di Matteo Guillot
Nei giorni in cui la politica italiana ha spiazzato l’opinione pubblica internazionale ed indispettito quella nazionale, in un altro Paese la classe politica sembra comportarsi contro gli interessi dei suoi stessi cittadini. Allo scoccare della mezzanotte tra lunedì 30 settembre e martedì 1 ottobre, il governo federale americano ha cessato le sua attività. “Shutdown”, per dirla con il termine anglosassone. Ma se utilizzare una simile espressione può suonare normale parlando delle normali attività commerciali, riferirsi in questi termini alle funzioni del governo della prima potenza mondiale fa sorgere più di qualche punto interrogativo.
Primo tra tutti: cosa significa che il governo federale degli Stati Uniti ha “chiuso i battenti”? Quello che sta succedendo a Washington in queste ore è piuttosto inusuale per un (e)lettore europeo, e per spiegarlo è utile spostare brevemente l’attenzione dall’attualità a ciò che prevede l’ordinamento statunitense circa l’iter di approvazione del bilancio dello Stato.
Il processo che porta alla promulgazione del budget federale inizia con la definizione, da parte dell’amministrazione presidenziale, della politica economica relativa al successivo anno fiscale. Il documento specifica nel dettaglio:
1) quanto sia l’ammontare di spesa pubblica presunta e come questa sarebbe ripartita;
2) quanto sia il totale delle entrate derivanti da tasse ed introiti secondari;
3) quale sia il deficit o il surplus al termine dell’esercizio finanziario.
La previsione di bilancio così formulata viene inoltrata al Congresso, entro il primo lunedì di febbraio, ed intraprende un percorso solitamente tormentato. Per arrivare ad una legge pienamente esecutiva, infatti, lo stesso documento deve essere approvato sia dalla Camera dei Rappresentanti che dal Senato e, successivamente, sottoposto al Presidente per la firma con cui ne sancisce l’entrata in vigore. Qualora tuttavia il Congresso deliberasse una versione finale sostanzialmente diversa dalla proposta originale e non gradita, il Presidente ha piena facoltà di porre il suo veto rimandando il testo ai legislatori e aprendo così la strada a due possibili scenari. Nel primo, la legge viene ulteriormente discussa, modificata e presentata al Presidente fino a trovare un punto di incontro. Nel secondo, i membri del Congresso possono mettere nuovamente ai voti la proposta bocciata e, qualora questa ricevesse almeno i 2/3 dei voti di deputati e senatori, entra in vigore bypassando il veto della Casa Bianca.
L’anno fiscale negli Stati Uniti inizia il 1 ottobre ed è pertanto indispensabile che l’iter sia concluso entro la 23:59 del 30 settembre.
Quando al Presidente manca il controllo politico di entrambi i rami del Congresso, in caso di divergenze si crea una situazione in cui gli ingranaggi si inceppano e la macchina legislativa frena, incappando in uno dei due scenari descritti. Se poi nessuna delle due forze politiche è in grado di esprimere una maggioranza di almeno i 2/3 tanto alla Camera quanto al Senato e le posizioni sono talmente distanti da impedire un accordo, l’impasse politica può essere tale da impedire che il cerchio si chiuda in tempo portando così al blocco totale. In questo caso, il governo federale si ferma. È lo shutdown che gli americani stanno vivendo in questi giorni.In assenza di un bilancio ed una legge che autorizzi la spesa pubblica, il governo è stato costretto a disporre con effetto immediato la cessazione di tutte le attività ritenute non essenziali. Da martedì 1 ottobre, in attesa che lo stallo politico si sblocchi e la spesa pubblica sia rifinanziata, negli Stati Uniti quasi 800mila (su 2 milioni) dipendenti del governo centrale sono stati posti in congedo a tempo indeterminato. Inizialmente, con la prospettiva di non maturare alcun diritto allo stipendio. Solo successivamente, a seguito della tensione crescente nell’opinione pubblica, nella giornata di sabato 5 ottobre il Congresso ha varato all’unanimità una legge che garantisce comunque il diritto alla corresponsione delle somme non percepite dai dipendenti pubblici a causa dello shutdown.
