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“Revenant: a volte ritornano” – Intervista a Giovanni De Matteo

Creato il 09 agosto 2011 da Fabry2010

Da Uno strano attrattore

Introduzione di Giovanni De Matteo, co-fondatore del movimento connettivista

Intervista di Antonio Cerrato e Julian Shabi

“Revenant: a volte ritornano” – Intervista a Giovanni De Matteo

Prima della pausa agostana (che, se mi riesce una sorpresa per i lettori del blog, pausa non sarà per lo Strano Attrattore), mi preme tener fede a una promessa fatta a due studenti della facoltà di Psicologia dell’Università “La Sapienza” di Roma, Antonio Cerrato e Julian Shabi. I due intraprendenti giovani hanno deciso, bontà loro, di intervistarmi sulla genesi dei racconti di Revenant per la tesina che hanno poi presentato con successo al corso di Antopologia Culturale del prof. Vincenzo Padiglione.

La lunga conversazione, tutta svolta via e-mail la scorsa primavera, è andata a costituire l’ultima sezione del loro saggio, che ha analizzato il fenomeno dei non-morti nell’immaginario degli ultimi decenni, oltre che sul fronte letterario anche su quello televisivo (con la serie Ghost Whisperer – Presenze), cinematografico (con il film The Others) e musicale (il videoclip di Michael Jackson per Thriller). Sono particolarmente contento per loro del risultato, per cui ho pensato con il loro consenso di pubblicare la parte che mi riguarda, in cui vengono affrontati temi di più ampio respiro, sia in ambito letterario (la fantascienza, il fantastico, il connettivismo) che “antropologico” (l’influenza delle leggende della tradizione sull’immaginario dello scrittore), prima di incentrarsi sull’antologia e la sua struttura.

PARTE 1 – TEMI GENERALI

1. Perché un giovane ingegnere elettronico si cimenta o, se pensi che meglio rappresenti il tuo processo creativo, decide, di scrivere di questa tematica così originale per il campo in cui tu hai studiato?

Scrivere è sempre cimentarsi. Non basta l’impulso di volontà iniziale che s’innesca con l’ispirazione. Sono fondamentali la costanza e la resistenza per tradurre in parole le immagini che ci hanno colpiti in partenza, e fare in modo che quelle parole evochino nel lettore immagini di portata ancora efficace, sebbene inevitabilmente ridotta rispetto ai prototipi da cui tutto è nato. Tutto questo per dire che per me la scrittura somiglia molto a un rituale di negromanzia, magari un po’ perverso: bisogna prima uccidere il sogno che ci ha tanto impressionati da spingerci a portarlo sulla carta, quindi sezionarlo per metterne a nudo i meccanismi occulti fino a capire come mai ci hanno colpiti a tal punto, e allora ricomporlo per ottenere che il suo simulacro che portiamo sulla carta riesca a parlare non solo a chi scrive, ma anche a chi leggerà. Quello che sopravvive nei miei scritti degli studi di ingegneria elettronica è forse proprio questa dedizione al meccanismo della comunicazione, il tentativo di tenere aperto un canale di trasmissione attraverso cui far filtrare immagini quanto più fedeli all’ispirazione originale. Escogitando espedienti validi ed efficaci per questo obiettivo, utili a contrastare le fonti di disturbo e il rumore in cui siamo immersi.

