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Rendere visibile “L’invisibile”: il “Denaro” di G. Di Girolamo

Da Fabry2010

Rendere visibile “L’invisibile”: il “Denaro” di G. Di GirolamoGiacomo Di Girolamo, L’invisibile, Roma, Editori Riuniti 2010, pp. 555, € 15,00.
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di Antonino Contiliano

Grande è il disordine sotto il cielo,
ma la situazione è ottima?
Mao 

Preferiresti che Cesare fosse vivo, e morire tutti da schiavi,
o che Cesare sia morto per vivere tutti da uomini liberi?
Shakespeare

Il titolo di questo nuovo libro di Di Girolamo, centrato sulla tema della mafia siciliana e dei suoi estesi legami nazionali, e in particolare sulla figura del latitante eccellente – Matteo Messina Denaro –, fa scattare (almeno così è stato per chi scrive) un visibile rimando alla dichiarazione di poetica dell’arte moderna. Per l’arte moderna, sintetizzando, il dettato essenziale è che la pittura debba rendere visibile “l’invisibile”. La rappresentazione perde così la sua supremazia, e con essa il realismo della mimesi più o meno dichiarato. Come dire, forse, che ciò che appare, per essere afferrato, capito, goduto deve risalire a ciò che non si vede ma che determina quanto si affaccia e si concretizza nella storia individuale e collettiva di quel particolare contesto storico dove le soggettivazioni si producono come qualsiasi altra merce ideologica.

D’altronde l’autore di questo libro (cronistoricamente documentato, e non solo rigorosamente argomentato), sebbene contraddistinto dall’asciutta chiarezza dello stile, direi, cartesiano (come si conviene metodologicamente alla verifica dei fatti e dei conti che riguardano sia il modello mafia che i protagonisti del calibro di Matteo Messina Denaro… e confraternite), si presenta al lettore con palesi (e non ornamentali) inserti scritturali tipici dell’arte letteraria. Una per tutte, e solo per un acconto, ci riferiamo all’uso dell’iperbole e, secondo il gioco interpretativo, alla metonimia e/o alla sineddoche.

L’iperbole di Matteo Messina Denaro (che ne fa un basso personaggio rabelesiano, e con il quale l’autore del libro si gioca la partita tramite un “tu” dialogico diretto, e che urge per tutto il libro come un’anafora ossessiva di tagliente ironia) è: “Con le persone che ho ucciso potrei riempirci un cimitero” (p. 139).

Totò Riina, il regista per eccellenza (Matteo, il degno allievo) e il teorico della strategia stragista (quella spettacolare che ha colpito a morte i giudici Falcone e Borsellino, e lo stesso patrimonio artistico dei beni culturali del Paese (al Nord…!), invece è presentato con la chiave della metonimia/sineddoche: disposto a “giocarsi i denti”. Una posta molto elevata e una prova di forza di ineguale violenza profetica per terrorizzare l’opinione pubblica, e portare così la classe politica italiana (e la magistratura) ad abbassare i toni dello scontro con il potere mafioso. Totò Riina voleva abolire il “41 bis e la legge sui collaboratori di giustizia” (p. 188), i due provvedimenti che, in tempi di picciotti poco resistenti, mettevano in pericolo l’organizzazione, la “dignità e l’onore” dei boss e di tutta l’“onorata società”.

Iperbole e sineddoche/metonimia, nella scrittura de “L’invisibile” di Giacomo Di Girolamo, come le immagini e i colori nella pittura moderna, giocano così il loro ruolo di finestra con vista. L’iconizzazione (immagini), messa a punto con l’iperbole, come gli epiteti (“u siccu” et alia) le altre chiavi stilistiche del poiein scritturale dell’autore, utili a snidare l’eziologia mafiosa (comportamenti e modo di pensare), così permettono di vedere quale sia l’ideologia “spirituale” (invisibile di per sé) che sta dietro all’agire e ai comportamenti (visibili e udibili: intercettazioni e video messi in opera mediante le “cimici”) dei soggetti in questione. Ma ciò vale anche per le tante altre biografie delinquenzial-mafiose di tutti gli altri personaggi “tristi” e loschi che fanno la famiglia del bestiario mafioso o dell’“onorata società”. Un album di famiglia che tanto disdoro porta all’italico suolo già, ulteriormente, arricchito dalla distruzione della corrotta Itaglietta del regime berlusconiano e dalla sua politica ricamata con filiere di spots e pornoshow propiziatori.