Tra i servizi indispensabili per la sopravvivenza del Paese che continuano a svolgere i loro compiti senza alcuna limitazione sono compresi le forze dell’ordine e di pubblica sicurezza, le Forze Armate, i controlli alle frontiere, i controllori dello spazio aereo. I principali servizi sociali e di assistenza rimangono essenzialmente in piedi ma ritardi e malfunzionamenti possono accadere regolarmente, così come la maggior parte del personale destinato alla Homeland Security dovrebbe rimanere al proprio posto il più a lungo possibile. In ordine di priorità, i vari Dipartimenti e le Agenzie che fanno capo al governo federale vengono progressivamente ridimensionati. La NASA, ad esempio, mantiene attive esclusivamente le funzionalità necessarie al supporto della Stazione Spaziale Internazionale interrompendo qualsiasi altra attività.
Così come in caso di blackout elettrico si cerca di alimentare le utenze più importanti con un generatore di emergenza, allo stesso modo durante lo shutdown Washington destina ai centri vitali le risorse disponibili. Analogamente, così come un generatore col tempo si scarica ed alla fine si spegne tutto se l’alimentazione non viene ripristinata, l’intero apparato pubblico federale progressivamente finisce col fermarsi se la politica non trova un accordo.
Il primo parziale shutdown risale al 1978, sotto la presidenza Ford, e da allora si è ripetuto diciotto volte compreso quello in corso. Solitamente, tuttavia, l’impasse è stata superata nel giro di poche ore dalla scadenza, rendendo la cosa un fatto meramente contabile senza alcun effetto sulla società.
L’eccezione più sensibile è lo scontro tra il Presidente democratico Bill Clinton ed il Congresso a maggioranza repubblicana (in entrambi i rami) avvenuto nel 1995. Le due parti si fronteggiarono inizialmente per 6 giorni costringendo a casa circa 800mila lavoratori, reiterando in seguito la battaglia su alcuni punti secondari causando un nuovo shutdown che lasciò sospese per ben 21 giorni oltre 280mila persone, senza stipendio a cavallo delle festività di Natale. L’episodio, che costò una débâcle elettorale ai Repubblicani (ritenuti responsabili dall’opinione pubblica) e milioni di dollari all’economia americana, rappresenta l’ultimo prima dei nostri giorni.
Oggi, a Washington, la Camera dei Rappresentanti ed il Senato sono espressione di maggioranze contrapposte: repubblicana la prima, democratica la seconda (quindi fedele al Presidente Obama).
In una convulsa successione di rimpalli tra le due sponde, Camera e Senato hanno fallito nel preparare una legge condivisa da sottoporre al Presidente ed a quasi una settimana dall’inizio dello shutdown le posizioni sembrano essere ancora molto lontane.
Il motivo del contendere, sebbene sia sostanzialmente ideologico, affonda le sue origini formali in diversi anni fa. A causa dei costi sostenuti per tenere in vita il sistema finanziario agonizzante dopo il fallimento della Lehman Brothers nel 2008, il debito pubblico è schizzato dai circa 9.800 miliardi $ (70.8% del PIL) di quell’anno ai quasi 17.000 miliardi $ (106.5% del PIL) di oggi. La necessità già palese nel 2011 di arginare l’emergenza ha prodotto un primo aspro confronto tra Obama ed il Congresso sulle misure da mettere in campo. Con una soluzione di compromesso raggiunta quasi allo scoccare di un’altra delicatissima scadenza, nel Budget Control Act approvato quella stessa estate fu inserito un provvedimento in base al quale, in mancanza di eventuali riforme, dal 1 gennaio 2013 sarebbe automaticamente scattato il c.d. sequester, un insieme di tagli lineari alla spesa pubblica draconiani capaci di produrre risparmi per circa 1.100 miliardi $ nell’arco di 8 anni. Ad un passo dalla sua entrata in vigore, un’intesa lo scorso dicembre anche questa volta in extremis ha rinviato di due mesi quello che la stampa ha sinistramente battezzato fiscal cliff (precipizio fiscale), lasciando presagire che ci fosse la volontà da ambo le parti di negoziare un punto di incontro alternativo. Le speranze sono svanite quando, a marzo, i tagli sono scattati senza che Repubblicani e Democratici avessero elaborato una valida alternativa. Nel corso dell’estate il sistema di stanziamenti pubblici ha cominciato a scricchiolare, collassando definitivamente nel momento in cui ad inizio settembre nuovi calcoli per l’anno fiscale 2014 hanno stimato un fabbisogno superiore di circa 20 miliardi di dollari rispetto alla somma proposta dal partito Repubblicano (pari a 967 miliardi $).
