Ore 8-9: presenza di drappelli di militi storici in Bra per richiamare l'attenzione, con qualche sparo a salve di fucileria. Alcuni militi si posizioneranno inoltre sui merli dell'orologio della Bra e innanzi ai partecipanti alla gara podistica della StraVerona, mentre un gazebo in piazza, affiancato a quello della StraVerona, servirà da punto d'informazione e di propaganda della manifestazione presso la popolazione.
Ore 9 in punto, Corso Porta Nuova: via alla gara della StraVerona. Il segnale del via sarà dato dallo sparo a salve di un cannone veneziano, posto sul Corso davanti ai partecipanti, con un colpo in direzione di Porta Nuova. Contestuali spari a salve da parte di una squadra di militi storici dal camminamento dei merli della Bra, sopra l'orologio
Ore 9,30-11,30 Piazza Bra e Via Roma (nello slargo antistante Castelvecchio): I militi storici stazioneranno in Bra, effettuando ogni tanto uno sparo a salve di cannone e di fucileria per richiamare la popolazione e i turisti alla rievocazione della battaglia che avrà luogo a fine mattinata, mentre i partecipanti alla StraVerona giungono alla spicciolata all'arrivo, collocato presso l'ala dell'arena. Inoltre alle 10.30, nello slargo antistante Castelvecchio due drappelli (francesi da un lato e austro-veneti dall'altro) si fronteggeranno, scambiandosi colpi di moschetto e combattendo corpo a corpo.Ore 11.30-12,45 Piazza Bra - Rievocazione della battaglia in Piazza Bra fra austro-veneti e veronesi da una parte e rivoluzionari francesi dall'altra.
Preceduta dalla cerimonia dell'alzabandiera marciano e veronese presso l'antico monumento a Venezia (odierno a Vittorio Emanuele II) con contestuale esecuzione di una marcia militare del tempo della Serenissima composta da Antonio Vivaldi e con distribuzione di coccarde azzurro-oro a tutti gl'intervenuti; si ricostruirà quindi la battaglia che ebbe storicamente luogo proprio qui il 17 aprile 1797 tra soldati transalpini e truppe austro-venete e popolani veronesi.
Teatro della rievocazione sarà lo spazio ricompreso fra la Gran Guardia (temporaneamente chiusa al traffico quel giorno, dalle ore 6 alle ore 13), i giardini della Bra e tutta la parte della piazza antistante il Liston.
In caso di maltempo verranno soltanto sparate a salve alcune scariche di fucileria dal colonnato del Municipio in direzione di Piazza Bra, prima di congedare gl'intervenuti.el pomeriggio, alle ore 16.30 circa, nello slargo antistante Castelvecchio per una mezz'ora due drappelli (francesi da un lato e austro-veneti dall'altro) si affronteranno, scambiandosi colpi di moschetto e combattendo corpo a corpo.
Nel pomeriggio, dalle ore 17.30 alle ore 18.30 i vari gruppi che interverranno alla battaglia presenzieranno per le vie del centro cittadino e in Piazza Bra spiegheranno alla popolazione divise e reparti storici intervenuti. La presentazione delle truppe ai turisti e al pubblico, con casse e microfono, avverrà innanzi al Municipio, e gli spari a salve di cannoni e moschetti avranno luogo fra le ore 17 e le 18.30.
Programma in formato PDFCol nome di Pasque Veronesi, per analogia con i Vespri Siciliani, fu chiamata l'insurrezione generale della città di Verona e del suo contado, scoppiata il 17 aprile 1797, lunedì dell'Angelo. Tra le innumerevoli insorgenze che dal 1796 al 1814 costellarono l'Italia e l'Europa occupate da Bonaparte e che esprimevano il rigetto da parte delle popolazioni dei falsi princìpi dellarivoluzione francese, imposti con le baionette, la sollevazione di Verona è certamente la più importante in Italia, dopo la Crociata della Santa Fede del 1799, con la quale il Cardinale Fabrizio Ruffo di Calabria e i contadini del Mezzogiorno riconquistarono un intero Regno ai Borboni di Napoli.
1 - Verona e la Serenissima prima della Rivoluzione
Dopo aver ucciso il proprio legittimo Sovrano, Luigi XVI, sterminata la sua famiglia e fatto perire nel carcere della Torre del Tempio il Delfino all'età di dieci anni, abbattuta la monarchia, perseguitati il culto e la religione cattolica, la Francia rivoluzionaria, già ubriaca dei massacri del Terrore, si avventura in una serie di guerre con le altre Potenze europee. Le orde rivoluzionarie, guidate dalle sette anticlericali più tenebrose, prima fra tutte dalla massoneria, sono ansiose di esportare in tutto il mondo l'odio contro la Chiesa e di rovesciare le tradizionali Istituzioni sacrali, sia civili che religiose, alle quali i popoli erano attaccatissimi.
Gli Stati italiani e la Repubblica aristocratica di Venezia conoscevano purtroppo allora una triste decadenza morale: gran parte del patriziato, ombra di quello che aveva affrontato e vinto tante volte il Turco, era infiltrato dai principi libertari e libertini della Rivoluzione Francese; indifferente alla religione, imborghesito, disinteressato del bene pubblico, spessissimo affiliato a logge massoniche, nelle quali si contavano moltissimi professionisti ed anche sacerdoti e vescovi. Solo il popolo e buona parte del clero (specie basso) erano rimasti refrattari alle idee illuministe e secolarizzanti che provenivano d'Oltralpe: la loro commovente fedeltà all'ordine tradizionale, civile e religioso, ricevuto quale preziosa eredità dai propri padri e da essi difeso anche a costo della vita (si contano a centinaia di migliaia gl'insorgenti caduti durante la parabola napoleonica dal 1796 al 1814) rifulge nelle sollevazioni controrivoluzionarie che costellarono da un capo all'altro la Penisola e delle quali i manuali scolastici di storia non fanno parola. Nel sostanziale tradimento del proprio glorioso passato da parte delle classi dirigenti di allora sta la spiegazione della dissoluzione della millenaria, gloriosa Repubblica di Venezia.
Verona, tuttavia, si discosta alquanto da questo quadro poco confortante. La città, sul finire del secolo XVIII, conta all'incirca 50.000 anime, che raggiungono le 230.000 comprendendovi anche la provincia. Un moderato benessere economico è diffuso anche nelle classi sociali meno abbienti, favorito da quasi cinquant'anni ininterrotti di pace. Il patriziato veronese, proprietario di cospicui fondi nel contado, migliora le condizioni di vita delle campagne, mentre in città l'antica e celebre industria della seta è ricercata e produce soprattutto per l'estero. L'amplissima autonomia amministrativa e giurisdizionale di cui gode Verona e la irrisoria pressione fiscale non fanno che accrescere il filiale affetto delle popolazioni verso la Serenissima. La concordia tra le varie classi sociali e lo spirito religioso, straordinariamente radicato in tutti i ceti, completano il quadro di una società ordinata e pacifica, naturalmente ostile alle inaudite idee che dalla Francia giacobina stanno contagiando anche l'Italia Settentrionale. Anche a Verona, infatti, la massoneria - principale istigatrice della sovversione - cerca aderenti, ma gli affiliati sono pochi e presto l'attenta e discreta vigilanza degli Inquisitori di Stato - forse l'unica magistratura veneziana ancora efficiente ed all'altezza del suo glorioso passato - ne scopre le trame tenebrose, smantellando le logge e disperdendone i membri. La pressoché assoluta partecipazione popolare alle pratiche cattoliche, un clero ancora immune dall'infezione rivoluzionaria, la presenza di numerosissime confraternite laiche in tutto il territorio impediscono l'affermarsi dell'eresia giansenista, i progressisti di allora, fautrice delle idee sovversive di Francia.
Proprio pochi anni prima delle Pasque Veronesi ricevono la loro formazione religiosa giganti della fede cattolica quali San Gaspare Bertoni, futuro fondatore degli Stimmatini, il Servo di Dio Don Pietro Leonardi, il Beato Carlo Steeb e la marchesa Santa Maddalena di Canossa, appartenente ad una delle più antiche ed aristocratiche famiglie cittadine, che fonderà nel secolo a venire l'Ordine delle Figlie della Carità, mentre a reggere la Cattedra di San Zeno si trova già dal 1790 il patrizio veneziano ex-gesuita Gianandrea Avogadro, profondamente anti-giansenista e vivace oppositore della dissolutrice filosofia sociale illuminista. Insomma, come riferiva alla Dominante il 25 gennaio 1795 il marchese Francesco Agdollo, un agente segreto inviato a Verona per controllare e relazionare sulla presenza tra le mura scaligere del Conte di Lilla, futuro Luigi XVIII Re di Francia: "Nessuna notizia da questa città, il buon ordine, una senza simile popolazione fa apparire essere questa la sede della tranquillità".
2 - L'invasione napoleonica
Nel marzo del 1796, Napoleone Buonaparte, un oscuro ufficiale còrso (favorito dell'amante di Barras, allora capo del Direttorio francese) già distintosi qualche mese prima nel cannoneggiamento della folla parigina, giunge al comando dell'armata d'Italia, incaricato di aprire un fronte secondario, rispetto a quello del Reno, contro l'Austria Imperiale.
Le insospettate doti del Bonaparte, la sua spregiudicata condotta militare (disprezzo della parola data e delle regole cavalleresche che fino ad allora disciplinavano la guerra, ricorso all'oro pur di corrompere i generali avversari, saccheggio sistematico dei territori occupati anche se neutrali, mantenimento e alloggiamento delle truppe a spese delle popolazioni civili trattate come nemiche, oppressione dei vinti) un servizio di spionaggio assai più efficiente e remunerato di quello dell'avversario, l'aiuto potente della massoneria e delle altre sette segrete, il ricorso agli stupefacenti (la famosa cantaride) per galvanizzare i soldati di leva, quando il fanatismo dei commissari rivoluzionari incaricati di sorvegliarli da solo non bastava e tanta fortuna, spiegano i successi mietuti dall'armata fra il 1796 ed il 1797.