In realtà l’idea di scrivere qualcosa di mio mi ha sempre stuzzicato. Il mio primo tentativo di scrivere un romanzo risale ai tempi del liceo, avevo sedici anni, ma il tentativo si arenò dopo una cinquantina di pagine dattiloscritte con una vecchia macchina da scrivere Olivetti. Dovevo ancora leggere molto, per imparare a far funzionare la scrittura. A diciotto sono riuscito a scrivere il mio primo romanzo completo, sebbene si trattasse di un’opera più che dimenticabile.
In questo lavoro, come in tutti gli altri, bisogna saper essere onesti con se stessi e imparare a riconoscere il giusto valore all’operato svolto. Quei due tentativi iniziali mi hanno insegnato a confrontarmi con i miei limiti e quindi a cercare di scavalcarli prendendo come modelli i romanzi dei miei maestri. Neuromante di William Gibson, La mostra delle atrocità di James G. Ballard e L’arcobaleno della gravità di Thomas Pynchon hanno giocato un ruolo fondamentale per convincermi a perseverare, anche con il semplice impulso a replicare i moduli, le soluzioni stilistiche e le invenzioni narrative che li rendevano così grandi e affascinanti.
1.1 Da quello che leggo potrei quindi dedurre che nel processo di scrittura,in questa sfida che ti si prospetta davanti, tu sia alla ricerca di una conoscenza più approfondita, una conoscenza di te, del mondo, una conoscenza che prima non ti apparteneva?
Secondo il mio modo di vedere le cose, non c’è niente di così stimolante come il piacere dell’apprendimento. La scrittura poi ha sicuramente un ruolo catartico nel momento in cui ci costringe a fare i conti con la parte più profonda e nascosta di noi stessi. E pone sempre delle sfide (lo sviluppo dell’idea di partenza, la gestione dei personaggi, l’articolazione degli snodi della trama), che si dimostrano a loro modo sempre nuove. L’autore è pertanto obbligato a elaborare delle soluzioni nuove per problemi nuovi, ovviamente sulla base dei suoi trascorsi “narrativi” e della sua esperienza. E infine la scrittura pone sempre e comunque la necessità di documentarsi su quanto si vuole scrivere. Gli stimoli non mancano di certo.

1.2 Quali sono questi espedienti? E perché sono questi e non altri ad essere efficaci e validi, come dici tu?

Le soluzioni variano da caso a caso. Non esiste una formula unica replicabile all’infinito, adatta per ogni situazione. Ma ogni scrittore ha un metodo, una “cassetta degli attrezzi” come la definisce Stephen King, che racchiude il suo bagaglio di esperienza, trucchi, schemi e rituali, necessari per portare a compimento il suo lavoro.

2. Cos’è, quindi, per te un revenant, uno zombie?

Il revenant in sé è una figura ricorrente nella cultura popolare, che dal folklore ha alimentato interi filoni del nostro immaginario contemporaneo. Basti pensare alle legioni di zombie, spettri e vampiri che si muovono sul grande e sul piccolo schermo e nelle pagine di un numero imprecisato di libri. Sono tutte declinazioni di quell’ideale archetipo che rispecchia il nostro bisogno, la necessità profondamente umana, di credere nella reversibilità dei processi naturali per scongiurare il terrore dell’inevitabile, o almeno per convincerci dell’esistenza di un palliativo come può essere l’aldilà. Da appassionato del cyberpunk (la fantascienza sposata alla frontiera delle nuove tecnologie informatiche, intrisa di cultura popolare), trovo da sempre particolarmente stimolante la metafora dell’interfaccia, della soglia lungo la quale si incontrano e si scontrano leggi e logiche eterogenee, se non proprio contrastanti e opposte, combinandosi e contaminandosi quando non finiscono per annullarsi reciprocamente. E cosa ci può essere di più affascinante della soglia da cui nessuno ha mai fatto ritorno, con i segnali che lungo questa soglia si possono cogliere di quanto è situato oltre di essa? La figura del revenant incarna una simile possibilità e mi ha offerto il pretesto di esplorare questa frontiera dell’ignoto, che non nasconde nient’altro che le nostre paure più antiche e le angosce più profonde.

2.1 Potresti spiegare il perché consideri la figura del revenant come possibile interfaccia, che come dici tu proviene da una creazione puramente umana, quindi puramente materiale nella sua sostanza, e allo stesso tempo immateriale e trascendente a causa delle metafore che incarna, ma comunque creazione figlia della mente umana?

L’idea dell’interfaccia nasce dalla concezione della linea di separazione tra la vita (il mondo che conosciamo) e la morte (il mondo ignoto che sta oltre) come un confine. Un’interfaccia, appunto, la linea di discontinuità dove alcune regole cessano di valere e altre impongono il loro dominio.