L’occasione è stata afferrata al volo dalla fronda più intransigente dei conservatori per rimettere in discussione la riforma della sanità fortemente voluta dal Presidente, la c.d. Obamacare, approvata nel 2010 e da allora furiosamente combattuta su più fronti. Sconfitti tanto sul fronte politico, avendo perso le elezioni del 2012, quanto su quello giudiziario, date le ripetute sentenze della Corte Suprema espressasi positivamente circa la legittimità della legge, ai Repubblicani per impedire l’entrata in vigore della Obamacare non è rimasto altro che tentare un vero e proprio ricatto politico dell’ultimo momento ai danni dell’amministrazione Obama. Nella mozione approvata dalla Camera dei Rappresentanti lo scorso 29 settembre, infatti, un provvedimento rinviava di un anno l’entrata in vigore della riforma (prevista per il 1 ottobre) spogliandola inoltre di molti suoi aspetti fondamentali. La mossa repubblicana, costringere cioè con le spalle al muro il Presidente ed il Senato ad accettare pur di scongiurare lo shutdown, non ha prodotto il risultato sperato. Il Senato con una seduta di appena 26 minuti ha immediatamente rispedito al mittente la proposta ed Obama nelle sue dichiarazioni alla stampa ha usato toni durissimi, etichettando senza mezzi termini la manovra come “estorsione”.
Fallito il tentativo ed entrata in vigore la Obamacare dalla mezzanotte del 1 ottobre, il partito Repubblicano sembra essersi ritrovato con il cerino in mano. Sondaggi effettuati da un ente di ricerca indipendente e diffusi dalla Brookings Institution affermano che il rapporto tra gli Americani contrari e quelli favorevoli allo stop del governo federale per impedire la riforma sanitaria è di oltre 3 a 1, circa il 72% contro il 22%. Allo stesso modo il disappunto degli elettori è evidenziato dal tasso di approvazione del lavoro dei Repubblicani al Congresso: pari al 17%, rappresenta il peggior risultato della storia. Nei giorni seguenti analoghi sondaggi condotti dalla CBS hanno sostanzialmente confermato l’umore della società americana, lasciando però trasparire una irritazione generale verso le rispettive intransigenze dato che per gli elettori statunitensi tanto i Democratici (76% degli intervistati) quanto i Repubblicani (78%) dovrebbero scendere a compromessi con l’altra parte. I dati diffusi dal network indicano che nel complesso nove Americani su dieci sono “insoddisfatti” o “arrabbiati” per l’andamento delle cose a Capitol Hill.
Non stupisce che il partito conservatore sia in realtà diviso da una profonda frattura al suo interno, in cui l’ala minoritaria più intransigente si contrappone alla fronda moderata favorevole al confronto con i Democratici ed al raggiungimento di un’intesa in Senato. Già nel voto dello scorso 29 settembre un esiguo numero quest’ultima, nove deputati, ha votato contro le indicazioni di partito ed il numero delle colombe disposte ad esprimere un voto congiunto sembra essere in costante aumento.