Occupati il Piemonte e la Lombardia austriaca, col pretesto d'inseguire gl'imperiali in fuga, Bonaparte invade anche i territori neutrali della Serenissima Repubblica di Venezia, che aveva rifiutato le ripetute offerte di alleanza militare sia dell'uno che dell'altro belligerante. Il 1° giugno 1796 Napoleone entra in Verona con le micce accese ai cannoni, nell'ostilità generale. Subito i suoi si distinguono in ruberie ed empietà, infischiandosene della neutralità veneta ed impossessandosi delle fortezze e del relativo armamento.
Vinti gl'imperiali a Rivoli, nel marzo 1797 il piano di sovvertimento della Serenissima si realizza: Bonaparte spinge un pugno di cospiratori bergamaschi e bresciani ad un colpo di Stato, per staccare Bergamo e Brescia dalla Serenissima, le quali si proclamano repubbliche indipendenti, mentre sono in realtà soltanto dei fantocci protetti dalle baionette d'Oltralpe. Crema è rivoluzionata a tradimento dagli stessi francesi. Tutta la Lombardia veneta è in fiamme. Salò è contesa da giacobini e abitanti delle vallate, incondizionatamente fedeli al leone di San Marco, i quali, guidati da un eroico sacerdote, Don Andrea Filippi, hanno alla fine la meglio e chiedono soccorso ai veronesi. I giacobini sono però decisi non solo a riprendere Salò, ma anche a marciare su Verona.
Per non essere a sua volta rivoluzionata con la violenza o col tradimento, Verona fidelis dà subito prova della sua lealtà al legittimo governo, chiedendo al Senato Veneto di potersi armare e difendere dai giacobini bergamaschi e bresciani. Quarantamila veronesi in armi, fra cui numerosi sono i contadini delle cernide, guidati dal giovane generale Antonio Maffei, si schierano a presidiare il confine col bresciano, liberano diversi abitati e giungono addirittura ad assediare Brescia; la coccarda giallo-azzurra coi colori cittadini è il loro emblema. Il vescovo di Verona,Mons. Gianandrea Avogadro, modello di carità per tutti i combattenti controrivoluzionari, dà ordine di fondere le argenterie delle chiese per la salvezza della patria. In città, tra l'imbarazzo e l'apprensione dei francesi barricati nei castelli, è tutto un pulire spade e lucidare moschetti, mentre compaiono ad ogni angolo di strada cartelli e scritte di Viva San Marco! Tutte le porte sono sorvegliate a vista dalla Guardia Nobile, una milizia volontaria appositamente costituita dalle autorità veronesi, a testimonianza di una sfiducia ormai diffusa verso le forze armate nazionali, vincolate dal Senato al rispetto della scellerata politica di neutralità disarmata. Così, pur di tenere fede a tale politica, la Repubblica, fedele alla propria neutralità, proibisce ai veronesi qualsiasi atto di ostilità contro i francesi, i quali, da Milano, da Mantova e da Ferrara-Padova si mettono intanto in marcia contro l'esercito veneto-scaligero del Maffei e contro la città.
3 -Le Pasque Veronesi
Il 17 aprile 1797, lunedì dopo Pasqua, le continue provocazioni francesi fanno sorgere i primi incidenti. Quando, alle 17, durante i vespri, le batterie dei castelli sovrastanti la città e che sono in mano nemica, iniziano a cannoneggiarla, i veronesi esasperati insorgono come un sol uomo al grido di Viva San Marco!, mentre le campane a martello avvisano anche il contado che la sollevazione generale è iniziata.
Per nove giorni si combatte casa per casa; tutte le porte sono liberate; assaltate le piazzeforti; inviate richieste d'aiuto a Venezia, nel cui nome e nel cui interesse si battaglia e si muore e all'Impero, che però proprio in quei giorni aveva siglato con Bonaparte i preliminari di pace a Leoben. Il popolo, inesperto nel maneggio dei cannoni, è soccorso da sei artiglieri imperiali, liberati dalla prigionia di guerra. Si assedia Castelvecchio. Trasportati i pezzi da fuoco sui colli di San Mattia e di San Leonardo, il popolo cannoneggia dall'alto i rivoluzionari francesi asserragliati dentro Castel San Pietro e Castel San Felice: altri duecento soldati imperiali combattono confusi nella mischia.
A capitanare i veronesi sono il Conte Francesco degli Emilei ed il Conte Augusto Verità. A migliaia i contadini si precipitano a soccorrere Verona. Giungono per primi gli abitanti della Valpolicella, che si offre di condurre tutti i suoi uomini; scendono i montanari dalla Lessinia; altre colonne di volontari in armi arrivano dalla bassa e dall'est veronese.
Il popolo avanza palmo a palmo verso i forti, respinge ogni tentativo di sortita da parte del nemico e tratta da traditore chiunque voglia patteggiare con lui.
L'infido generale Beaupoil, che dai castelli sopra la città, la batteva con le artiglierie, disceso a parlamentare, ben presto perde tutta la sua tracotanza, piagnucola e si vede salvata la vita dal Marchese Giona, che lo sottrae al linciaggio della folla esasperata. Gli ebrei del ghetto parteggiano senza esitazione per i nemici, offrendo loro ricetto e armi. Dalla perquisizione del ghetto saltano fuori in effetti tre casse di esplosivo ed altro materiale bellico, da essi occultato, per metterlo a disposizione dei rivoluzionari francesi.
Castelvecchio alza bandiera bianca: viene ordinato il cessate il fuoco, ma i rivoluzionari francesi, scorgendo che gli assedianti, imprudentemente, si erano troppo avvicinati al castello, aperte le porte, ne approfittano per scaricare a tradimento contro di loro un cannone a mitraglia, facendone strage. Una pattuglia imperiale, che reca purtroppo la notizia dei preliminari di pace, è accolta in delirio dalla popolazione che la crede invece un'avanguardia degl'Imperiali, prossimi a liberare la città dagli odiati giacobini. A Pescantina l'eroica resistenza degli abitanti blocca l'avanzata di una colonna francese, impedendole di traghettare l'Adige, eroismo che diciannove pescantinesi, fra cui donne e bambini, pagano con la vita, moschettati o arsi vivi nelle loro case.
A Venezia, intanto, Emilei non ottiene gli aiuti sperati e deve rientrare a mani vuote. Sul lago il generale Maffei, attaccato dagli eserciti francesi provenienti da Milano, deve arretrare, fedele alla consegna del Senato di non scontrarsi con essi, ma a San Massimo e a Santa Lucia il 20 aprile s'ingaggia battaglia aperta; lo scontro volge in un primo tempo a vantaggio dei soldati veneti ed è quella l'ultima volta che la vittoria arride a San Marco, ma poi, sopraffatti dal numero, essi sono costretti a ritirarsi tra le mura.
Alla fine di nove giorni di combattimenti i francesi contano a centinaia le vittime lasciate sul campo in quella che è diventata, per l'esercito più potente d'Europa, una cocente sconfitta militare. Poco più di un centinaio sono i caduti veronesi. Circa 2.400 sono i prigionieri francesi catturati, dei quali 500 sono militari, altri 900 appartengono al personale civile dell'esercito napoleonico assieme ai loro familiari: tutti erano stati condotti in Piazza dei Signori, presso il palazzo dei rappresentanti veneti a Verona. Altri 1.000, infine, degenti negli ospedali cittadini, sono ivi piantonati dagli stessi veronesi per preservarli da ogni vendetta.
La sorte della città, privata di ogni soccorso esterno, è tuttavia segnata; ma il popolo non vuole ancora arrendersi. In provincia si susseguono le esecuzioni sommarie: in località Ca' dei Capri, presso San Massimo, cade fucilato sotto il piombo francese un giovanissimo sacerdote, Don Giuseppe Malenza, che guidava un gruppo d'insorgenti. Dalle alture i giacobini veronesi, traditori della loro patria, suonano fanfare militari per l'imminente crollo dell'aborrita Verona. Infine, assediata da cinque eserciti, bombardata giorno e notte, tradita dai Provveditori Veneti che l'abbandonano per ben due volte pur di non violare la chimerica neutralità, Verona capitola il 25 aprile 1797, giorno di San Marco, dichiarando al tempo stesso, con un gesto simbolico che sottolinea il disprezzo per l'ignavia ed il tradimento dei veneziani e che la eleva a rango di capitale, cessato il dominio veneto su di essa.
4 - La vendetta rivoluzionaria e la fine della Serenissima
Disarmato il popolo, resi inservibili i cannoni, presi in ostaggio i sedici più eminenti concittadini (fra cui il vescovo, l'Emilei, Verità e tutte le più alte cariche) il 27 aprile i francesi rientrano in Verona. Per prima cosa saccheggiano il Monte di Pietà, la banca dei poveri. Vengono imposte contribuzioni enormi, depredate le opere d'arte, mentre una commissione militare è incaricata di far deportare alla Guyana i cinquanta colpevoli principali dell'insurrezione. I traditori veronesi, peggiori dei loro padroni, vorrebbero mutare nome a Verona (ribattezzandola Egalitopoli o Città dell'Eguaglianza) essendosi macchiata dell'onta di essersi ribellata a cotanti liberatori e vorrebbero punire con una pubblica decapitazione sul corso, tutti i capi famiglia protagonisti della gloriosa difesa della propria città e del proprio legittimo ed amato governo. Sono gli stessi francesi, per non aggravare la tensione, ad impedire la consumazione del massacro.