2.2 Quanto questa tematica lega il mondo cinematografico con quello letterario? Come mai questo tema riscontra tanto positivamente il gusto del pubblico, in particolar modo quello dei “teenager” (Penso a Twilight o a telefilm di successo come Buffy…)?

Ci sono stati sicuramente un buon numero di tentativi di esplorazione del tema. Oltre alle trasposizioni dei classici della letteratura gotica e fantastico e ai cult di Romero, un film che ho trovato molto evocativo e riuscito è stato Linea mortale (Flatliners, 1990) di Joel Schumacher. Immagino che il successo del filone tra i più giovani sia legato soprattutto al fascino dell’estetica dark, che intercetta la voglia di anticonformismo e il bisogno di ribellione particolarmente popolari in certe fasce di età.

2.3 La figura del Revenant portata da Michael Jackson nel mondo della musica (in particolare nei video musicali) è stata, secondo te, solo un fenomeno di “tendenza” o in qualche modo risulta legata al successo cine-letterario dello zombie? Puoi darci una tua interpetrazione personale del video?

Credo che molte volte l’uso delle figure del nostro immaginario si riduca a semplice pretesto estetico. E come spesso accade, quando una cosa (un’idea, un’immagine, etc.) si impone come moda, perde gran parte della carica dirompente (come simbolo di rottura, discontinuità, cambiamento) che aveva in origine.

3. Chi sono oggigiorno gli zombie-tipo secondo te?

Coloro che non si accorgono dei cambiamenti in atto nel mondo in cui vivono, oppure si dimostrano non solo incapaci di capirli ma soprattutto sprovvisti della volontà necessaria per dedicarsi alla loro valutazione. Coloro che si accontentano di quella rappresentazione omogeneizzata, neutralizzata, standardizzata del mondo che gli viene propinata come la reale immagine del mondo. Coloro che subiscono passivamente la ricaduta o, per restare in tema d’attualità, il fallout, senza battere ciglio.

Nel primo racconto dell’antologia, che s’intitola “Cassandra”, il protagonista è un agente segreto che si muove in una ipotetica zona franca contesa da una superpotenza rivale. La città immaginaria che dà il titolo alla storia è tuttavia insidiosa alla sua maniera, soggetta a un regime dittatoriale che ha nella persuasione occulta della popolazione, esercitata attraverso il sistema dei media, la sua principale forza di controllo sociale.

Ogni uomo ha dentro di sé il congegno per ridursi in marionetta, in burattino, e rimettere la propria vita nelle mani di qualcun altro: sta a lui decidere se lasciare o meno il controllo dell’interruttore a un estraneo.

3.1 Può, in qualche modo, uno “zombie” dei giorni nostri redimersi e tornare ad essere “umano”(ovviamente considera il lato metaforico) ? Se sì, in che modo?

Sicuramente fare il passaggio a ritroso è più complicato e difficile di quanto non sia “trasformarsi” in zombie. Una volta ceduto ad altri il controllo di quell’interruttore di cui parlavo prima, non sarà facile strapparlo dalle loro mani per tornarne in possesso. Ci si può riuscire magari con l’aiuto di qualcun altro. Credo nella vita come forma di resistenza.

4. Con quale immagine meglio ti rappresenti questo concetto? Perché?

Le grandi folle, che annullano le reciproche diversità e riducono la persona a un semplice numero. Ma anche gli individui e i nuclei familiari rinserrati nei loro appartamenti, raccolti intorno a nient’altro che al nuovo focolare domestico: la televisione. Davanti alla TV tutti finiamo per tornare numeri di una statistica, del tutto privi di qualsiasi elemento distintivo o attributo di personalità.