L’opera di G. Di Girolamo, che intrattiene pure sugli amori e le galanterie o le amanti sia di M. M. Denaro (un avanguardista, in questo, rispetto al Presidente del Governo italiano in carica) che dei “soldati”, non per questo è però un lavoro da collocare nel “genere” narrazione del consumo postmoderno, finalizzato cioè al solletico di superficie ed emotivo deviante del basso impero mediatico.

Il tema e le connessioni economico-finanziarie e politiche ivi richiamate, il/i personaggio/i e i legami tessuti (con i “pizzini” e l’esercizio del killeraggio), a vario titolo e timbro, ivi temporalizzati e come riflessi nello specchio di Stendhal, impediscono una tale collocazione. Semmai, leggendo “L’invisibile” si potrebbe ricorre al rovescio (vomito) della “sindrome di Sthendal”.

Il/i personaggio/i (il Denaro e le sue maschere) che si pavoneggia/no tra amori, vacanze d’alto costo e moda d’alto grido, oltre ad essere lo spaccone delle iperboli (come quella del “cimitero” di p. 139, o di queste altre del suo superEgo che sfida – come si legge nella “lettera a Svetonio del 22 maggio 2005” (p. 221) – la morte a trovarlo pentito e addolorato; o che sfida (sempre) gli “integerrimi” e i “buoni” a provarsi e dimostrarsi capaci della sua cattura, che è e rimane un “assioma”. Il Denaro, come il denaro nel Faust di Goethe, si presenta e si rappresenta come una forza che può tutto e come il nuovo re Mida della morte. Un soggetto, suggerisce la lettura del nostro scrittore, da non sottovalutare; un soggetto predatore di lucida intelligenza e dotato di formidabile disprezzo, e cinico. Un “diabolik” la cui cattura, sembra dire Di Girolamo alle forze che si occupano del caso, prima che nelle azioni criminose di fatto compiute, bisogna andare a studiare e spiare nei movimenti di pensiero che modellano e poi portano deliberatamente a compimento quelle stesse azioni.

Matteo Messina Denaro è un predatore che, a scapito di ogni cosa e remora, è sì (nella dimensione della classe mafiosa) una forza economica, militare irregolare e una lobby (in grado di produrre sfruttamento, ricchezza e cieca subordinazione all’insegna di una male onorata “etica” della “famiglia”, dell’onestà, della fedeltà, della correttezza e della giustizia), ma prima di tutto un creativo ingegnere, e tale da ribaltare a sua difesa il senso di certe analisi teorico-storiche (di lotta di classe) negriane. Chiaro è anche però che la chiamata, del M. M. Denaro, in causa e a sua difesa, del pensiero di Negri – ben dedito, quest’ultimo, a tutt’altre riflessioni speculative di filosofia politica – è solo mistificatoria. Alla primula “u siccu” non cale un fico secco della lotta di classe e della trasformazione dei sistemi, se dedito, come emerge dal libro di Giacomo Di Girolamo, allo sfruttamento, alla soggezione e all’avvelenamento della sua stessa gente con il traffico (fra le altre delizie criminose) di stupefacenti, rifiuti tossici, radioattivi et alia. Tale è il personaggio che fa pure scuola, se nel suo attacco alla magistratura, trova alunni ed emuli quali i tanti S. Berlusconi sguinzagliati per il patrio suolo (!?).

Ma “u siccu”, tra il “Qoelet” (direttamente letto o attraverso lo spaginamento del romanzo “Q” di Luther Blisset, alias Wu Ming) e il “De Rerum Natura” di Lucrezio, conosce e cita i tempi del tempo, il tempo cioè che in quelle opere hanno tutt’altro ingegno che il suo (di Denaro) e direzione: “C’è un tempo per nascere e un tempo per morire, ma solo chi lo vuole davvero riesce a volare, e il tuo volo è stato il più sublime in eterno” (p. 45). È la citazione che al procuratore Antonino Ingroia ha fatto dire: sbaglia “chi pensa che i mafiosi siano pecorai che stanno rinchiusi in tuguri fra ricotta e cicoria” (p. 46)

“L’invisibile” del nostro – e questo riteniamo sia uno dei pregi della ricostruzione del mosaico, sebbene l’opera non può avere (per il taglio scelto) il timbro di una vera e propria opera storica (Giacomo è soprattutto un giornalista e un attento osservatore del fenomeno mafioso, e dei sui vari intrecci) –, infatti, così, non svende (come si è prodigata la stragrande maggioranza degli intellettuali embedded della “leggerezza” e dei politici dell’Azienda Italia) né la memoria, né la storia dell’Italia repubblicana al genere dei “VOLUTTUARI” (il porno, le barzellette o la biografia di tipo berlusconiano).

