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La comedy-romance alla ricerca del successo perduto. Il duo Ficarra/Requa ci prova con convinzione, mettendo a punto una nuance più ibrida e meno melliflua. Ma il trucco sbiadisce con facilità e rende la superficie epidermica un pasticciato mix di tonalità diverse e poco naturali, mentre l'eyeliner interpretativo, nonostante la marca di fama, cola a picco su una sceneggiatura accomodante e carica di aporie evidenti. Non resta che detergersi il viso con cura, magari facendo uso dei prodotti tradizionali delle vecchie generazioni, affidandosi perciò ad una screwball anni '40 chic e molto più eversiva. Sarà da passatisti, ma in "Crazy, Stupid, Love." non c'è nulla di così moderno che non sia stato detto e ribadito in un secolo di commedia al cinema. Conta allora la piacevolezza e l'originalità anche parziale del prodotto. Certo non è un "chick-flick" estenuante, né una "R-Rated Comedy" banale e sesso-dipendente, ma è altrettanto lontana dagli incastri perfetti dell'età dell'oro e più che trarre forza dall'ambizione della sophisticated ne viene travolta, suo malgrado, ed esce dal confronto quasi umiliata. La circolarità narrativa arbitraria e per nulla necessaria allo sviluppo realistico del plot fa ben intendere come l'operazione di assemblages sia solo di facciata e figlia di quelle numerose ed insulse comedy da product-placement anni '90. Peccato.
Dopo il "caso" "I love you Philiph Morris", strafumata commedia "sui generis", per il lanciatissimo duo di sceneggiatori da poco prestati alla macchina da presa Glenn Ficarra/John Requa si era manifestata la possibilità di un immediato "posto al sole". Se con una materia del genere (una storia di amore e furto omosessuale) e con attori tanto lontani dal loro mondo (Carrey in fase romance oltre che istrione camaleontico iper-divertente), il risultato era stato di rilievo seppure naif e privo di equilibrio, ci si aspettava tanto più un innalzamento qualitativo in occasione del secondo film, di distribuzione immediata e dall'appeal meno settoriale. Ma qualcosa in "Crazy, Stupid, Love." è andato storto. Non l'idea, high profilo di ispirazione incluso, ma la sua realizzazione. Il film, improntato su una coralità eccessiva ed eccedente i limiti necessari per una precisa attenzione ai singoli character, perde progressivamente spontaneità e freschezza e non riesce ad intercettare le dinamiche di base di uno script rutilante, ma solo a parodiarle senza personalità, diventando un oggetto di pura superficie, in cui lo studio dei personaggi viene eclissato dall'immediato sopraggiungere dei tipi e delle speculazioni post-clichè necessari a mantenere in piedi le incongruenze politicamente scorrette di alcuni momenti poco edificanti. Quello che poteva essere l'one-man-show della pellicola, un Ryan Gosling strappato dal dramma, inusuale entertainer di lusso, viene del tutto svuotato della sua peculiare inclinazione poligama con il solito e banalissimo trip della "fine del traviamento" post-innamoramento e con il giustificazionismo psicologico di chi vuole dare tutto in pasto ad uno spettatore buonista che ha bisogno di essere condotto per mano. Ma le occasioni mancate (penso al ruolo riservato alla sempre spendida Marisa Tomei ma anche all'atteggiamento compassato di una sprecata Julianne Moore, tutto a vantaggio di una perfetta Emma Stone e di una poco espressiva e convincente Analeigh Tippon, capitata quasi per caso nel mondo del cinema ed eccessivamente considerata tenendo conto delle qualità non proprio visibili della sua recitazione) superano i colpi portati a segno. Carell emerge ed è un bene per garantire un minimo di continuità narrativa al film che non sia di semplice giustapposizione di storie. Anche in questo caso, d'altronde, verso la conclusione, il coup de theatre smorza il tono realistico e appesantisce, nella solita manfrina della circolarità (in cui rientra anche un inutile Kevin Bacon) narrativa, il film, mostrandone il carattere poco ispirato e di dubbia portata innovativa. Niente di nuovo sotto il sole della commedia hollywoodiana, anzi, l'esito è antico quanto l'happy-ending classico, solo che più forzato e meno contemporaneo alla società. Più che progressisti, nonostante i temi alternativi dei loro film più noti, diretti o sceneggiati (anche "Babbo Bastardo"), Requa e Ficarra sono conservatori pienamente americani, pienamente hollywoodiani.
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