5. Qual è il motivo, interiore o esteriore, che ti ha portato ad accostare la figura dell’anima che ritorna al senso di colpa?
Il senso di colpa e il rimorso sono meccanismi connaturati al processo della memoria. L’accostamento alla figura del revenant è pertanto istintivo: può essere un episodio del nostro passato con cui si è costretti a fare i conti di continuo, oppure una persona cara che torna, come un amore ritrovato. Il problema è che ci rappresentiamo sempre le persone del nostro passato come le abbiamo lasciate, magari esaltandone le caratteristiche che ci tornano più comode al nostro scopo, magari anche inventandocene di sana pianta. La verità è che tutti noi cambiamo con il tempo ed è praticamente impossibile incontrare la stessa persona una seconda volta. Solamente in sogno può capitare di riuscirci, ma l’ossessione combinata alle circostanze può tramutare la vita stessa in un incubo.

5.1 Revenant come ritorni insistenti di fatti accaduti nella nostra vita, con i quali avremmo preferito non avere più a che fare?

Certo, ma anche di momenti felici che ci siamo illusi che potessero durare per sempre. Tutti questi episodi, positivi e negativi, vanno a comporre una dimensione parallela, una realtà simulata alternativa al mondo in cui viviamo. A furia di tornarvi, può capitare prima o poi che la nostra mente cada prigioniera di questa nostra personale rappresentazione di una realtà che non è stata.

5.2 Quindi non dipende dal fatto di chi ritorna, o dal fatto in sé del ritorno, quanto dalla discrepanza tra il nostro ricordo e la realtà che si presenta alla nostra esperienza? E’ questo che sta a significare l’immagine tipica dello zombie come cadavere putrefatto, che dell’essere umano ha solo le sembianze superficiali complessive?

Sono d’accordo. Cos’è in fondo lo zombie se non un simulacro di un uomo, che ha perso tutte le prerogative che contraddistinguono l’umanità al di sotto della sua forma esteriore?

6. Ti sembra plausibile, considerando il contesto in cui viviamo, gli sviluppi della società di oggi, ammettere che possa il senso di colpa essere un motivo, se non il principale e unico, di un fantomatico ritorno in vita dei morti? Perché?

Non mi interessa che una simile eventualità sia o meno realistica. Personalmente, sono piuttosto scettico di fronte a certe infatuazioni per il misticismo e il sovrannaturale. Quello che mi interessa come autore è la potenzialità drammatica di una data idea o situazione, quella forma di stupore che può nascere dai suoi risvolti meno attesi.

Non è scopo né compito della letteratura indagare la plausibilità delle situazioni rappresentate. L’attendibilità del processo di costruzione letteraria è cruciale per la riuscita dell’opera, che per il resto deve attenersi solo alla propria coerenza interna. L’autore ha il dovere di preservare il fragile equilibrio della tensione superficiale che imbozzola il suo lavoro. La narrativa è rappresentazione, parla per metafore, simboli, allusioni. È un gioco di prestigio.

La rievocazione dei fantasmi sepolti nel nostro passato attraverso l’immagine di un “non-morto” ha un suo diritto di asilo nelle frontiere del fantastico, insieme ad altre trovate più o meno mirabolanti e, se proprio è necessario, anche alla violazione delle leggi della natura.

6.1 La narrazione come arte magica. Attraverso i suoi trucchi (metafore, simboli, allusioni…) stupisce il lettore. In antropologia c’è l’immagine del “Trickster”, ossia un burlone che rompe il senso comune (stereotipato) portando alla luce la verità e il senso intrinseco delle cose. Riscontri qualcosa di analogo nelle tecniche narrative (deus ex machina…) da te utilizzate?

In ambito letterario, forse il Trickster ha avuto la sua più efficace incarnazione nel Joker, la nemesi di Batman. Al di là della seduzione del male, quello che affascina di questo personaggio (magistralmente interpretato nella trasposizione cinematografica di Christopher Nolan da Heath Ledger) è la sua familiarità con le storie. Nei fumetti, ha un aneddoto per ogni situazione. E nel film si diverte a cambiare la storia del proprio personaggio più di una volta, riportando una versione diversa in base all’interlocutore proprio per produrre su di lui una maggior presa. Non è forse quello che cerca di fare ogni scrittore? Ottenere il massimo coinvolgimento del lettore richiede più di un pizzico di intraprendenza.