Quali conseguenze potrebbe avere l’attuale blocco è lungi dall’essere chiaro. A giudizio di economisti ed analisti, sembra tuttavia pacifico che una breve impasse avrebbe riflessi negativi più in termini psicologici e di percezione dell’instabilità politica che non in termini di economia reale. La stessa Wall Street nelle primissime sedute ha risposto freddamente, addirittura guadagnando il primo giorno dello shutdown sulla scia delle attese circa le misure di politica monetaria che la Federal Reserve (FED) potrebbe mettere in campo per tranquillizzare gli investitori. Calcoli riportati dalla NBC indicano che i costi vivi ammonterebbero a circa 300 milioni di dollari al giorno, pari a circa 1,6 miliardi di dollari alla settimana (lavorativa). Facendo due conti, anche uno shutdown lungo quanto quello della presidenza Clinton nel 1995, tre settimane, costerebbe alle tasche degli americani “appena” 4,8 miliardi di dollari. Una cifra enorme in valore assoluto, certo, ma di fatto una frazione equivalente allo 0,03% del PIL e pertanto irrisoria per l’economia statunitense.
Con il passare dei giorni e la mancanza di un accordo tra Democratici e Repubblicani sul budget, tuttavia, è un’altra imminente scadenza quella che da leggera ansia rischia di trasformarsi in vero e proprio terrore. Le forze politiche devono infatti trovare rapidamente un’intesa anche sull’aumento del tetto del debito che l’esecutivo può contrarre annualmente, ovvero l’ammontare di denaro che l’Amministrazione Obama può prendere in prestito dai mercati. Essendo tale limite fissato per legge, ne serve appunto un’altra per poterlo superare. Anche in questo caso la frangia intransigente dei conservatori si oppone a qualsiasi concessione senza una contropartita, ma in questo caso le conseguenze sarebbero profondamente diverse da quello dello shutdown qualora la loro linea dovesse prevalere. Allo stato attuale il Tesoro americano raggiungerà quel limite il 17 ottobre, perdendo la capacità legale di prendere in prestito dai mercati finanziari i capitali che utilizza per ripagare gli interessi sul debito nazionale. Da quel momento le sue riserve di contante, pari a 30 miliardi di dollari, cominceranno perciò a decrescere arrivando a zero più o meno una settimana dopo. In altre parole, verso la fine di ottobre gli Stati Uniti non sarebbero più capaci di ripagare il loro debito andando a tutti gli effetti in default. Anche l’eventuale decisione di procedere ad una allocazione selettiva delle risorse disponibili, per ripagare secondo una scala di priorità solo alcune delle obbligazioni contratte in modo da diluire i tempi, porterebbe gli Stati Uniti al rating di selective default. Lo stesso di Cipro, per intenderci.
Come noto il default di un Paese come la Grecia, il cui PIL nazionale è pari ai 4/5 del PIL della sola Lombardia, ha causato ripercussioni significative nell’area Euro che a loro volta si sono propagate ben al di fuori dei confini europei: il primo default nella storia degli Stati Uniti produrrebbe conseguenze di una tale catastrofica portata da non poter essere neppure immaginate.
Un ex candidato Repubblicano alla presidenza, John Huntsman, in una recente intervista alla CNN ha ammonito i suoi colleghi di partito, sostenendo che tra gli effetti di un mancato accordo sul tetto del debito e quelli dello shutdown esiste la stessa differenza che corre tra il fallout di una bomba termonucleare e lo scoppio di una bomba a mano.
Dalle colonne del Financial Times a quelle del New York Times passando per il Wall Street Journal, schiere di economisti tra cui il premio Nobel Paul Krugman non risparmiano in questi giorni fiumi di parole per ammonire su quale sia il reale pericolo a cui l’azzardo in corso sta rapidamente dando vita. Raramente i mass media americani (e non) si sono mostrati tanto coesi nel condannare senza mezzi termini l’irresponsabilità della politica, lanciando i loro strali a ragion veduta anziché in base all’orientamento in favore di uno schieramento o dell’altro.
