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Il crac Parmalat al cinema, mascherato a dovere. Molaioli dietro la macchina da presa dopo il discontinuo ma promettente "La ragazza del lago". "Il gioiellino" intercetta una parte delle soluzioni formali di Sorrentino ma tende ad implodere in una narrazione che non cede mai il passo al grottesco e all'eccesso e preferisce seguire un filo conduttore forse meno redditizio (e incline a momenti di aridità indulgenti) ma più coraggioso. Il cinema inchiesta diventa cinema procedurale, la progressione è lineare, la prospettiva evita il j'accuse di basso (o alto) profilo. Non sempre sostenuto dall'appeal del tema, analizzato con occhio clinico pù che spettacolare, "Il gioiellino" convince per la sua atipica collocazione grazie alla sottigliezza interpretativa di un cast sorprendente e alla limatura distaccata dei sottotesti di cronaca da parte di un regista perspicace e poco italiano.
Il cinema di denuncia che rinnega sè stesso. E' la cosa migliore dell'ultimo film di Molaioli, regista iper-premiato (immeritatamente) per un altro discreto meltin'pot pseudo-thriller ("La ragazza del lago"). "Il goiellino" è asciutto, freddo, quasi documentaristico, tutto teso alla condensazione degli eventi più importanti che hanno segnato l'ascesa e la caduta di un gruppo imprenditoriale che si ispira, non troppo velatamente, al clan Parmalat di Tanzi. Un film ad impostazione sociale avrebbe cercato di indirizzarsi verso le implicazioni generali del crollo finanziario dell'azienda, ma gli anni '70 sono lontani e Rosi/Petri su un altro mondo lontanissimo dalla situazione cinematografica/storica attuale. E' per questo che Molaioli preferisce guardare alla evoluzione contestuale dell'impresa alimentare evitando facili pressapochismi e speculazioni a posteriori (non dimenticandosi, però, di lanciare riferimenti a uomini della classe politica attuale e trascorsa facilmente identificabili). Ne viene fuori una pellicola formalmente ineccepibile, anche per il riscontro/copia di alcuni elementi di impostazione tecnica (uso luci soffuse, fotografia dello storico Luca Bigazzi, una delle poche garanzie della'apparato tecnico in Italia, soundtrack curata da Teho Teardo) che hanno fatto la fortuna di Paolo Sorrentino. In più, evitando istrionismi eccessivi, gli attori non intralciano la storia ma la assecondano e ad un ottimo Remo Girone si affiancano la sorpresa Sarah Felberbaum e un Toni Servillo meno propenso a gigionate da one-man-character. Nulla di particolarmente originale, ma un prodotto di buona fattura che sceglie un'angolazione asettica in superficie e che permette un riaggiornamento necessario al cinema proto-ideologico italiano, alla ricerca di spazi nuovi e meno facili del sentimentalismo smielato degli "autori" attuali.
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