Ma la vendetta non si fa attendere: il 6 maggio 1797 sono arrestati nella notte e mandati a morire tra il 16 maggio, l'8 e il 18 giugno, dopo un processo politico farsa tenutosi a Palazzo RidolfiDa Lisca, attuale sede del Liceo Scientifico Messedaglia, Giovanni Battista Malenza (fratello di Giuseppe) del controspionaggio veneto, al quale i giacobini l'avevano da tempo giurata e che era stato uno dei capi dell'insurrezione cittadina, i Conti Emilei e Verità le cui case sono abbandonate al saccheggio ed il vecchio frate cappuccino Luigi Maria da Verona (al secolo Domenico Frangini) morto in concetto di santità. Disgustato dall'empietà dei sanculotti, in una lettera ad un suo confratello, intercettata, li aveva definiti peggiori dei cannibali, perché questi ultimi avevano levate le mani solo contro gli uomini, mentre i repubblicani francesi le avevano levate contro Dio. Rifiutatosi di disconoscere la paternità della lettera o di farsi passare per pazzo o per ubriaco, Padre Frangini affronta il martirio, raggiante, al suono scordato dei tamburi. Anche i popolani Pietro Sauro, Andrea Pomari, Stefano Lanzetta e Agostino Bianchi subiscono analoga sorte: fucilati tutti a destra di Porta Nuova, guardandola dall'esterno.
Clamoroso anche il difetto di giurisdizione del tribunale militare rivoluzionario: esso condanna a morte gl'insorgenti veronesi, in forza di una legge criminale francese che punisce i reati commessi contro l'esercito repubblicano in territori di Stati in guerra con la Francia, la quale era ancora formalmente in pace con la neutrale Serenissima.
Non appena rioccupata la città, i rivoluzionari francesi decidono l'immediata deportazione in massa in Francia, via Cisalpina e quindi via Milano, dei 2.500 uomini della guarnigione veneta che aveva difeso la città ed in particolare del Reggimento di Fanteria Treviso. Per accoglierli, la patria dei liberatori dell'umanità istituisce il primo universo concentrazionario moderno.
Da quei campi di prigionia e di sterminio, tornarono meno della metà, dopo la pace di Campoformio, rimpatriati, sul finire di quel terribile 1797 e nei mesi successivi, attraverso la frontiera del Reno, passando per i territori amici dell'Impero. La maggior parte di quei militi, colpevoli soltanto di aver fatto il proprio dovere, morì di fame o di stenti in Francia; altri ancora sulle strade del Brennero o del Tarvisio, sulla via di casa.
Nei mesi successivi giacobini veronesi e rivoluzionari transalpini si sfogano ad elevare alberi della libertà e piramidi, a scoronare e depredare in Cattedrale la venerata immagine della Madonna del Popolo (alla quale viene negato il titolo troppo aristocratico di Regina, declassandola a cittadina Madonna) e ad altri sacrilegi, a lanciare spropositi dalla sala di pubblica istruzione, proponendo ad esempio di bruciare tutti i confessionali, di far mitragliare in Stradone San Fermo gli ecclesiastici o di distruggere le Arche Scaligere, perché innalzate sotto un regime anti-democratico. I leoni di San Marco vengono abbattuti, gli stemmi nobiliari e i rispettivi titoli proibiti, sotto pena di pesanti multe per chi soltanto osi pronunciarli. Addirittura, per giustificarsi di aver aggredito una città ed una Repubblica neutrale ed in pace con loro, rivoluzionari transalpini e giacobini veronesi rovesciano le loro responsabilità sulle vittime, inventando la favola del massacro di Verona e facendo passare l'insurrezione di una città stanca della tirannia dei suoi pretesi liberatori, come un eccidio di massa, programmato e freddamente realizzato, di soldati francesi malati o feriti. A questa menzogna sono ispirate quasi tutte le stampe dell'epoca relative alla sollevazione di Verona.
Proclamate le elezioni, i giacobini, giunti al potere solo grazie alla forza francese d'occupazione, speravano di vedere legittimata la loro usurpazione. Quale delusione, quale rabbiosa reazione quando si vedono sconfitti in quasi tutti i collegi dagli appartenenti all'antica classe nobiliare! Naturalmente, il verdetto popolare non viene rispettato dai democratizzatori; il generale francese, al quale spetta l'ultima parola, estromette a forza gran parte degli eletti, giudicati troppo legati all'antico regime e ripesca i perdenti. Il vescovo viene infine di nuovo arrestato: la prima volta, non avendo voluto benedire l'albero della libertà, aveva scampato per un solo voto il plotone di esecuzione; adesso, pochi giorni prima che i rivoluzionari d'Oltralpe evacuino definitivamente la città, questi lo vogliono costringere con la prigione a concedere il divorzio ad un ufficiale francese.
Mentre Verona geme sotto l'arrogante sferza della Rivoluzione, le autorità veneziane consumano l'ultimo tradimento della Repubblica, rinunziando a difendersi, pur non avendo Bonapartealcun naviglio per conquistare Venezia, alla quale aveva frattanto dichiarato guerra. Il 12 maggio 1797 lo stesso Doge Ludovico Manin propone al Maggior Consiglio, per le cui deliberazioni mancava quel giorno oltre tutto il numero legale, la devoluzione del potere al popolo e la democratizzazione rivoluzionaria. Le uniche autorità che si erano condotte con onore,gl'Inquisitori di Stato e l'eroico capitano Domenico Pizzamano, il quale, obbedendo agli ordini, aveva bombardato e costretto alla resa un vascello nemico insinuatosi in laguna, sono tratti in arresto, come chiesto da Bonaparte e dai suoi. Per ironia della sorte, quella nave francese si chiamava Il liberatore d'Italia. Non soltanto, ma un tumulto popolare antifrancese e in difesa della Serenissima che scoppia a Rialto, è soffocato nel sangue dalle stesse autorità venete.
Dopo mille anni di splendore e d'incontrastato dominio del leone alato di San Marco, durante i quali il glorioso gonfalone della Serenissima era sventolato su tutti i mari, temuto e rispettato perfino dal Turco, l'antica città dei Dogi è consegnata ad un nugolo di municipalisti intriganti e parolai, che piantano l'albero della libertà in San Marco, minacciano la pena di morte a chiunque osi gridare Viva San Marco! e che usurperanno il potere fino all'ingresso, trionfale, degl'imperiali in città, nel gennaio 1798.
5 -La Restaurazione
Dopo diciotto mesi d'incessanti preghiere e di candele accese giorno e notte innanzi all'altare della Madonna del Popolo, i veronesi sono esauditi e ottengono la grazia di essere liberati dalla barbarie rivoluzionaria. Il 21 gennaio 1798, esattamente nel quinto anniversario del martirio di Luigi XVI, Re Cristianissimo di Francia, le divisioni imperiali comandate dal Barone Wilhelmvon Kerpen, da Porta Nuova entrano in formazione di parata in città, accolte da una popolazione in delirio. Nel Te Deum in Cattedrale il vescovo invita magnanimamente ad evitare le vendette, mentre il teatro resta aperto e tutta la città è pavesata a festa ed illuminata in segno di giubilo per quella notte memorabile.
Verona non dimentica i suoi eroi. I corpi senza vita dei tre sfortunati difensori della città (Emilei, Verità e Malenza) come degli altri suppliziati, che erano stati sepolti frettolosamente in una fossa comune nel camposanto della Santissima Trinità, il 6 febbraio 1798 sono dissotterrati ed inumati nelle rispettive tombe di famiglia. E, per decreto del Consiglio Nobiliare cittadino, nella chiesa di San Sebastiano, di giuspatronato della città, il 23 settembre 1799 si tiene una solennissima cerimonia, a cui partecipano tutte le autorità cittadine, vestite a lutto. Per l'occasione vieneeretta un'imponente macchina funebre, fregiata di numerose ed eleganti incisioni che ricordano le principali gesta di quei martiri.
Con l'arrivo delle truppe cesaree, anche l'impavido cappuccino Padre Luigi Maria da Verona, riceve degna sepoltura. Il suo corpo viene estratto incorrotto (se si eccettua la testa, dove era stato offeso dai colpi mortali) con grande sorpresa di tutti, dalla nuda terra nella quale giaceva già da sette mesi. È tumulato nella chiesa dei cappuccini, la quale per ordine di Bonaparte viene in seguito soppressa, abbandonata dai religiosi e trasformata in caserma. Di Padre Luigi Maria nessuno si ricorderà più, fino al 29 marzo 1897, quando, in occasione del primo centenario delle Pasque Veronesi il dotto sacerdote Antonio Pighi ne recupera i resti mortali, che, accompagnati da un numeroso corteo, sono deposti nel Cimitero Monumentale, nell'edicola dei Cappuccini. Era l'8 giugno 1897 e quel giorno correvano cento anni esatti dal suo supplizio.
PASQUE VERONESI: LE MEMORIE DELL'EPOCA
" Per noi finì dunque nel giorno sacro al protettore della Repubblica Veneta, San Marco, la nostra sudditanza a questa moribonda Repubblica, tributandole nell'atto estremo di nostra irreparabile caduta il più cruento sacrifizio che possa mai offrire una suddita fede sull'altar della sovranità. Bell'esempio agli altri popoli d'Italia, anzi a molti altri d'Europa, che, trascinati dal furor di fanatici banditori d'un governo ripugnante alle divine ed umane leggi, come noi [...] precipitati in un baratro d'infiniti guai e miserie, non ci avranno comune quel bel titolo di fedelissimo popolo da remoti tempi acquistatoci". Girolamo De' Medici, Vicende sofferte dalla provincia veronese sul finire del secolo XVIII e nel cominciamento del XIX, ms. 1360, presso la Biblioteca Civica di Verona, II, c. 288.
