quei tempi il nome di Giuseppe fosse apportatore di buone promesse e di buona fortuna: Beppe Mazzini, Beppe Garibaldi, Beppe Giusti, Beppe Dolfi capopopolo adorato dei fiorentini, Beppe Dell’Omodarme e chi sa quanti altri Beppi celebrati dalle popolazioni e non conosciuti dalla storia, nelle piccole città, dai larici di Susa ai fichi d’India di Trapani. Ora i capipopolo non usano più. Con una spudorata finzione d’altruismo, oggi, ogni ventre pensa per sè, e, abolito Cristo, altro non adora che l’osteria per fabbricare dello sterco evoluto e cosciente.

(Renato Fucini, A Pisa (dal 1859 al 1863) – Foglie al vento)


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