Quest’opera non svende la storia (la dominante biografica dei malavitosi non nasconde il quadro del tempo storico). Una mole inoppugnabile di dati, date, sentenze, ricuciture di eventi e colluse alleanze con personaggi dei servizi deviati, con “preti” (sine nomine) e politici corrotti, pronti a giocare il ruolo di sudditi devoti alla mafia, etc., lo vieta; semmai ne fa un’opera che il rivisto (1) quadrato semiotico di Greimas potrebbe, forse, collocare nel genere del “realismo” (“oggi rinverdito nei panni vivaci della DOCU-FICTION”). Il “genere” che si oppone ai “generi voluttuari” del porno o della chiacchiera spuria, barzellettante ed evanescente della bassa scrittura in circolazione, e che tuttavia fa mercato e opinione consolatoria, ammaestrante.

Che questa realtà storica sia presente e urlante lo si nota seguendo sia il cammino generale dello sviluppo mafioso, sia (in particolare) il piano delle guerre stragiste messo a punto dal “metonimico” Riina, il boss corleonese che poi Provenzano (altro boss di primo ordine, ma più prudente nelle mosse e nei suoi attacchi micidiali) ha consegnato definitivamente alla giustizia. In fondo, poi, tenendo presente l’arco dei rapporti di causalità e correlazioni piuttosto stretti che la metonimia (il “giocarsi i denti” di Riina) inquadra, il realismo documentato del libro del Di Girolamo salta fuori dal racconto diretto che l’esperto delle dissolvenze dei cadaveri a colpi di acido solforico, il Brusca (pentito e collaboratore di giustizia), fa del piano sequenziale della strategia stragista. La pianificazione cioè nata dalla mente di Totò Riina e messa in atto dalla squadra della morte capeggiata dal “nichilista” (come si dichiara in una confessione confidenziale a un prete di passaggio, e a Svetonio) “u siccu”.

Qualche stralcio del racconto del Brusca (“collaboratore di giustizia”):

«un attentato dinamitardo contro la Torre di Pisa per deturpare l’immagine della città; la disseminazione di siringhe infette sulle spiagge di Rimini, per mettere in ginoc­chio il turismo nell’area; il furto di qualche quadro presso un museo importante dell’area fiorentina; un attentato agli Uffizi, con liquido infiammabile o con una bomba; luccisione del magistrato Pietro Grasso e dell’ex giudice An­tonino Caponnetto. Tra le ipotesi c’è anche quella di colpire Antonio Di Pietro. Nulla di personale, ci mancherebbe.

La strategia stragista si è perfezionata in una serie di riunioni, cui hai partecipato anche tu, nell’aprile del 1993. Racconta sempre Brusca: «Io l’ho saputo da Matteo Messina Denaro che si era deciso per proseguire le stragi, ma al Nord».

Perché continuare a piazzare bombe: “Lo scopo delle stragi era sempre quello di cercare un contatto con qualche politico, con qualcuno delle istituzioni che poteva venirci a dire qualcosa tipo “perché non la smettete?”. In quel momento lo Stato ci stava letteralmente mas­sacrando. Tra la legge sui collaboratori, tra Pia­nosa, Asinara e 41 bis, cioè, eravamo proprio massacrati. Solo così potevamo cercare un contatto, per quello che mi è stato detto da Matteo: solo con le bombe nel patrimonio artistico po­tevamo cercare un contatto con qualche poli­tico, con qualcuno delle istituzioni”.

Come mai al Nord e non in Sicilia? «In Sicilia c’è Cosa nostra. Ciò significa che, per esempio, a Palermo, in ogni borgata c’è la famiglia ma­fiosa: se succede una strage, lì tutti danno la colpa ai componenti della famiglia, perché li co­noscono. Quindi siccome nessun rappresen­tante della famiglie voleva metterci la faccia, poteva succedere una guerra… ecco allora che si è deciso di andare al Nord, dove Cosa nostra non c’era e nessuno poteva lamentarsi e dirti: perché hai messo la bomba nel mio quartiere?» (p. 189).

