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Rientro dei Cervelli: il Dramma di 23 Giovani Scienziati

Da Arturo Robertazzi - @artnite @ArtNite

ValigiaGood

L’ultima volta che ne ho parlato è stato un paio di anni fa circa, per rispondere alle sciocchezze raccontate dall’allora Ministro della Salute che aveva detto: “Oggi in Italia non abbiamo un’emorragia di cervelli, ma una fisiologica scelta dell’estero per i ricercatori”. L’articolo fu pubblicato da Italians e scatenò una marea di email nella mia inbox. Ecco, oggi ritorno a parlare della “fuga dei cervelli” dopo aver letto un articolo su Repubblica il cui titolo è per una volta chiarissimo: Cervelli in fuga, il flop dell’operazione rientro: “Illusi dall’Italia: dovremo emigrare di nuovo”.

Non siamo Cervelli in Fuga, siamo emigranti

Innanzitutto, mi devo togliere un sassolino dalla scarpa. Questa retorica del “cervello in fuga” mi infastidisce non poco. Perché ridimensiona la catastrofe, addolcisce la pillola, e sembra quasi che per noi, siccome siamo laureati e dottorati e più, la vita all’estero sia una pacchia. Ecco non è – necessariemente – così.

Io sono tra i “fortunati”, perché la mia è stata sempre una scelta: sono andato via non perché non mi piacesse l’Italia, ma perché volevo esplorare quello che c’era fuori. È stato così per il mio periodo di studio in Spagna, per i tre anni di dottorato in Gran Bretagna. Forse la questione è diversa per la mia partenza, ormai quattro anni fa, per la Germania. Quella è stata anche una scelta politica. In ogni caso, non mi sono mai sentito costretto a fuggire.

In questi anni, invece, ne ho conosciute di persone che ogni giorno non hanno altra scelta se non quella di ingoiare l’amaro di una vita straniera perché la vita in Italia per loro è impossibile. Avranno una valigia in pelle e non di cartone, ma le dinamiche di chi non si riesce ad adattare alla vita all’estero, perché semplicemente non vuole, perché costretto a essere lì dalla circostanze, sono le stesse per chi ha tre lauree alla Bocconi e per chi lavora la terra.

Il programma “Rientro dei Cervelli”

Tra il 2009 e il 2010, in occasione dei cento anni di Rita Levi Montalcini, il governo lancia un programma, intitolato alla scienziata premio nobel, per richiamare i giovani ricercatori italiani che si trovano all’estero. Il programma è molto vantaggioso economicamente, assicura sei anni di contratto (3+3), con la possibilità di essere assunti come professori da un’università italiana a fine periodo.

Il flop: la lettera dei ritornati

È successo che dal 2009 ad oggi solo 23 scienziati hanno usufruito del programma, perché di fatto solo il bando del primo anno ha funzionato, poi, non si capisce bene cosa sia successo. Ma forse si capisce benissimo: non ci sono soldi.

Vabbè, poco male uno dice: almeno un anno ha funzionato. Beh, ha funzionato è una parola grossa. Dopo due anni e mezzo, i ricercatori non sanno cosa accadrà nell’immediato futuro, come scrivono sul loro blog:

Eccoci qui, in un limbo che nel nostro piccolo ci porterebbe a essere disoccupati nel giro di un anno e mezzo e, visto in una prospettiva più ampia, comporterebbe uno spreco ingiustificabile di soldi pubblici. Che prospettiva esiste per noi e per gli altri cervelli rientrati o rientranti?

Del mistero del programma Montalcini ne ha parlato un mesetto fa anche il Sole 24 Ore, che ha provato a ricostruire la vita complicata dei finanziamenti perduti. Ma quello che trovo doloroso, in una Italia sempre più malconcia, è la sorte di quei 23 scienziati che hanno lasciato università prestigiose e laboratori all’avanguardia per impelagarsi nella palude dell’università italiana.

Alcuni hanno detto loro nei commenti, non con poco sarcasmo, che la loro colpa è di essersi fatti abbindolare dal governo italiano. Se ci pensate, l’affermazione è parecchio drammatica. Anche perché quei 23 sono uomini e donne che sono “tornati dopo essere scappati“. E che, se le cose rimangono così, scapperanno di nuovo.

 

 



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