(1) Francesco Mario Agnoli, Le Pasque Veronesi, Il Cerchio Iniziative Editoriali, Rimini, 1998 pp. 300 circa. Euro 20. Il volume, già richiedibile all'editore (Il Cerchio Iniziative Editoriale - Via dell'Allodola, 8 - 47900 RIMINI - 0541/791570-775977 - Fax 799173 - E-mail: [email protected] oppure al Comitato per la celebrazione delle Pasque Veronesi - Via L. Montano, 1 - 37131 VERONA - Tel. 045/8403819-520859 Fax 045/8345548) è attualmente esaurito.
(2) Francesco Mario Agnoli, I processi delle Pasque Veronesi. Gl'insorti veronesi davanti al tribunale militare rivoluzionario francese (maggio 1797-gennaio 1798), Il Cerchio Iniziative Editoriali, Rimini, 2002, pp. 250 circa. Euro 16,50. Richiedibile come sopra. In appendice le sentenze e le carte processuali inedite, ritrovate a Parigi.
È poi prevista una riedizione accresciuta del primo tomo del volume Le Pasque Veronesi, completata da un secondo tomo, con un saggio di Francesco Mario Agnoli dedicato al culto di Napoleone e per il resto interamente iconografico: il testo aduna quasi mille immagini originali che costituiscono una documentazione straordinaria, di prima mano e in larga misura inedita, delle Insorgenze, delle Pasque Veronesi in ispecie, della caduta della Serenissima e della satira rivoluzionaria e controrivoluzionaria, con speciale menzione iconografica del ridicolo culto della personalità di Bonaparte. Purtroppo questa riedizione con il volume iconografico dedicato all'insorgenza veronese non ha trovato finora attenzione né presso le istituzioni cittadine infette di spirito rivoluzionario, né presso l'assessorato alla cultura e all'identità veneta della Regione.
È altresì prevista la pubblicazione di una collana dei principali testi (diari e memoriali dell'epoca) relativi alle Pasque Veronesi, che giacciono impubblicati e a rischio di andare distrutti per sempre nei fondi di biblioteche o collezioni private. Anche per salvare tali opere, l'appello alle pubbliche Istituzioni è doveroso.
Le Pasque Veronesi furono l'episodio più importante del più vasto movimento delle insorgenze antifrancesi e antigiacobine, che scoppiarono in tutta la penisola italiana dal 1796 al 1814: le più importanti, oltre alle Pasque Veronesi, furono la lotta dell'Armata della Santa Fede che, guidata dal cardinale Ruffo, riuscì nella riconquista delregno di Napoli, le azioni delle bande Viva Maria in Toscana e Liguria, e le vittorie di Andreas Hofer in Trentino eAlto Adige.[3] Questi moti furono numerosi, si trattò quindi di un fenomeno vasto: le stime parlano di almeno 280.000 insorti e 70.000 morti.[4]
Queste rivolte contro la dominazione francese ebbero come principale miccia la politica religiosa francese di ispirazione giacobina, contraria dunque ai valori sentiti come fondamentali nella società italiana di quel periodo.[5]
Antefatti
L'obiettivo di Napoleone, già dalla primavera del 1796, era completare la conquista della ricca Lombardia[6], annettendo le province di Bergamo e Brescia (all'epoca parte della Repubblica di Venezia). In effetti le truppe francesi, inizialmente accolte con l'impegno di una breve sosta, erano già presenti alla fine dell'anno a Brescia e Verona: in tal modo anche se le due città erano ancora sotto il dominio veneto, si crearono le premesse per gli eventi dell'anno successivo. A Verona in particolare i francesi giunsero il 1º giugno 1796, occupando i forti militari e alcuni edifici per il ristoro delle truppe, nonostante la Repubblica Veneta avesse dichiarato la propria neutralità. I rapporti tra la popolazione e i reparti veneti da una parte, e le truppe francesi dall'altra, furono difficili sin dall'inizio per il comportamento più da occupanti che da "ospiti" delle truppe francesi. Bergamo invece resisteva ancora all'attacco francese.
"Democratizzazione" di Bergamo
Alessandro Ottolini, podestà di Bergamo e patriota che aveva offerto 10.000 uomini per la difesa della Nazione Bergamasca,[7] a fine dicembre dovette accettare la richiesta del generale Louis Baraguey d'Hilliers di approntare degli alloggi per le sue truppe all'interno della città, poiché essendo senza soldati non avrebbe potuto resistere alle forze francesi e poiché la neutralità veneta, ovviamente, non consentiva un attacco.
All'arrivo delle milizie francesi Ottolini fece chiudere l'accesso al castello, ma Baraguey d'Hilliers riferì che aveva ricevuto l'ordine di presidiare il castello e la fortezza, e che di conseguenza avrebbe dovuto concedere ai suoi soldati l'ingresso in quegli edifici: come già i podestà di Brescia e Verona, anche Ottolini fu obbligato ad acconsentire. Il generale francese comunque non tolse i vessilli di San Marco, dato che ufficialmente anche questa città permaneva sotto il controllo veneto.
La fase successiva del piano di Napoleone prevedeva il cambiamento di regime in tutta la regione tramite l'affidamento dell'amministrazione ai giacobini lombardi, che avrebbero dovuto successivamente creare una repubblica (che avrebbe compreso i territori sino a Verona, o addirittura sino a Padova) legata alla Francia.[8] Quando l'informazione segreta giunse alle orecchie di Ottolini, questi provvide subito ad informare il provveditore. Francesco Battaia, persona dal carattere esitante nel compiere azioni di forza, gli rispose che doveva assicurarsi che l'informazione fosse veritiera. Ottolini grazie ad una spia riuscì in breve tempo ad avere la conferma delle intenzioni di Napoleone, ma ciononostante Battaia non fece nulla.
L'opera di "democratizzazione" di Bergamo fu iniziata da François Joseph Lefebvre, succeduto a Baraguay d'Hilliers, in quanto i giacobini locali erano troppo pochi. Napoleone ricordò al generale che la democratizzazione doveva apparire volontà della popolazione: il generale, allora, mentre teneva occupato Ottolini, chiamò una rappresentanza di cittadini perché dichiarassero decaduto il governo della Serenissima. Questi protestarono ma furono obbligati a firmare.[9] Ottolini nel contempo aveva richiamato alcune compagnie militari dalla provincia, e questa sua azione venne utilizzata come pretesto per l'occupazione della città. Bergamo diveniva ufficialmente la prima città veneta sottratta al dominio di Venezia, e Ottolini fu obbligato a lasciare la città.
"Democratizzazione" di Brescia
Il passo successivo doveva essere la "democratizzazione" di Brescia. In questo caso, anche se la città era già sotto il parziale controllo francese, l'operazione avrebbe dovuto essere condotta, almeno in apparenza, dai giacobini, dato che nel caso bergamasco l'azione francese era stata troppo evidente. Il 16 marzo colonne di soldati composte in parte da giacobini lombardi e in parte da soldati francesi partirono alla volta di Brescia. Il podestà, Giovanni Alvise Mocenigo, avrebbe voluto portare un attacco alla colonna nemica, ma venne fermato dal Battaia, preoccupato dall'eventuale uso della forza.
Due giorni dopo duecento uomini entrarono a Brescia e, con l'aiuto dei giacobini locali, vinsero le poche resistenze. Il primo provvedimento fu la cacciata di Battaia, che si rifugiò a Verona. Nonostante la mancanza di favore nella popolazione[10], i giacobini riuscirono, con l'aiuto francese, a "democratizzare" il contado, ed il 28 marzo anche la città di Crema. Non riuscirono invece in Val Trompia e soprattutto in Val Sabbia e sulla Riviera occidentale del Garda, che si preparavano a resistere armate contro i francesi e i giacobini della città.
Le insurrezioni e la campagna veronese
Il provveditore Battaia giunse a Verona il 22 marzo, e subito fece riunire il consiglio, al quale parteciparono anche alcuni capi militari (il conte Pompei, Ernesto Bevilacqua, Antonio Maffei, Marcantonio Miniscalchi, Ignazio Giusti, Francesco Emilei) e Alessandro Ottolini. Durante il consiglio Maffei, Ottolini ed Emilei si batterono per convincere gli altri membri dell'importanza della riconquista dei territori perduti, senza rendersi conto che in quel momento era più importante provvedere alla difesa della Nazione Veronese,[7], prevedibile obiettivo successivo dei giacobini. Battaia invitò alla prudenza, ma il conte Emilei gli ricordò che la resistenza passiva aveva già portato alla perdita di Brescia, e i cittadini veronesi erano pronti a prendere le armi contro i giacobini lombardi. Battaia, appena comprese che i presenti erano dell'opinione di Emilei, cambiò idea, e venne quindi deciso all'unanimità di provvedere alla difesa dei confini veronesi.[11]
Si passò subito all'opera: Miniscalchi assunse il comando delle difese lungo la linea del Garda, mentre a Bevilacqua fu assegnato quello della linea tra Villafranca di Verona e il confine ferrarese. Tra le due linee venne posizionato Maffei.
