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Ricordo di Leda Colombini (1929-2011)

Creato il 16 dicembre 2011 da Fabry2010

Pubblicato da eziotarantino su dicembre 16, 2011

di Ezio Tarantino

Ricordo di Leda Colombini (1929-2011)
La ragazza lo vide arrivare in fondo al viottolo nella campagna, poco fuori Fabbrico. Andava in bicicletta. Sul tubolare portava la donna che stava per sposare, una donna ricca. L’uomo era suo padre, e il padre delle sue due sorelle più piccole: era il figlio del padrone del podere dove, come salariato, come bifolco (addetto al bestiame) lavorava il padre di sua madre Iride, e per questo non era e non sarebbe mai potuto diventare suo marito; per di più Iride aveva già un’altra figlia da una relazione, precocissima, con un altro uomo. Ma Iride gli voleva bene, lo amava. Per questo la ragazza si piantò in mezzo al sentiero e non lo fece passare. “Chi sei? Cosa vuoi?” le disse l’uomo. Il fatto che si sarebbe sposato con un’altra e che la madre, quando l’aveva saputo, aveva pianto, l’aveva riempita di rabbia. Per questo quando l’aveva visto arrivare, di lontano, sulla bicicletta, con quella donna incastonata fra le braccia protese, lo aveva fermato. “Chi sono? Cosa voglio?” L’uomo la guardò all’improvviso come intimidito, e lei cominciò a riempirlo di pugni. Un granarola di pugni. Lui abbassò la testa  e le spalle sul manubrio e si prese i pugni, dal primo all’ultimo, senza dire una parola. Poi si sistemò sui pedali, aiutò la signora non ancora sua moglie e risalire sulla bici e si allontanò senza voltarsi.

La ragazza si chiamava Leda. Leda Colombini, e racconta questo episodio nel bellissimo libro di Francesco Piva, Storia di Leda. Da bracciante a dirigente di partito, edizione Franco  Angeli, 2009.

Leda era nata nel 1929, figlia di una contadina di Fabbrico, nella bassa reggiana, terra di socialisti e di braccianti, di povertà, fame e voglia di riscatto.

Andò a scuola, imparò a leggere e a scrivere, anche se di dovette fermare alla  terza elementare, perché c’era bisogno anche di una bambina nei campi, per tirare avanti. Sin da piccola, appena imparato a leggere, si appassionò ai romanzi rosa e d’avventura, come Maria la fata della foresta o I tre moschettieri, i libri che trovava nella biblioteca comunale. Li leggeva la sera, di nascosto della madre che non voleva che si consumasse il petrolio della lampada, e poi il giorno dopo li raccontava alle contadine nei campi: “Leda, hai un’altra puntata? Tu ti metti in mezzo, non preoccuparti di zappare, tu racconta, ci pensiamo noi a zappare”.

La guerra mise Leda a contatto con i partigiani, e in particolare con gruppi di donne partigiane (i “Gruppi di difesa della donna”).
Terminata la guerra ricominciò a lavorare e messa a diretto contatto con le ingiustizie sociali e discriminanti nei confronti delle donne, iniziò giovanissima a imporsi per la tutela dei diritti, il rispetto della dignità, del salario, delle condizioni di lavoro. In quegli anni, a parità di lavoro le donne percepivano il cinquanta percento di meno dei maschi. Quando non venivano pagate in natura (un litro d’olio, una cassa di pomodori, o una cesta di olive). Non nel medioevo, o nell’Ottocento. Nel 1953. In Italia.

Iniziò l’attività sindacale nella Federbraccianti, poi divenne attivista nell’UDI, Unione delle donne italiane, dove divenne amica di Nilde Iotti, poi nel Partito Comunista. Con incarichi di sempre maggior responsabilità, malgrado la giovanissima età.  Su di lei il partito investì. Corsi di formazione per quadri del partito prima a Milano, poi nella “mitica” scuola delle Frattocchie.

Ma neppure al partito Leda si sentì di fare mai sconti: quella contro il conformismo moralistico dei maschi del PCI fu un’altra delle battaglie condotte in difesa della promozione sociale e culturale delle donne.

L’impegno sindacale la portò fra le mondine del Piemonte, poi nelle Puglie e in Sicilia. Infaticabile e appassionata, Leda organizzava gli scioperi, coinvolgeva le lavoratrici nelle vertenze, puntava dritto al risultato. Sapeva coniugare benissimo il principio della scuola del partito: sapere e saper fare.

La vita l’ha poi portata poi a sedere nei banchi della Camera dei deputati, per due legislature, e rivestire incarichi di alta responsabilità: fu assessore alla Regione Lazio, alle politiche sociali e per un breve periodo all’urbanistica.

Gli ultimi anni della sua vita li ha spesi a favore della condizione delle detenute, e in particolare dei loro figli più piccoli e già condannati a vivere dietro le sbarre. Una battaglia di civiltà e di umanità che l’ha portata dentro le carceri, a Rebibbia, specialmente.

Forse a molti di voi il nome di Leda Colombini non dirà molto.
Neppure io conoscevo la sua storia. Per me Leda era semplicemente la mamma di un caro amico. Schiva, dolce, nascondeva con il candore di una nonna di tre nipotine la determinazione implacabile con cui ha affrontato e continuava ad affrontare a le battaglie politiche. Mi è dispiaciuto non aver potuto ascoltare direttamente dalla sua voce la storia della sua vita.
Meglio di me potrebbero parlare di Leda i suoi amici dell’associazione A Roma Insieme, con la quale lavorava instancabile, fino all’ultimo giorno.
E meglio ancora potranno raccontare di lei i bambini reclusi a Rebibbia con le loro madri che tutti i sabati di tutte le settimane dell’anno tirava fuori dal carcere, faceva salire su un pulmino messo a disposizione dall’Atac e portava in giro per Roma. D’estate li portava a vedere il mare.

L’ictus l’ha colta a Regina Coeli, ultima tappa di un impegno esemplare, antico, coerente, umile e deciso a non lasciare indietro niente e nessuno. Perché la politica com’era una volta era una cosa da fare stando vicini, con generosità, impegno, studio, tenacia, passione, follia, amore. Era politica. E Leda, semplicemente, l’ha fatta dall’inizio alla fine.

Su Leda sono usciti in questi giorni moltissimi contributi. Chi fosse interessato può cominciare a dare un’occhiata qui, e in particolare una testimonianza dell’addio a Leda, tenuto nel Teatro del Carcere di Rebibbia.


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