6.2 Parlando, invece che di tecniche, di “influenze narrative”, quali sono quelle che ti hanno formato e appassionato fin da piccolo?

I primi nomi che mi vengono in mente sono Howard Phillips Lovecraft per la letteratura dell’orrore e il fantastico tout-court, Alfred Elton van Vogt e Philip K. Dick per la fantascienza. Erano loro i primi libri che mi sono scelto e a cui mi sono appassionato. Nel seguito sono arrivati altri, come gli autori che citavo prima (Ballard, Pynchon, Gibson), ma anche Samuel R. Delany, Don DeLillo, Raymond Chandler, Dashiell Hammett, Italo Calvino. Come si vede, mi piace spaziare tra i generi. In tempi recenti sono rimasto molto colpito dai noir di James Crumley, Derek Raymond, Hugues Pagan e dal noir futuristico di Richard K. Morgan.

6.3 Puoi spiegarci brevemente la corrente letteraria del “Connettivismo” della quale ti attribuiscono (fonti online: Wikipedia) la cofondazione? Connettivismo e Revenant sono tra loro, scusa il gioco di parole, particolarmente “connessi”?

Il connettivismo definisce un movimento di autori che si riconoscono nelle opportunità offerte dalla contaminazione tra i generi (fantascienza, horror, fantastico, poliziesco, etc.) e in particolare da come il loro utilizzo può aiutare a rappresentare la complessità di una realtà in continuo cambiamento per effetto del progresso tecnologico. Se non ricordo male, Revenant è stato il primo libro pubblicato da un autore connettivista.

7. Guardando al passato, mi sembra chiaro che non si possa assolutamente decontestualizzare la nascita dell’immagine dello zombie, che non si possa porre questa come scollegata e autonoma dall’ambiente, dal periodo storico e dai problemi socio-politico-economici che affliggevano il mondo nel momento storico in cui è stata concepita. Alla luce di questa osservazione, è presente un punto di incontro (oppure scontro) tra il tema del tuo libro e le idee, credenze, i valori imperanti nel 2011 non solo in Italia, ma nel mondo intero?

Non saprei. È un dato di fatto che la figura del revenant ha goduto i suoi momenti di maggiore popolarità nei periodi più impregnati di fervore idealista. Si pensi al rapporto tra il Frankenstein di Mary Shelley e la prima rivoluzione industriale, o di Carmilla e Dracula con la seconda rivoluzione industriale e il positivismo invalso in epoca vittoriana. Ma anche La notte dei morti viventi, il film di George Romero che ha stabilito i codici dell’horror di stampo zombie, uscì in un anno alquanto significativo: il 1968. Credo che banalmente i periodi più intrisi di potenzialità (prospettive sociali, scientifiche, tecnologiche) si riflettano anche nella ricchezza dell’immaginazione e nella varietà delle forme espressive.

Dal punto di vista economico, sociale e politico, da almeno un decennio a questa parte, nel mondo ma soprattutto in Italia e nel bacino del Mediterraneo, non stiamo vivendo quello che definirei un periodo particolarmente fortunato. Ma proprio per questo forse si avverte più forte la necessità di opere in grado di stimolare e nutrire i dubbi sul mondo di cui siamo parte, anche per spingerci a interrogarci sulla possibilità concreta di un mondo diverso. E nessuna letteratura ha gli strumenti più adatti a questo scopo del fantastico e della fantascienza.

8. In particolare, che valore o funzione assume, all’interno del contesto in cui noi viviamo, l’idea di un morto che ritorna e del senso di colpa come motivazione di questo ritorno?

La figura del revenant, quale che sia il suo tipo o la sua manifestazione a cui l’autore decide di rivolgersi, si carica facilmente del bagaglio di colpe e sospetti che pesano sulla nostra coscienza. Individuale e collettiva.

9. In queste storie, mi sembra di scorgere una funzione curativa per l’essere umano: mi sembra di vedere, nell’immagine del revenant, una proiezione mista di paure, di terrori, desideri, e forse anche speranze dell’umanità. Hai mai fatto riflessioni in merito?