Nel contempo era tornato a Verona il conte Augusto Verità, il quale era sempre stato in ottimi rapporti con i francesi, e quindi propose di assicurarsi la neutralità francese prima dello scontro con i giacobini. Venne quindi scritta e consegnata al generale Antoine Balland (comandante delle truppe francesi a Verona) la seguente lettera:
" La Nazione Veronese,[7] in data 20 marzo 1797, per bocca dei legittimi rappresentanti i corpi della stessa, rappresenta al Cittadino Comandante le truppe francesi in questa che attrovandosi pienamente felice sotto il paterno ed amoroso Veneto Governo, non può che raccomandarsi alla magnanimità della Nazione Francese, onde nelle attuali circostanze sia preservata nella sua presente costituzione, dal quale sincero e costante sentimento ritirar giammai non la potrà che la forza. "
In sostanza si chiedeva l'autorizzazione a difendere i confini veronesi dagli aggressori, quindi il generale fu costretto ad acconsentire, poiché, in caso contrario, sarebbe stato come ufficializzare la venuta meno autorità della Serenissima sui suoi territori. Bonaparte, che condivideva la scelta di Balland, informò il Senato veneziano che le truppe francesi non si sarebbero immischiate e che si doleva di quanto successo a Bergamo e Brescia. La risposta di Balland suscitò grande approvazione tra i veronesi per la difesa del proprio territorio.
Inizialmente i capi militari furono mandati a difendere i confini praticamente senza uomini, però le cernide poterono offrire 6.000 uomini, inoltre arrivarono numerosi volontari, in particolare dalla Valpolicella.
Il 23 marzo giunse a Verona la notizia che era partita da Brescia una spedizione di 500 soldati giacobini diretti a Peschiera del Gardao Valeggio sul Mincio: gli ufficiali e le truppe si affrettarono così a prendere le posizioni. Miniscalchi si portò a Colà, piccolo borgo sopra le colline di Lazise, Giusti a Povegliano Veronese e Bevilacqua a Cerea, mentre Maffei raggiunse Valeggio, da dove poté constatare che i nemici non erano ancora in vista, e poté quindi rischierare con più ordine le sue truppe. A lui si unirono anche 24 fanti provenienti da Brescia e 40 cavalleggeri croati arrivati da Verona (insieme a due cannoni).[12] Il 27 marzo decise di inviare un corpo di esplorazione, mentre, nel frattempo, a Castelnuovo del Gardasi erano riuniti 1.500 volontari.
Divisa e armamento delle truppe polacche prestanti servizio per la Francia, le quali il 29 marzo si scontrarono con gli insorti a Villanova, vicino Salò.
La notizia dei movimenti delle truppe nel veronese arrivò sino nelle valli bergamasche, dove scoppiarono numerose rivolte contro gli occupanti. Il 29 marzo si sollevò pressoché tutta la zona montuosa bergamasca, tanto che gli insorti, cacciati i francesi, decisero di puntare su Bergamo. Negli stessi giorni, nel bresciano, insorse la popolazione di Salò, esortata alla resistenza dallo stesso Battaia, che assicurò per lettera l'invio di munizioni e di 80 dragoni. La lettera ebbe l'effetto di entusiasmare la popolazione, che riuscì a ricollocare le insegne del Leone di San Marco e a far fuggire i giacobini dalla città. Poco dopo insorsero anche gli abitanti di Maderno,Tuscolano, sulla sponda bresciana del Lago di Garda e Vobarno in Val Sabbia. Mille uomini tra giacobini lombardi, soldati polacchi e francesi[13] radunati a Brescia furono inviati a Salò. Questi si scontrarono con gli insorti a Villanova, poco lontano dalla cittadina gardense, ma di fronte allo scarseggiare delle munizioni dovettero ben presto ritirarsi a Salò. Un secondo scontro fu vinto dai salodiani grazie all'attacco su tre lati dei montanari della val Sabbia: tra le truppe nemiche ci furono 66 morti e numerosi prigionieri, tra cui anche alcuni capi dei giacobini. Anche le popolazioni della Val Trompia, in particolare quelle dell'alta valle delle comunità diBòvegno, Collio e Pezzaze, erano insorte armate e i francesi con i loro alleati giacobini furono fermati a Carcina alle porte della Val Trompia dove si combatté accanitamente e con numerosi morti da ambo le parti.
Battaia, come aveva promesso, il 30 marzo inviò 80 dragoni; nel frattempo gli insorti di Calcinato e Bedizzole cacciavano i giacobini locali, sbloccando così la strada per Salò ai dragoni, che quindi raggiunsero Salò catturando numerosi giacobini in fuga.
Nel frattempo un attacco veronese a Desenzano non ebbe fortuna: le notizie delle fortunate insorgenze nelle valli bergamasche e bresciane, a Lonato e a Salò portarono eccitazione nei territori della Repubblica Veneta. Lo stesso giorno però i francesi attaccarono gli insorti che avevano circondato Bergamo e il giorno successivo si svolsero altre due battaglie: una vinta dai francesi ed una dagli insorti, che dovettero comunque ritirarsi sulle montagne ed arrendersi, data la evidente superiorità francese.
Maffei era deciso a marciare su Brescia, ma venne fermato da Battaia poiché la Francia, secondo lui, poteva utilizzare l'azione come pretesto per dichiarare guerra alla Serenissima. Avendo, il Maffei, l'appoggio dei rappresentanti del governo veneto in città, Iseppo Giovannelli e Alvise Contarini, ebbe il via libera ad avanzare, ma con l'ordine di fermarsi a 10 miglia da Brescia: le truppe marciarono superando il Mincio sino ad avvicinarsi alla città, dove, insieme agli insorti, bloccarono Brescia su tre lati.
Il generale Charles Edward Kilmaine (di origini irlandesi ma prestante servizio per la Francia) radunò a Milano 7.000 uomini[14] e partì alla volta di Brescia, attaccando lungo il tragitto i borghi insorti e costringendoli alla resa. Intanto a Brescia il generale Landrieux minacciò Maffei di raggiungere Verona a colpi di cannone se egli non avesse sgomberato il campo, e, dopo due brevi scontri tra truppe venete e francesi l'8 e il 9 aprile Maffei decise di ritirarsi verso Verona.
Gli ultimi giorni prima dell'insurrezione
Napoleone era convinto che le ultime forze della Repubblica Veneta si fossero concentrate nella piazzaforte di Verona.[15] In effetti, nonostante gli ultimi eventi dimostrassero l'iniziativa presa dai francesi, la Serenissima continuava a proclamare la sua neutralità. Bonaparte inviò una spia a Verona, Angelo Pico, che raccolse attorno a sé circa 300 giacobini veronesi,[15] per mettere in atto una congiura. Essi però vennero scoperti dalla polizia segreta, e l'11 aprile alcune pattuglie, che eccezionalmente entrarono in azione in pieno giorno, ne arrestarono per strada e nelle loro abitazioni la maggior parte, anche se Pico e altri capi riuscirono a sfuggire alla cattura rifugiandosi nei castelli di Verona in mano francese. Giovanelli andò a protestare vivamente, ma non gli fu data nemmeno risposta, ed anzi il comandante Balland, che si stava rifornendo di munizioni, ordinò di fortificare i castelli tanto che lui e Contarini, preoccupati, inviarono una lettera urgente al Senato e al Doge.
Nel frattempo venivano soppresse dai francesi le ribellioni di Lonato e Salò.
Contarini e Giovanelli il 6 aprile mandarono Nogarola alla difesa del confini ad est di Verona, presso Isola della Scala, per proteggersi da eventuali attacchi alle spalle. Il15 aprile la fortezza di Peschiera del Garda, in territorio veronese divenne formalmente possesso francese. Nel frattempo 400 polacchi marciavano verso Legnago, le cannoniere francesi attaccavano sul lago di Garda, movimenti nemici furono avvistati vicino a Cerea dove era posizionato Bevilacqua, e sulla via per Vicenza si era posto a presidio Giambattista Allegri.
A Castelnuovo truppe francesi chiesero accoglienza, vigendo ancora, almeno virtualmente, la neutralità. Quando però i soldati veneti si recarono in chiesa i francesi requisirono le armi lasciate fuori dall'edificio, e alla loro uscita furono fatti prigionieri, violando così ancora una volta la neutralità. Fu allora che Maffei ricevette l'ordine di abbandonare il Mincio, dato il notevole rischio di essere colti alle spalle.
Dopo dieci mesi di permanenza francese la situazione era ormai giunta a un punto critico anche all'interno della città. I soldati francesi, oltre ad imporre la confisca di beni dei cittadini, tramavano con i giacobini locali per rovesciare l'amministrazione locale.
17 aprile [modifica]
Nella notte fra il 16 e il 17 aprile 1797 fu affisso per le vie della città un manifesto a firma di Francesco Battaia che incitava i veronesi alla rivolta contro i francesi e contro i collaborazionisti locali. Il manifesto era apocrifo, in realtà fu opera di Salvadori su commissione di Landrieux,[16] ed era una provocazione atta a fornire un pretesto ai francesi per occupare definitivamente la città.[16]Nel manifesto si poteva leggere:[16][17]
" Noi Francesco Battaia,
Per la Serenissima Repubblica di Venezia Provveditor Estraordinario in Terra Ferma.
Un fanatico andare di alcuni briganti nemici dell'ordine e delle leggi, eccitò la facile Nazione Bergamasca[7] a divenir ribelle al proprio legittimo Sovrano, ed a stendere un'orda di facinorosi prezzolati in altre città e provincie dello Stato, per sommuovere anche quei popoli. Contro questi nemici del Principato noi eccitiamo i fedelissimi sudditi a prendere in massa le armi e dissiparli e distruggerli, non dando quartiere e perdono a chichessia, ancorché si rendesse prigioniero, certo che sì tanto gli sarà dal Governo dato mano e assistenza con denaro e truppe Schiavone regolate,[1] che sono già al soldo della Repubblica, e preparate all'incontro. Non dubiti alcuno dell'esito felice di tale impresa, giacché possiamo assicurare i popoli che l'Armata Austriaca ha inviluppato e completamente battuto i Francesi nel Tirolo e Friuli, e sono in piena ritirata i pochi avanzi di quelle orde sanguinarie e irreligiose, che sotto il pretesto di far la guerra a nemici devastarono paesi e concussero le Nazioni della Repubblica,[7] che gli si è sempre dimostrata amica sincera, neutrale; e vengono perciò i Francesi ad essere impossibilitati di prestar mano e soccorso ai ribelli, anzi aspettiamo il momento favorevole d'impedire la stessa ritirata, alla quale di necessità sono costretti. Invitiamo inoltre gli stessi Bergamaschi, rimasti fedeli alla Repubblica, e le altre Nazioni[7] a cacciare i Francesi dalla città e castelli, che contro ogni diritto hanno occupato e dirigersi ai Commissari nostri Pico Girolamo Zanchi e Dott. Fisico Pietro Locatelli, per avere le opportune istruzioni e la paga di Lire 4 al giorno per ogni giornata in cui rimanessero in attività.
