Harold Ramis (vanityfair.com)
E’ morto ieri, lunedì 24 febbraio, a Chicago (città dove era nato nel 1944) Harold Ramis, nome legato, tanto in qualità di attore quanto di regista e sceneggiatore, al mondo della commedia americana, alla quale in tali ultime vesti ha conferito nel corso degli anni diverse connotazioni.
Si parte dalla comicità anarcoide ed irriverente della sua prima sceneggiatura (scritta insieme a Douglas Kenney e Chris Miller), National Lampoon’s Animal House, 1978, film diretto da John Landis ispirato, come si evince dal titolo, alla rivista National Lampoon, che negli anni ‘70 traeva linfa vitale dal mondo del pop e della contro-cultura (dalla quale era già stato derivato nel ’73 uno spettacolo teatrale, al cui interno il nostro iniziò a farsi le ossa, insieme a Chavy Chase, Dan Aykroyd, Bill Murray, John Belushi) per giungere a quella più “composta”, felicemente alternata a toni surreali e poetici, propria di Ricomincio da capo (Groundhog Day, scritto e diretto da Ramis nel 1993), oggetto nel 2004 di un remake italiano, È già ieri, per la regia di Giulio Manfredonia ed interpretato da Antonio Albanese.
Harold Ramis in “Ghostbusters”, 1984
Notevole anche Terapia e pallottole (Analyze This, 1999), un’altra regia e sceneggiatura di Ramis, riuscita combinazione di toni scanzonati e parodici, ironia, sapide note di costume e dialoghi taglienti, con uno scatenato Robert De Niro ed un ottimo Billy Cristal, mentre del tutto inutile si rivelò il suo sequel del 2002, da noi uscito col titolo Un boss sotto stress.
Come attore il suo nome resterà invece indissolubilmente legato all’interpretazione di Egon Spengler, scienziato geniale e stranito in egual misura, uno dei quattro Ghostbusters del film omonimo (Ivan Reitman, ’84, che girò anche il seguito nell’‘89), insieme agli abituali compagni di giochi, Bill Murray e Dan Aykroyd, cui si aggiungeva Ernie Hudson.
L’ultima regia di Ramis (e sceneggiatura) risale al 2009, Anno uno, Year One, parodia biblica non annoverabile, purtroppo, fra i suoi lavori migliori, per quanto ricca di vari spunti, piacevolmente bislacchi (forse troppo in debito con Brian di Nazareth, Life of Brian, ’79, Terry Jones), interpretata da Jack Black e Michael Cera.
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John Belushi
Faber College, 1962.Le matricole Larry (Tom Hulce) e Kent (Stephen Furst), dopo il rifiuto del prestigioso circolo universitario Omega, vengono accettati dal Club Delta, i cui componenti sono più devoti alla trinità Bacco- tabacco (e succedanei…)- Venere che ai libri di testo, primeggiando per doti e meriti Eric (Tim Matheson) e il laido John Blutarsky detto Bluto (J.Belushi); dopo una serie di scherzi ed uno scatenato toga party, con vittime sul campo (la moglie del rettore e la figlia del sindaco), l’ulteriore fallimento di una prova d’esame costituirà occasione per la loro espulsione e segnalazione ai rispettivi uffici di leva, ma, capeggiati da Bluto, i nostri meditano vendetta… Animal House, oltre che presagio concreto di una nuova comicità estremamente corporale e anarcoide, è da ritenersi prototipo della commedia demenziale d’ambientazione scolastica, il cui titolo originale ne evidenzia l’ ispirazione da National Lampoon, rivista che negli anni ‘70 si abbeverava alla fonte del pop e della contro-cultura: la citata location, terreno fertile, cinematograficamente e non solo, per delineare la classica analisi sociologica generazionale, la voglia di rinnovamento, il disagio giovanile, la ribellione al sistema, qui diviene scenario ideale per rappresentare un clima di goliardica baraonda e sfrenata libertà, anche sessuale.
L’insofferenza verso le istituzioni si risolve nel poter perpetrare liberamente l’arte dello sberleffo e dello sghignazzo, in un contesto comunque prossimo a profondi cambiamenti sociali (rappresentati dall’emblematica figura del professor Jennings – Donald Sutherland). Giocando sui contrasti con amabili sfottò (la solenne musica iniziale, Elmer Bernstein, le didascalie finali stile American Graffiti, George Lucas, ‘73), Landis usa una sceneggiatura a tratti scricchiolante (Harold Ramis, che si ispirò allegramente ai suoi ricordi universitari, Douglas Kenney, Chris Miller) come traccia, puntando sulle prestazioni attoriali, Belushi in primo luogo: il suo Bluto è un compendio di tanti tipi di comicità, in particolare quella propria delle vecchie comiche (forte mimica, ammiccamenti verso la mdp come Oliver Hardy, saltelli o scatti improvvisi), estremamente distruttiva verso tutto ciò che lo circonda, mantenendo però un’ incredibile purezza di fondo, la stessa che pervade tuttora il film e che ne fa la sua forza essenziale, anche nei confronti di realizzazioni simili che si sono succedute sino ad oggi, ben più sbracate, in cui la volgarità appare spesso fine a se stessa e per lo più slegata dalla narrazione.