Non mi sono mai posto il problema. Ma sono contento che un lettore riesca a trovarvi anche questo: le storie fungono sempre anche da specchio, oltre che per la realtà, anche per noi stessi. Se un lettore si riconosce in un racconto alla luce delle proprie esperienze, vuol dire che quella storia ha saputo parlargli a un livello più profondo del semplice testo impresso sulla pagina. Vuol dire anche che la storia ha acquisito una sua vitalità che va oltre le intenzioni di chi l’ha scritta, dalla cui potestà originaria è ormai affrancata.

PARTE 2 – Il libro [Revenant], la sua struttura

1. Il libro è composto da 6 racconti: cosa ti ha portato ad optare per una tale suddivisione del libro?

Data la lunghezza media dei miei lavori (intorno alla ventina di pagine) era il numero giusto di storie da includere nel volume, così come l’aveva pensato il curatore della collana FantaNET, Marco Zolin, per inaugurare il nuovo spazio editoriale che Ferrara Edizioni gli aveva affidato. Considerando anche lo spazio da dedicare agli altri contributi che impreziosiscono il libro: la prefazione di Vittorio Catani, un decano della fantascienza in Italia, la postfazione di Sandro Battisti e Marco Milani, i due co-fondatori del connettivismo, e le illustrazioni originali di Claudio Iemmola, un fuoriclasse del fumetto.

2. Qual è il filo conduttore che lega i 6 racconti del libro?
Tutti i protagonisti dei miei racconti si muovono in un mondo futuro, ma hanno un rapporto tormentato, se non proprio turbolento, con il loro passato. Spesso questo passato intreccia trascorsi individuali ed esperienze collettive. Il filo conduttore potrebbe pertanto essere la memoria, quel particolare meccanismo sviluppato dagli esseri senzienti per opporsi al naturale flusso del tempo.

3. Quale motivazione è preposta alla tua scelta di raccontare e condensare 6 storie diverse in un volume di non più di 160 pagine?
In Italia la cultura del racconto sembra risentire degli effetti dell’oblio. Eppure quanti capolavori dimostrano la predilezione riservata alla forma breve da giganti della nostra letteratura, come Italo Calvino, Dino Buzzati, Primo Levi… La fantascienza è inoltre un genere nato e maturato sulle riviste pulp, i magazine americani venduti in altissime tirature e a prezzi popolari a partire dagli anni ’20 e fino al secondo Dopoguerra. E anche in Italia, soprattutto negli anni Settanta grazie all’ormai leggendaria rivista Robot diretta da Vittorio Curtoni (riportata in vita lo scorso decennio, dopo un quarto di secolo di ibernazione, e tuttora gloriosamente in attività), si è avuto uno spazio perché il genere potesse svilupparsi verso forme artisticamente sempre più mature e consapevoli. Spesso il racconto offre lo spazio ideale per lo sviluppo di un’idea, senza costringere l’autore a sacrificare la freschezza dell’ispirazione ai ferri del mestiere. E ci sono immagini e situazioni che quando ci si manifestano nel bel mezzo di un’epifania letteraria sembrano tagliate apposta per consumarsi in una manciata di pagine.

4. La modalità di stesura del manoscritto, in particolare i tempi di elaborazione dei contenuti, sono stati molto lunghi?

Tutti i racconti erano già stati scritti quando Zolin mi ha chiesto di comporre un’antologia con il mio materiale. La loro stesura si è svolta in maniera discontinua nell’arco di un paio d’anni o poco più, tra il 2003 e il 2005. Tutti sono poi stati rivisti in sede di revisione, di comune accordo con i suggerimenti del curatore e della mia editor, Simona Cremonini.

5. Da cosa nascono le 6 storie? C’è un motivo personale come supporto di ogni racconto, oltre al piacere dell’invenzione e della scrittura?

C’è sempre un motivo personale. Ma l’autore deve sempre trovare il modo di svincolare il suo lavoro dall’autoreferenzialità assoluta, per riuscire a parlare al maggior numero di persone.