La città e il territorio sono pronti alla difesa, e ognuno sparga il suo sangue per la Patria, pel sovrano e per la buona causa. Viva San Marco! Viva la Repubblica! Viva Verona! "
L'impostura sarebbe stata facilmente smascherabile, infatti il manifesto era già stato pubblicato a marzo da alcuni giornali, come il Termometro Politico e il Monitore Bolognese, inoltre Battaia in quel momento si trovava a Venezia. I rappresentanti veneti lo fecero rimuovere, e al suo posto venne pubblicato un nuovo manifesto che smentiva il precedente ed esortava la popolazione alla calma. Ma ormai l'insurrezione era già stata innescata, e nel pomeriggio ci furono già diverse risse.
I soldati francesi cercarono da parte loro di provocare la folla: verso le ore 14 venne arrestato un artigliere veneto mentre negli stessi istanti presso un'osteria in via Cappello scoppiò una rissa tra un francese ed un croato. Il francese ebbe la peggio ed andò a rifugiarsi presso la propria pattuglia, che protestò vivamente. Fu allora che il popolo armato accorse in massa, e nel trambusto tra popolani e soldati partì un colpo di fucile che mise in fuga i francesi. Poco tempo dopo scoppiò un'altra rissa in un'osteria di piazza Erbe, mentre alcuni popolani furono fermati da ufficiali dell'esercito veneto prima che aggredissero le guardie ai ponti Pietra e Nuovo. I comandanti francesi diressero allora in città alcune truppe, ed inviarono in piazza Bra circa 600 uomini per controllare l'evolversi della situazione.
La popolazione si stava calmando quando, verso le 17, per ordine del generale Balland, venne aperto il fuoco dei cannoni di castel San Felice (quartier generale francese) e castel San Pietro, e numerosi colpi giunsero sino in piazza dei Signori. L'azione francese era causata dalla sicurezza dei comandanti di poter facilmente controllare l'insurrezione, che sarebbe stata utilizzata come pretesto per occupare ufficialmente la città.[18] I cittadini veronesi stavano in quel momento recandosi in chiesa, fu allora che la popolazione fu sopraffatta dall'ira, ormai stanca dell'oppressione francese.
Il primo episodio dell'insurrezione si ebbe nella piazza d'Armi, dove i 600 soldati francesi erano in sosta presso l'ospedale (dove oggi sorge palazzo Barbieri), mentre i soldati veneti si trovavano presso il Liston (circa 500 soldati) e sotto la Gran Guardia. Appena si udirono i primi colpi di cannone i francesi raccolsero le armi e si avviarono velocemente verso Castel Vecchio, mentre i soldati veneti stettero a guardare sbigottiti, e, poiché per mesi i loro comandanti avevano ricordato loro l'importanza della neutralità, non seppero come comportarsi, mentre i veronesi cominciarono a sparare dai palazzi circostanti, ferendo alcuni soldati.
Lo storico Bevilacqua scrive che a misura che cresceva il rimbombo delle artiglierie, uscivano gli abitanti dalle proprie case correvano mal armati ad affrontare le pattuglie francesi, che con le baionette abbassate scorrevano la città, le quali si videro ben presto obbligate a cercare la loro sicurezza dandosi precipitosa fuga verso i castelli. Il popolo si accanì contro le truppe francesi sparse in tutta la città ed a guardia dei ponti. Numerosi soldati furono uccisi o fatti prigionieri, mentre quelli messi in fuga andarono a nascondersi negli alloggi dei compagni, dove barricarono le entrate: i popolani, per penetrare in quelle abitazioni, arrivarono al punto da salire sui tetti,[19] mentre continuava il cannoneggiamento della città dai forti circostanti e da castel Vecchio.
Francesco Emilei in quei momenti era accampato vicino a Lugagnano, pochi chilometri fuori dalla città, e appresa la notizia della rivolta mosse verso la città con i suoi soldati. Le porte della città erano però difese dai francesi, che la mattina avevano raddoppiato i presidi. Porta Vescovo venne facilmente conquistata da Coldogno, mentre con più fatica Nogarola conquistò Porta San Giorgio. Emilei dall'esterno della città conquistò porta San Zeno e poté entrare con i 2.500 volontari delle cernide, i 600 soldati e due cannoni, che divise in 4 corpi,[20] i quali furono mandati in luoghi diversi della città: di questi un corpo venne mandato fuori porta Nuova per impedire la fuga dei francesi, un altro presso il bastione dei Riformati.
I popolani armati di fucili, pistole, sciabole, ma anche di forconi e bastoni, erano scesi per le strade a dare la caccia ai francesi, uccidendone, ferendone e catturandone numerosi. Uno dei primi atti fu l'apertura delle carceri da cui numerosi soldati austriaci una volta liberati si unirono così alla rivolta.
Nel tardo pomeriggio i rappresentanti del governo veneto in città, Iseppo Giovannelli e Alvise Contarini, pensavano ancora di poter tornare al precedente stato di neutralità, mentre Emilei, appena conquistata porta Nuova, decise di partire per Venezia per chiedere il soccorso dell'esercito veneto. I due rappresentanti invece tentarono un compromesso con l'autorità militare francese, interrompendo il suono delle campane e issando sulla torre dei Lamberti una bandiera bianca. Balland fece interrompere il bombardamento (anche se attorno Castel Vecchio la battaglia continuava, essendo isolato dai castelli di collina e non potendo quindi avere informazioni su quanto stava accadendo). Iniziarono così le trattative, che Balland cercava di tenere per le lunghe, poiché aspettava i rinforzi.[21]
La trattativa fallì e i governatori veneti cercarono allora inutilmente di calmare la popolazione. I governatori, spaventati per l'evolversi della situazione, nella riunione tra il 17 e il 18 aprile decisero di ritirarsi a Vicenza, e prima della partenza ordinarono che le truppe non prendessero parte alla battaglia. Da qui, il 18 aprile, Giovannelli e Contarini, secondo il piano esposto in riunione, si sarebbero diretti a Venezia, per chiedere aiuto al Senato. L'ordine venne eseguito, inizialmente, da Nogarola, Berettini e Allegri, mentre Antonio Maria Perez continuò le operazioni. Nel frattempo la popolazione continuò ad assaltare gli edifici in cui vi erano, o si credeva vi fossero, i soldati francesi, che venivano sistematicamente uccisi, mentre per le vie della città non si sentiva altro che un continuo gridare per ogni angolo della città "Viva San Marco!".[22]
18 aprile [modifica]
Il 18 i rettori erano già partiti per Vicenza, intanto Emilei si apprestava a raggiungere Venezia per contattare il Senato, mentre a Verona Maffei e gli altri capi militari cercavano di organizzare l'esercito e i popolani, poiché il provveditore Bartolomeo Giuliari non riusciva da solo a sostenere il peso della situazione. Appena scaduta la tregua i cannoni dei castelli di San Felice e San Pietro ripresero a sparare, e dai due forti iniziarono veloci sortite in città (che venivano puntualmente respinte) con l'obiettivo di alleggerire la pressione su Castel Vecchio.
La notizia della fuga dei due provveditori irritò la popolazione, che continuò ad agire senza coordinazione, mentre dal Contado arrivavano numerosi i contadini e i montanari, in parte già armati. Giuliari ordinò ai comandanti di fornire armi ai disarmati, inoltre provvide alla costituzione di una reggenza provvisoria,[23] che si mise in contatto con il generale Balland, stipulando così una tregua di tre ore, anche se la battaglia presso Castel Vecchio continuava. Intanto alcuni cittadini riuscirono a portare dei pezzi di artiglieria sul colle San Leonardo, dal quale, essendo più alto rispetto colle San Pietro e le Torricelle, era più facile sparare contro i forti sulle colline circostanti. Venne deciso poco dopo l'invio di truppe regolari a sostegno dei popolani sul colle, mettendo anche alcune soldati a difesa del colle.
L'obiettivo principale divenne la conquista di Castel Vecchio, per cui due pezzi di artiglieria vennero trasportati dal popolo dalbastione di Spagna a porta Borsari e nei pressi del teatro Filarmonico, dove furono installati su impalcature di legno. Poco dopo i popolani vennero sostituiti dai soldati austriaci, evidentemente più esperti. Nel frattempo anche altri mortai venivano tolti al nemico e utilizzati per assediare il castello, mentre da Bassano del Grappa giungeva il conte Augusto Verità che si mise a capo dei duecento ex prigionieri austriaci. I francesi chiusi nel castel Vecchio portarono un cannone sulla torre dell'orologio, e cominciarono a colpireporta Borsari, ma Augusto Verità rispose facendo bombardare la torre dagli artiglieri austriaci, che riuscirono a colpirla fino a far crollare il cannone: i francesi furono obbligati a sgomberare, mentre altri colpi mietevano vittime tra gli uomini sulle mura del castello. Poco prima di un nuovo assalto al castello un drappello di soldati francesi uscì con una bandiera bianca, in segno di resa. Il capitano Rubbi con pochi uomini si avvicinarono per trattare: fu allora che i francesi smascherarono un cannone e cominciarono a colpire, uccidendo i soldati che erano andati a parlamentare e 30 popolani. Si scatenò così l'inferno attorno al castello, mentre i tempi della rivolta venivano scanditi dalla campana della torre dei Lamberti, la quale i francesi cercarono inutilmente di abbattere con le artiglierie.
