Maqlouba significa “rovesciato”, perché quando è pronto lo giri su un piatto come un gateau, lo sali, volendo lo adorni e insaporisci con mandorle tostate, uvetta, pinoli, quello che hai in casa. «Da noi in Palestina è il piatto del Venerdì, il giorno di festa», mi spiega Fidaa Ibrahim Abuhamdieh, 33 anni, chef e food blogger nata a Hebron e ora a Ramallah, nella Cisgiordania occupata. La incontro a Firenze, al Middle East Now Festival, dove insegna a preparare i piatti della sua terra: «Riso, verdura, carne, questo serve per il maqlouba. La carne (d’agnello, va bene anche il pollo, la migliore è quella di cammello ma ora si trova a fatica) la bolli in acqua, con sale, spezie, cipolla, carota. Poi la scoli, la metti in una pentola insieme al riso e al brodo, lasci sul fuoco senza mescolare finché, in una ventina di minuti, il riso è cotto e il brodo s’è asciugato». D’estate la prelibatezza è maqlouba con le melanzane fritte. A strati: sotto la carne, a mezzo le melanzane fritte, sopra il riso, da ultimo aggiungere brodo, curcuma, spezie. A fianco, yogurth e insalata di cetrioli e pomodori tagliati a pezzi piccolissimi.
Ricette palestinesi di Chef Fidaa, la sotoria del suo blog di cucina
Se Fidaa l’italiano lo parla benissimo è perché nel nostro paese ha studiato e vissuto otto anni. La passione per la cucina l’ha ereditata, tutti in famiglia hanno sempre messo mano ai fornelli. «Da piccola, il piatto di mio padre era la carne alla maniera tipica di Hebron, che tuttora la gente cuoce nel forno comune pagando qualche moneta al fornaio: metti in una pentola di rame carne rossa, sale, pepe nero, noce moscata o chiodi di garofano e il nostro bhar; quand’è cotta, aggiungi riso, brodo, burro chiarificato, curcuma e rimetti in forno finché non è pronto». Diciottenne, Fidaa lascia Hebron per Gerusalemme. Scuola di cucina di Notre Dame, del Patriarcato cattolico. E’ un buon mestiere da imparare. «Dove vivo ora, a Ramallah, 300 mila abitanti, sede dell’Autorità nazionale palestinese, ci sono più di 400 ristoranti frequentati dai ricchi del posto e soprattutto da una folla di stranieri, operatori di una miriade di ong, tecnici, progettisti, giornalisti. Aperti tutto il giorno e la sera, senza soste, sicché di cuochi ne servono almeno due, anche tre per ogni ristorante». Anni faticosi, i due passati a Gerusalemme: «Era l’inizio della Seconda Intifada, dormivo da mia zia o da una sorella in collina, ogni giorno erano ore a piedi fra un posto di blocco e l’altro». Però impara i rudimenti. E, nel luglio 2004, si trasferisce in Italia. A Padova. Dove lavora in un ristorante stellato, vive in una famiglia italiana, s’innamora della polenta. E studia, facoltà di Scienze e cultura della gastronomia e della ristorazione.
Il suo blog www.maqlouba.com è passione, certo, «ma anche un modo per conservare un’identità palestinese che nella cucina come nel resto rischia di essere cancellata dall’occupazione israeliana e più in generale dalle vicende della politica. Il pesce, per esempio, rimasto nella cucina di Gaza che ha accesso al mare, è quasi sparito dalla nostra dei Territori, che quell’accesso non hanno più dal 1948». E quando le chiedi di citarti un paio di leccornie, ne sceglie due semplicissime e cariche di ricordi: la melassa d’uva, “dibs”, tipica della natìa Hebron, e il pane inzuppato nell’olio con lo “zattàr”: «Che sarebbe timo seccato e macinato, mischiato con sesamo e “sommacco”, una spezia color rosso bordeaux dal gusto un po’ acido. Da bambina era ogni mattina la mia colazione, mangia, mi dicevano, fa diventare più intelligenti! Ne facevo scorpacciate, a Padova, quand’ero sotto esami…».
tagged in cucina, Fidaa Ibrahim Abuhamdieh, foodblogger, maqlouba, palestina