6. Ci sono influenze di racconti popolari, appresi dalla narrazione da parte degli anziani del tuo luogo nativo, derivanti dalle tue origini? Hai qualche ricordo in particolare che desideri raccontarci?

Di sicuro il folklore dell’Irpinia e della Lucania, disseminato di janare (streghe e fattucchiere), licantropi, spiritelli dispettosi e fantasmi, ha avuto un ruolo non secondario nel mio imprinting. Ma nelle mie storie non sempre è facile scorgerne le tracce. Le storie orali sono tuttavia un modello inarrivabile di coinvolgimento a cui ogni scrittore, in misura maggiore o minore, finisce per ispirarsi.

6.1: Sulla base della tua esperienza personale, ritieni che ci sia un particolare, un’idea, una paura, una qualsiasi cosa che accomuni tutte le storie della tradizione orale che conosci?

Probabilmente la cultura del fantastico, che impregna i racconti dell’ignoto e della paura che arricchiscono le nostre tradizioni popolari, riflette l’importanza di coltivare un senso di comunità. Le minacce esterne servivano forse ad alimentare lo spirito di appartenenza al gruppo (famiglia, clan, villaggio), e quando erano fittizie potevano servire ancora meglio allo scopo. Ma credo che molte storie assolvessero anche a una funzione altrettanto importante, racchiudendo degli intenti pedagogici ed educativi.

7. In quale misura e modo questi racconti hanno influenzato la tua concezione di un revenant?
In questi racconti, come ho ripetuto sopra, ho piegato la figura del revenant alle esigenze della narrazione, veicolando attraverso di essa la metafora del ricordo, del passato che non passa, del rischio di annullamento del futuro a cui ci si piega quando si continua, consapevolmente o meno, a guardare solo ed esclusivamente indietro, ma anche dell’importanza della salvaguardia critica della nostra identità attraverso la storia di cui siamo parte.

8.Cercando nel “mare magnum” cinematografico, c’è qualche pellicola che accosteresti, per analogia di temi trattati, alla tua opera letteraria?

Il cinema è sempre stato, direttamente o indirettamente, una grande fonte di ispirazione. Per esempio, ricordo di aver avuto l’idea per il soggetto del racconto che sarebbe diventato “Cassandra” all’uscita del cinema, dopo aver visto 2046 di Wong Kar Wai. Mentre scrivevo questi racconti seguivo molto il cinema orientale, e questa esperienza si sente anche in un altro racconto della raccolta, “Io vivo per Su Li-Zhen”. “Nella Zona” condivide le atmosfere con un certo cinema russo del disastro (Stalker di Andrej Tarkovskij, ma anche Lontano da Dio e dagli uomini di Sarunas Bartas) e contiene un’immagine truculenta presa di peso dal Titus steampunk di Julie Taymor, ma già descritta da Shakespeare nella tragedia originaria. Alcuni recensori hanno riconosciuto l’impronta di Sergio Leone in “Red Dust”, definendolo come una sorta di western di ambientazione marziana, e sono stato decisamente lusingato dall’accostamento. Nell’ultimo racconto dell’antologia, “L’albero e le stelle”, una sezione ambientata nel futuro remoto dell’umanità, quando l’uomo avrà ormai imparato a muoversi tra le stelle, riprende in maniera alquanto esplicita un classico del cinema francese come L’Atalante di Jean Vigo (il film da cui sono tratte le sequenze che accompagnano la sigla di Fuori Orario, per intenderci). Chiaramente ci sono anche molte altre influenze, dai fumetti e dalla letteratura, nei riferimenti culturali che ho cucito nelle trame di questi racconti. Sono convinto che l’importanza di un prodotto culturale vada misurata nella portata della sua eco, in come esso riesce a trasferirsi in altre opere, anche in media e generi diversi. Ma forse questa è solo una scusa che ho voluto inventarmi per giustificare tutti i furti di cui mi sono reso colpevole finora.



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