Dai paesi della provincia cominciarono ad accorrere numerosi contadini volontari, armati per lo più di forconi, bastoni, e poche armi da fuoco. A loro proposito Alberghini diceva che appariva sul volto di tutti il desiderio di morire per la Patria e di esporsi a qual si fosse stato cimento. I contadini della Vallagarina riuscirono ad assalire e conquistare la chiusa presso Rivoli Veronese, mentre i montanari della Lessinia attaccarono da nord i forti San Felice e San Pietro. Nel frattempo nella provincia il conte Miniscalchi controllava la linea del Garda, Bevilacqua quella di Legnago, mentre Allegri la linea di San Bonifacio: i confini erano quindi tutti sorvegliati e per il momento tranquilli.
Arrivò in città il colonnello austriaco Adam Adalbert von Neipperg insieme ad un drappello di soldati, che informò Balland delletrattative di Leoben, tra l'Impero austriaco e dalla repubblica francese, mentre la popolazione lo accolse festosamente, pensando che fosse giunto in aiuto di Verona:[24] fu così che venne perso il prezioso contributo imperiale. Intanto, fra una tregua e l'altra, Verona veniva sistematicamente cannoneggiata dai forti e la sua popolazione continuava a combattere accanitamente intorno a questi per espugnarli.
19 aprile [modifica]
Il 19 Bevilacqua venne sconfitto a Legnago dalle truppe francesi, mentre Miniscalchi venne bloccato a Bardolino, per cui fuori Verona rimaneva solo Maffei a Valeggio, che decise di ripiegare a Sommacampagna con i suoi 900 fanti e 250 cavalleggeri,[25] per non essere tagliato fuori dalle linee avanzate francesi: arrivato a Sommacampagna lasciò il comando a Ferro e rientrò a Verona in cerca di ordini. Lo stesso giorno tornò Emilei da Venezia, senza gli aiuti sperati, mentre a Vicenza i due rappresentanti, persuasi da Erizzo, decisero di tornare e riprendere le trattative con Balland: il generale rispose che se fosse stata disarmata la popolazione se ne sarebbe andato dalla città con i suoi uomini, ma, dopo l'episodio di Castel Vecchio, nemmeno i due rappresentanti gli credettero.
Dopo l'inutile tentativo di mediazione, Contarini e Giovannelli organizzarono il popolo, che, al grido di vogliamo la guerra, si preparò ad una difesa a oltranza della città, come dimostra un proclama in cui affermano che, per togliere la confusione e il disordine, che potrebbe essere fatale al bene di tutti, resta commesso il popolo fedele di Verona che abbiasi a ritirare nelle rispettive Contrade. Colà gli saranno assegnati dei capi, ubbidirà ad essi, sarà unito in corpi e i capi stessi avranno a dipendere dagli ordini delle cariche, e si presteranno sempre a procurare la comune salvezza.[22]
Continuava così la battaglia, in particolare a Castel Vecchio, dove però i cannoni, tornati nelle mani inesperte dei cittadini veronesi, non provocavano più ingenti danni. Intanto dal colle San Leonardo continuava il bombardamento dei forti, che a loro volta bombardavano la città, provocando numerosi incendi, aggiungendo ancora danni alle incursioni francesi: con brevi sortite all'esterno andavano ad appiccare incendi nei palazzi circostanti appartenenti a famiglie nobili dando alle fiamme così anche numerose opere d'arte. Durante una sortita, partita da Castel Vecchio, i francesi riuscirono a dare alle fiamme palazzo Liorsi e palazzo Perez, ma in quel caso tornarono solo cinque soldati, poiché gli altri furono uccisi dai popolani.[26]
Presso il lazzaretto di Sanmicheli, che era occupato da un ospedale francese, passò una schiera di contadini armati diretti verso la città, quando dall'ospedale partirono alcuni colpi di fucile: i contadini, infuriati, abbatterono le porte e massacrarono i sei soldati che si trovavano all'interno.[27]
Nel pomeriggio Neipperg lasciò Verona insieme ai suoi soldati, dato che la tregua tra Francia ed Austria sarebbe durata una settimana. In compenso avvertì la popolazione che se fosse resistita fino allo scadere della tregua sarebbe tornato in suo soccorso. Intanto si avvicinò a porta San Zeno un drappello di esplorazione francese, che dovette allontanarsi immediatamente per l'arrivo di colpi di cannone della mura. Negli stessi istanti però delle colonne di soldati tagliarono fuori i soldati del Maffei, occupando la linea che va dal Chievo a Santa Lucia. In questa linea si erano posizionati circa 6.000 uomini di Chabran, mentre gli uomini di Victor e Miollis si stavano ancora avvicinando alla città.
20 e 21 aprile [modifica]
Maffei la mattina seguente uscì con gli uomini disponibili da porta San Zeno per cercare di rompere la linea nemica e aiutare la ritirata in città delle truppe venete comandate da Ferro, ancora tagliate fuori. L'attacco di Maffei venne però respinto da Landrieux, mentre nel frattempo Ferro, che tra le sue truppe aveva 500 fanti del IV reggimento di Treviso, 400 schiavoni,[1] 250 cavalleggeri e 8 cannoni, poté rafforzarsi con oltre 4.000 volontari (i quali si erano spontaneamente riuniti a Sommacampagna dopo l'accerchiamento), che però non potevano essere utilizzati in un'eventuale battaglia, poiché non erano addestrati, né ben armati.[25]
L'attacco di Ferro ebbe inizio a Santa Lucia, dove il comandante veneto riuscì a battere i francesi spingendoli a nord, prima sino a San Massimo, poi sino alla Croce Bianca, dove riuscirono a resistere al contrattacco. Per errore però ad un certo punto venne suonata la ritirata, per cui la cavalleria invece che caricare si ritirò, così la fanteria venne sconfitta, anche se riuscì a ritirarsi dentro Verona. Alla fine della battaglia tra fanti e schiavoni[1] erano sopravvissuti in 400, mentre i cavalleggeri non subirono grandi perdite. I francesi tornarono così a rioccupare le posizioni precedenti, e si avvicinarono a porta Nuova e porta Palio, dove furono però respinti dai cannoni.
Ripresero allora le trattative tra veneti e francesi, che richiedevano la resa senza condizioni, mentre nel frattempo altri volontari giungevano dalla bassa Veronese, e, oltre a Verona, anche Pescantina respingeva gli assalti francesi, che non riuscivano così ad oltrepassare l'Adige.
Il 21 aprile i francesi riuscirono a passare l'Adige poco più a monte di Pescantina. Intanto a Verona continuava l'assedio a Castel Vecchio, mentre la batteria del colle San Leonardo veniva catturata. Iniziarono nuove trattative cui parteciparono Giovanelli, Emilei, Giusti, Chabran, Chevalier (la cui presenza indicava che ormai la città era circondata) e Landrieux, ma non si giunse a nessuna conclusione. Ormai però non c'erano più speranze di vittoria, nonostante fossero giunte da Vicenza al comando del conte Erizzo 400 fanti e circa 1.000 cernide, poiché la città era ormai circondata da 15.000 soldati francesi.[28]
22 e 23 aprile [modifica]
I francesi la mattina del 22 aprile portarono alcuni cannoni presso porta San Zeno con l'intenzione di abbatterla, e furono fermati grazie a dei fortunati colpi di cannone sparati dalle mura da alcuni cittadini, che li obbligarono nuovamente, così, a ritirarsi. Intanto i francesi all'interno di Castel Vecchio erano in grave difficoltà, tanto che alcuni soldati fuggirono dal ponte scaligero. Ci fu anche un tentativo mal riuscito di riconquistare il colle San Leonardo. La polvere da sparo e le munizioni stavano però scarseggiando, ma anche il cibo cominciava a non essere più sufficiente per la popolazione, dato che la città si era riempita di volontari e soldati. Il Senato inviò addirittura una lettera in cui invitava la città alla resa, per cui le maggiori autorità a Verona si riunirono per decidersi sul da farsi. Durante la riunione si arrivò alla conclusione che ormai non sarebbero giunti rinforzi, per cui bisognava cominciare a prepararsi per la resa: i capi militari andarono per le strade invitando a fermare i combattimenti: molti ufficiali Veneti uscirono e così influenzati dalle Venete Cariche, scorsero le contrade tutte di Verona proclamando una tregua conclusa, ed esortando tutti gli abitanti a desistere da qualunque atto di ostilità, poiché trattavasi di pace, né tardarono i migliori tra i cittadini ad unirsi a loro onde calmare il popolo, infruttuosi non furono i loro consigli e la moltitudine si lasciò persuadere dalle voci della ragione e delle necessità: paga di non abbandonare i suoi posti di difesa, vi si tenne tranquilla, e non tirò più un colpo di cannone o di fucile. Così ebbe fine una battaglia, la quale principata entro le nostre mura alle ore ventuna italiane[29] del giorno 17 aprile era durata senza interruzione sino presso alle ore parimenti ventuna[29] del giorno 23. Allo strepito delle armi, al clamore delle voci, al movimento continuo di una numerosa popolazione, successero un cupo silenzio, un nesto riposo, una ferale immobilità.[30]
Il valore mostrato dai veronesi, che riuscirono a contrastare le incursioni di pattuglie francesi e a sopportare il cannoneggiamento della città, non avrebbe potuto resistere però all'assedio di 15.000 soldati,[22] per cui il 23 aprile era ormai presa la decisione della resa, si inviò quindi un messaggio a Balland in cui si richiedeva un armistizio di 24 ore. Il comandante concesse allora una tregua sino al mezzogiorno del giorno seguente.