Più che un segnale di serenità incondizionata, l’andamento ancora tiepido dei mercati rappresenta piuttosto la convinzione del mondo finanziario e dell’opinione pubblica mondiale che il rischio reale di un default statunitense sia nullo e che il bluff repubblicano arriverà quanto prima ad un punto morto. Se però l’animosità e l’acredine in seno al Congresso non dovessero rientrare quanto prima, crescenti ondate di panico potrebbero, intanto, portare nell’immediato conseguenze nefaste almeno tanto quanto quelle dell’estate 2011. In quelle convulse settimane si registrò, come risultato per aver raggiunto solamente in extremis l’accordo da cui il sequester è disceso, un repentino crollo del 20% dello S&P 500 ed al contempo Standard & Poor’s e Moody’s declassarono il rating degli USA provandolo della tripla A.
A riprova di ciò, i primi segni di nervosismo cominciano ad affiorare evidenti. Mercoledì alla Casa Bianca il Presidente Obama ha tenuto un incontro con i CEOs delle principali banche di affari statunitensi tra cui JP Morgan e Goldman Sachs per fare un punto della situazione. Già il giorno seguente, giovedì 3 ottobre, lo stesso S&P 500 segnando lo -0,9% ha registrato la sua peggior performance da agosto. La sera stessa Christine Lagarde, direttrice del Fondo Monetario Internazionale, ha avvertito gli Stati Uniti ammonendoli della catastrofe economico-finanziaria che potrebbe profilarsi all’orizzonte. Nel corso del weekend, infine, le banche hanno incrementato del 30% le riserve di contante disponibili nei bancomat, in previsione di una eventuale corsa agli sportelli dei correntisti americani.
A Washington, mentre il presidente Obama in una intervista alla CNBC si dichiara “esasperato”, lo speaker repubblicano della Camera John Bohener esprime la più assoluta volontà di impedire il default anche a costo di promuovere nei prossimi giorni una proposta di legge contente l’innalzamento del tetto del debito e che conterebbe sui voti dei Democratici e di parte dei Repubblicani. Al contempo, però, lo stesso Boehener continua la battaglia contro l’intransigenza del Presidente impedendo la discussione di una mozione che con il supporto dei deputati conservatori dissidenti potrebbe porre fine allo shutdown.
Tale dicotomia preoccupa molto coloro i quali la interpretano come una mancanza di chiarezza e di controllo politico del leader repubblicano. Un’altra più fine (e rassicurante) analisi potrebbe tuttavia essere quella che si evince dalle indiscrezioni filtrate da esponenti del partito vicini allo speaker, secondo cui “se sai che non puoi impedire che ti sparino, meglio un proiettile che due”. In sostanza, data la lucida consapevolezza di una inevitabile capitolazione tanto sullo shutdown quanto sull’innalzamento del tetto del debito, Boehener potrebbe spingere fino al punto di dover cedere su ambo i fronti in un’unica resa limitando così il contraccolpo mediatico e politico.
A prescindere dalla lettura che si preferisce, ciò che tuttavia allarma seriamente gli esperti ed i policymakers più avveduti è la leggerezza con cui, nonostante i recentissimi precedenti, una volta di più gli Stati Uniti stiano correndo senza freni verso un baratro senza fondo, rischiando di caderci dentro di peso trascinando con se’ il resto del mondo.
Con la differenza che se la politica del rischio calcolato messa in campo dai Repubblicani fosse nuovamente imprecisa nel valutare le conseguenze delle proprie decisioni, così come lo fu nel 2008 quando gestì il crack della Lehman Brothers, sul sistema economico globale si scatenerebbe questa volta una tempesta tale da far sembrare la crisi finanziaria di allora una piacevole brezza estiva.
* Matteo Guillot è Ufficiale della Marina Militare e Dottore in Scienze Marittime e Navali (Università di Pisa)
Photo Credit: Brendan Smialowsky/AFP/getty Images
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