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RHC 2014. La velocità, unico credo.

Creato il 12 ottobre 2014 da Emialzosuipedali @MiriamTerruzzi

Daje!
(Andrea Schilirò)

Il meteo aveva dato pioggia per questo pomeriggio di ottobre. Invece la scritta Milano Bovisa sulla stazione quasi luccica in uno strano ultimo sole e lo scheletro sottile del gasometro si staglia su un cielo grigio solo a metà. Uno stormo di piccioni si alza disordinato per qualche minuto e fa somigliare la città a una sua cartolina degli anni Settanta.
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C’è profumo di panini con la salamella che si mischia al fumo, di tabacco o erba che sia. Dopo New York e Barcellona, la Red Hook arriva qui. Ultimo porto urbano di una corsa che è nata dalla strada e dalle sue luci artificiali ed è sempre più amata perché autentica, adrenalinica come la velocità folle che la percorre. Prima che scenda la notte, i ragazzi girano a tutta sul percorso per le qualifiche o sudano sui rulli. Le biciclette rigorosamente senza freni sono ammucchiate contro i muri, i pali, i cassonetti, la gente sta seduta per terra in t-shirt e pantaloncini con la birra in mano. Il ciclismo mischia tutte le storie come il vento che mischia i profumi, li rende ibridi.
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Soprattutto qui, dove la passione è bruciante come le ferite che si rimediano sull’asfalto, dove il rapporto con la bicicletta è aspro e tenero come quello dei migliori amici. Per chi non lo sapesse, questa è una corsa tanto breve quanto intensa: una ventina di giri attorno al circuito vegliato dalla notte e illuminato solo dalle luci artificiali della strada, i freni non sono contemplati, non sono nemmeno montati sulla bicicletta. L’unico credo è la velocità.

Quando scende il buio, la musica si alza e c’è la fila davanti ai chioschi dei panini. Poi le transenne si riempiono, le campanelle, le trombette riempiono l’aria. E’ lo stadio estremo che il ciclismo conosce e riconosce. Comincia la corsa vera, il rumore delle mani che battono sulle transenne e quello delle biciclette che sfrecciano una accanto all’altra spostando l’aria, l’odore della città, di qualcuno già ubriaco, di qualche pedone di passaggio che si chiede stranito cosa sia mai quel folle circo. Essere lì in mezzo, tra due ali di folla che grida, è un discorso a parte. Una di quelle cose che bisogna provare per descrivere. O forse no. Meglio dire una di quelle cose che, anche se provate, non si possono descrivere a parole. Nel ciclismo ce ne sono un po’, abbastanza per dire che è un contenitore di emozioni forti, dolorose e belle allo stesso tempo. Perché ci sono dei compromessi qui, bisogna accettare il rischio per quegli istanti sul filo, sospesi tra l’aria e l’asfalto. Sì, la velocità è il solo credo al quale votarsi in questa notte di periferia, l’adrenalina è la voce che spinge tutte le ruote.
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La campanella suona l’ultimo giro, le mani picchiano più forte, le grida aumentano. The final sprint. Tutto concentrato in quei metri dopo l’ultima curva, le ultime pedalate al limite di soglia e poi il niente, il ritorno lieve alla realtà, un giro di circuito come un giro di pista per rallentare e godersi il finale. Di nuovo la linea del traguardo, i fotografi, i ciclisti, le biciclette che si passano dall’alto, tra la folla che sommerge tutto. Un’invasione di pista, come succede a Monza quando finisce il Gran Premio. Un invasione che continua sotto il palco con la pioggia che arriva improvvisa, assieme al vino di chi festeggia. Qualcuno si prepara a stare sveglio tutta la notte, a godere di quella festa fino all’alba, qualcuno torna a casa perché la mattina dopo vuole farsi lo stesso un giro in bici. Restano le tracce della velocità vissuta, nei tappi delle bottiglie che luccicano nelle pozzanghere sotto i lampioni, nei ragazzi che si rifugiano con le loro bici e i cappucci sui rasta bagnati sotto la pensilina della stazione. Mentre Milano scorre dal finestrino offuscata dal vapore e dalla pioggia penso a quante storie diverse si incontrano in una sola notte, in pochi giri di circuito. Tutte annullate nella rincorsa costante della velocità perfetta. La sola cosa importante, in quel momento. Noi, vagabondi che cerchiamo sempre un posto dove sentirci liberi di essere quello che siamo, forse lo troviamo solo quando riusciamo ad annullare tutto il resto. A sentire esattamente dove il cuore batte e dove l’adrenalina scorre più forte di tutto. Per andare veloce bastano le gambe ma per la traiettoria ci vuole di più. E’ dentro di noi, nascosta tra i grovigli e le paure. Forse, andare veloce è davvero la soluzione: si lascia dietro tutto quello che non è abbastanza forte da restare aggrappato a noi. Restano le cose importanti. Le cose essenziali che stringono i denti al nostro stesso ritmo, anche al buio. Anche senza luce.

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