Alla fine le morti francesi ammontarono a 500 soldati,[31] i feriti furono circa un migliaio, e i prigionieri 2.400 (di cui 500 soldati e 1.900 loro famigliari).[32] Dunque dei 3.000 soldati francesi di guarnigione[33] circa mille (tra morti e prigionieri) furono messi fuori combattimento.
La resa
Il 24 aprile, verso mezzogiorno, il capitano Emilei ed altri ambasciatori si incontrarono con Jacques-François Chevalier, Joseph de Chabran e Lahoz per trattare la resa: appena Emilei cominciò a leggere il documento, stipulato insieme alle altre autorità cittadine, venne fermato da Balland, il quale dichiarò che i termini della resa sarebbero stati dettati dai francesi, e non dai veneti: essi esigevano che la cavalleria veneta scortasse l'entrata delle truppe francesi in città (ma appiedata e disarmata), la restituzione dei prigionieri e delle artiglierie, il disarmo della popolazione, la consegna di 16 ostaggi, tra cui l'Emilei, Maffei, Verità, i provveditori, il podestà, il vescovo e Miniscalchi. Date le cospicue richieste gli ambasciatori veneti non se la sentirono di accettare, e chiesero altre due ore di tregua per poter esporre i termini della resa ai rappresentanti della città, i quali furono praticamente obbligati a firmare, nonostante loro stessi fossero richiesti come ostaggi, poiché la sconfitta sarebbe stata inevitabile.[34]
Ai due rappresentanti, Contarini e Giovanelli, venne affidato il compito di informare la popolazione, ma fuggirono prima di adempiere al loro dovere, poiché sapevano che, dopo la fuga a Vicenza, la popolazione non aveva più fiducia in loro. La notte quindi partirono perPadova, e, scoperta la fuga, si riunirono i maggiori rappresentanti di Verona, che decisero di informare i francesi della fuga e di trattare una nuova capitolazione (poiché i due rappresentanti erano inclusi come ostaggi nella precedente). Il nuovo trattato non prevedeva grandi differenze, ma venne ugualmente sottoscritto dai francesi. Oramai il popolo era scoraggiato e si sentiva tradito dagli stessi che lo avevano incoraggiato alla lotta.
Un'assemblea convocata da Giuliari elesse provvisoriamente dieci rappresentanti di Verona e del contado, che, con difficoltà, riuscirono a persuadere i popolani a cessare le offese. Questo consiglio durò per un breve periodo, dato che le cariche sarebbero state affidate dai francesi ai giacobini locali, a cui fu tolto lo stato d'arresto cui erano stati sottoposti dalla polizia segreta.
Alle 8 di mattina del 25 aprile 1797 (giorno della festa di San Marco) la città si arrese, e finì così, dopo quattro secoli, il dominio veneto su Verona, anche se le truppe francesi entrarono in città solo il 27 aprile da porta Nuova e porta Palio.
Conseguenze
Il primo atto dei francesi, appena entrati in città, fu affiggere un manifesto in cui si poteva leggere che era stato ordinato ai soldati il rispetto delle persone e delle proprietà. In compenso il generale Kilmaine si affrettò a confiscare il denaro della cassa pubblica, poiché le città "liberate" dovevano pagare 20.000 zecchini, ovvero 1.800.000 lire torinesi (che poi aumentarono a 2.000.000 lire). Il consiglio giacobino, che prese il posto quasi immediatamente di quello precedente, varò un prestito forzoso di 2.400.000 lire e obbligò la consegna dell'argenteria delle chiese e di altri luoghi di culto.[35]
Il 1º maggio gli abitanti di Verona furono obbligati a versare il denaro e l'argenteria a loro disposizione:[36] la stessa richiesta venne posta anche il 5 ed il 15 maggio, con in più la minaccia di perquisizione delle abitazioni nel caso i cittadini non avessero adempiuto al loro "dovere". Ma l'atto più ostile fu il saccheggio del Monte di Pietà della città, che vide Napoleone, venuto a conoscenza dell'accaduto, ordinare la restituzione dei pegni di minor valore, e ordinare l'arresto dei principali responsabili del saccheggio, Bouquet e Landrieux, che furono mandati in Francia per essere processati. Al sacco del monte fece seguito anche quello delle chiese, delle abitazioni degli aristocratici e dei musei, durante il quale furono trafugati dalla biblioteca Capitolare di Verona manoscritti databili dal VII secolo al XV secolo e incunaboli del XV secolo, dal museo lapidario maffeiano lapidi greche, romane e medaglie romane, dalle chiese furono presi numerosi dipinti (non furono risparmiati neanche il Duomo e la basilica di San Zeno), e lo stesso dalle collezioni private, oltre a collezioni di fossili:[37] la quasi totalità di questi non furono più restituiti. Tra le tele più importanti ci sono Il martirio del Santo del Veronese, la Pala dell'Assunta di Tiziano e bassorilievi in bronzo della chiesa di San Fermo: tutto il bottino che venne fatto sfilare nel corteo di Parigi il 27 e il 28 luglio 1798, e le opere furono poi portate al museo del Louvre.
Il 4 maggio venne richiesto alle sessanta famiglie più facoltose l'esborso dai 3.000 ducati ai 15.000 ducati.[38] Il 6 maggio invece arrivò il generale Augereau, che tenne un discorso in piazza Bra nel quale disse che era venuto per punire chi aveva fomentato la rivolta. Fece inoltre piantare l'albero della libertà, che fu oggetto più volte di vandalismi.
Il 9 maggio lo stesso generale liberò i prigionieri, provenienti dal contado, che erano stati arrestati nei momenti successivi all'entrata dei soldati a Verona perché sospettati di aver preso parte all'insurrezione, mentre iniziarono gli arresti dei protagonisti. Furono arrestati Emilei, Garavetta, Maffei, il vescovo Giovanni Andrea Avogrado, Giovanni e Francesco Giona, Contarini e la moglie, Leonardo Foscarini, il conte Rocco San Fermo, i dottori Vincenzo Aureggio e Francesco Pandini, Giacomo Augusto Verità, ma anche molti popolani. A questi si aggiunsero successivamente il conte Nogarola, il canonico Morasini, i tre fratelli Miniscalchi, e altri popolani.[39] Il processo dei sette principali imputati ebbe inizio il 15 maggio e vide la condanna a morte del conte Francesco Emilei, per aver provocato la rivolta, del conte Augusto Verità, per avere massacrato dei soldati francesi, e Giovan Battista Malenza, per avere assassinato numerosi francesi.[40] Durante il processo vennero inflitte pene minori invece agli altri tre processati, Maffei, Giona e Auregio.
La loro condanna a morte fu eseguita il 16 maggio: la mattina una pattuglia di soldati li prese dalla prigione e li scortò per le strade silenziose della città, fino presso porta Nuova. Su un bastione, a mezzogiorno, nonostante le persone presenti chiedessero la grazia al generale Augereau,[41] vennero fucilati i quattro condannati; il supplizio dei familiari non si fermò lì, poiché le loro case furono saccheggiate dagli stessi soldati che avevano fatto parte del plotone d'esecuzione.[42] In seguito furono eseguite altre condanne a morte, decise con processi sommari. I corpi dei quattro uomini furono dissotterrati al ritorno delle truppe austriache in città, quando, dopo una processione funebre, furono posti nel Duomo, nella chiesa di Santa Maria in Chiavica e nella chiesa di Sant'Eufemia.
Nella città furono numerose le condanne a morte (per un solo voto al processo si risparmiò il vescovo della città), ma anche le requisizioni dei giacobini, tanto che Bevilacqua, a proposito, afferma che occorreva adunque studiare e apparecchiare un piano di saccheggio ordinato e sapiente, una specie di congegno a torchio sotto la cui enorme pressione dovesse spremere la città tutto quanto il succo che potea dare. I giacobini fecero distruggere tutte le insegne del Leone di San Marco presenti in città, compreso quello posto sulla colonna in piazza delle Erbe, che sarebbe stato ripristinato solo nel 1886, e gli stemmi degli aristocratici. Venne limitato in città il suono delle campane, mentre gli orologi pubblici vennero impostati per battere le ore alla francese.
A causa delle requisizioni giacobine e della distruzione di parte dei raccolti vi fu anche una carestia, per cui lo stesso Napoleone, in città, esortò il club giacobino alla moderazione.[43] Il 2 luglio 1797 gli occupanti francesi indissero le elezioni del Governo centrale veronese, che avrebbe dovuto sostituire la municipalità provvisoria: per la prima volta a Verona i cittadini potevano votare e scegliere i propri rappresentanti. Vennero però eletti i protagonisti delle Pasque Veronesi, quindi il generale Augereau si riservò di scegliere 23 dei 40 uomini che avrebbero formato il governo, e questi si rivelarono essere tutti giacobini.[44]
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Rievocazione della battaglia fra austro-veneti e veronesi da una parte e rivoluzionari francesi dall'altra parte, avvenuta il 17 aprile 1797.
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Rievocazione della battaglia fra austro-veneti e veronesi da una parte e rivoluzionari francesi dall'altra parte, avvenuta il 17 aprile 1797. A Castelvecchio, via Roma, Piazza Bra (Verona) il 2 giugno 2013.
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Rievocazione della battaglia fra austro-veneti e veronesi da una parte e rivoluzionari francesi dall'altra parte, avvenuta il 17 aprile 1797. A Castelvecchio, via Roma, Piazza Bra (Verona) il 2 giugno 2013.
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