Le righe, nel libro “L’invisibile”, però dicono anche delle lunghe, complesse e tortuose indagini (si scopre che l’ex Sindaco di Castelvetrano, Vaccarino/Svetonio, condannato per traffici illeciti, è stato poi una pedina nella mani dei servizi segreti per snidare M. M. Denaro) che hanno toccato le ventilate collusioni di Berlusconi e Dell’Utri (espressione delle nuove forze politiche emergenti e rampanti) con la mafia siciliana. Il riferimento è dato dal decreto con il quale il gip di Firenze (Giuseppe Soresina, 14 novembre 1998) e di Caltanissetta (Giovan Battista Tona, 3 maggio 2002) chiudevano il procedimento su Silvio Berlusconi e Marcello Dell’Utri come “mandanti occulti delle stragi del ’92 e del ’93” (p. 193).

Ma le affinità elettive di Berlusconi con M.M. Denaro e la mafia sono destinate a vivere. Non basta un’assoluzione formale per dire che un soggetto, specie se si guarda alla sua cronistoria successiva, è pulito, e all’altezza di dirigere un paese. Infatti, se Denaro sentenzia che “è la magistratura a sovvertire ogni ordine” (p. 122), Berlusconi, avatar a tutto tondo e maestro dell’ideologia della confusione e della spoliticizzazione di massa, dall’altra parte corrisponde sentenziando, ipocritamente e dittatorialmente, che le “toghe rosse” sovvertono l’ordine democratico della Repubblica italiana. Indagano cioè sulla sua vita di “cavaliere della libertà” o di intrallazzo e sollazzo… e questo lede il suo diritto/privilegio su tutti i/gli (p-)italiani ligi all’indecenza e ad ogni sbando della banda.

Che forza nei coglioni di questa maschera carnevalesca che media il fare con l’affare e l’arraffare! Che liberatore di schiavi: voleva cambiare la festa della “liberazione” della resistenza nazifascista e nominarla festa del popolo della “libertà” e salutarla, com’è suo costume, con la mascella e il saluto del fascista duce.

Neanche la favola del lupo e dell’agnello (colpevolizzato) sarebbe sufficiente a rendere tanta bassezza e ridicolo. Ma lasciamo stare e torniamo al nostro libro.

“L’invisibile”, il suo autore, per chi legge tra le righe, invita inoltre a riflettere sul fatto che la “mafia” (e altro, ad altre regioni e nazioni, sia il suo nome: “nomen numen”) è un potere parallelo che gestisce un’economia, una finanza, un esercito, una diplomazia… e con questi posti lavoro (centri commerciali, industrie, appalti, banche, etc.) e quindi voti (i pacchetti di voti che vengono poi convogliati sul candidato giusto!). Un apparato e uno stato nello stato, come quello della monarchia cattolica del Vaticano, che fa concorrenza a quello storico dell’età moderna anche nel monopolio ed esercizio della violenza e del terrore come potere di governo e controllo. Un partner che non ama essere messo da parte. Dopo tutto non pochi dei rappresentati del popolo italiano sono stati eletti con i voti della mafia siciliana, calabrese, napoletana…

D’obbligo però – scrive Di Girolamo – è trovarti o M. M. Denaro! Sarà e succederà. A questi verbi del futuro, insistentemente ripetuti tante volte (un’altra delle anafore, e martellante), il nostro autore affida una convinzione e una certezza. La certezza della cattura del Denaro. Perché “non ci saranno più parenti da delegare, amici a cui intestare beni, prestanome per i conti in banca. Non ci sarà nessuno a fare da tramite e la catena del comando sarà spezzata al primo anello. […] Perché succederà: rimarrai solo” (pp. 277-78).

Una chiusura del cerchio ancora all’insegna di un dire e comunicare che miscela come uno schema modulare lo stile dello scrittore e del giornalista. E perché ciò appaia, come nel caso di Giacomo Di Di Girolamo, nella giusta luce della proprietà, vogliamo ricordare quanto W. Benjamin disse e scrisse nel 1934 a Parigi nella conferenza sulla connotazione dell’autore come produttore (L’autore come produttore) e sulla tendenza della mescolanza dei generi.

Non è uno scandalo, diceva Benjamin, se oggi uno scrittore assomiglia a un giornalista o se il romanzo ha perso le sue connotazioni originarie (e sembra altro); perché è in corso “un processo di fusione e di rinnovamento delle forme letterarie”. Se poi, come scrisse B. Brecht, la realtà ha più forme di quante ne ha escogitato lo scrivere, che il nostro Di Girolamo ne faccia tesoro.

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NOTE

(1) Cfr. Francesco Muzzioli, Per una parodia rossa nell’epoca del ridicolo, in Qui si vede storia – di Nevio Gàmbula, Roma, Odradek 2010)

 



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