Questo dovrebbe essere lo scopo di chi scrive. Anche su un blog, o su un quotidiano.
Il termine «tangibile» riguarda tutto ciò che possiamo toccare, però sappiamo che i sensi non sono solo nel tatto. Per questo motivo è meglio aggiungere al termine tangibile anche: “specifico”. La difficoltà sta appunto nel prendere qualcosa che colpisce tutti i sensi, e renderla in maniera efficace, in modo che il lettore capisca che cosa intende. Sembra facile vero?
Stavolta però non mi riferisco soltanto al duro lavoro che chi scrive deve prendere su di sé. Di questo mi pare di scrivere persino troppo.
Preferisco spostare l’attenzione su un aspetto particolare: spesso si pensa che l’efficacia debba essere neutrale. In fondo, si dice, la scrittura (adesso però parlo di narrativa), parla della vita, e questa è quello che è. Non è affatto possibile andare oltre il semplice mostrare e descrivere, perché sarebbe ininfluente. O, peggio ancora: troppo di parte.
Sarebbe come affermare che il luogo dove siamo nati, la cultura ricevuta, le amicizie e le esperienze, siano in fondo poco importanti, soprattutto quando si decide di scribacchiare.
A me pare che un simile modo di concepire la narrativa sia pericoloso. Siamo all’interno di una società mercantile, che vive di omologazione ed etichette. Però secondo alcuni, chi scrive deve evitare con cura di ricordare a sé stesso e a chi legge, chi è e da dove viene.
No, questo post non intende rispolverare il valore dell’autobiografismo. Parlo di un’altra cosa, mi pare.
Cioè del tentativo di disinnescare l’energia della parola. Siccome il suo potenziale può danneggiare la società mercantile nella quale viviamo, si cerca di costruire un panorama letterario corretto, “sano”, e scevro dalle etichette che possono indurre il lettore a pensare.
Se costui infatti scopre per esempio che una storia non è solo un semplice resoconto di fatti ed eventi, ma fatti ed eventi con un senso, e un mistero, è spinto a guardare a sé in maniera differente. Magari anche a scoprire che è considerato un prodotto, non perché lo sia, ma perché conviene al sistema nel quale è immerso.
Eppure la letteratura ha un futuro solo quando ha il coraggio di cercare di riconoscere almeno che il mistero qui e ora c’è eccome, e gode di ottima salute.
Se leggiamo “Moby Dick”, al di là della pesantezza di certe parti, che cosa abbiamo? Delle risposte? Una soluzione? Un finale “convincente”? No, è un finale e basta, perché a un certo punto la storia deve approdare da qualche parte. Ma non esistono questioni risolte in quella storia. Che cos’è quella balena bianca? Cosa nasconde? È solo una bestia, e basta? Oppure…
Probabilmente a Melville questo non interessava più di tanto. Ha avuto il coraggio di allontanarsi dal mondo chiuso e formalista dove viveva, sino al limite estremo, per poi guardare giù. Nel mistero. Non ha fatto altro che quello, eppure è già tanto, anzi: è il solo fine al quale deve puntare un autore con un poco di talento.