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rifiuti

Creato il 10 giugno 2012 da Gaia

L’altro giorno sono stata colta da un raptus e fatto una cosa che credevo non avrei più fatto: ho preso grandi bracciate di vecchi vestiti e li ho portati nei cassonetti della Caritas.
Questa notizia forse può essere più interessante se accompagnata da un antefatto. Come ho annunciato qualche tempo fa, recentemente ho cercato di sbarazzarmi delle mie cose vecchie partecipando al mercatino di Udine Est (e non lo farò mai più, dopo aver scoperto a chi va la quota di partecipazione, e chi è il figlio di questa persona. Gli udinesi mi capiranno). Mentre stavo lì al freddo, guardandomi intorno, pensavo: che schiavitù la roba. Che fatica non solo produrla e comprarla, ma anche portarsela in giro, trovare un posto in cui metterla, tenerla pulita… Soprattutto ora, tra l’altro, che è così facile da acquistare, e così priva di valore quando ce ne si vuole sbarazzare. Nell’ottocento, come insegna un bellissimo romanzo che non cito per non fare un dispetto a chi deve ancora leggerlo, vendendo i mobili di casa si poteva ancora sperare di pagare i debiti, e i vestiti avevano valore. Ora puoi avere anche armadi di ottimo legno, lampade e divani: con la concorrenza di Ikea e simili è già tanto se non devi pagare chi te li porta via. Le cose non valgono più niente, eppure la nostra società va avanti grazie ad esse. Il paradosso del consumismo.
Una parziale consolazione è pensare che puoi dare la tua roba vecchia a qualcuno che l’apprezzerà. Ma, e da qui il mio raptus, ho capito che è questa la trappola. Se le cose avessero un valore, e quindi fossero caratterizzate sia da quantità scarsa che da qualità elevata, come ad esempio l’oro, sarebbe un po’ diverso. Dandone a qualcuno gli faremmo un oggettivo piacere (anche se sempre di carità si tratta): potrebbe tenerle o vendere. Ma ovviamente in quel caso non avremmo tanta foga di liberarcene.
(Tra parentesi preciso che persino le cose di valore richiedono lavoro e risorse per farle arrivare, tramite internet, mercati o passaparola, a chi le può apprezzare. Sarebbe meglio pensarci prima di procurarsele.)
Ma oggi, per la stragrande maggioranza dei beni che possediamo, persino per le nuove case costruite male e che nessuno vuole, per liberarcene non possiamo che sperare nella miseria altrui. Perché qualcuno voglia i tuoi scarti dev’essere più povero di te. Le cose di cui parlo da valore sono diventate spazzatura. Salvo, in parte, dal punto di vista di chi è veramente miserabile.
Le camicie rovinate subito, i bestseller che leggi per moda e dimentichi immediatamente, i pantaloni della tuta, le scarpe fatte dai cinesi, i piatti dei punti del supermercato, le t-shirt brutte, i maglioncini di cui ti sei stufato, l’elettronica obsoleta… chi la vuole quella roba? Solo chi non ne può avere di migliore.
Al mercatino cui ho partecipato c’era un algerino, ma penso siano in molti a fare come lui, che comprava cose a prezzi bassissimi per poi rivenderle ai suoi connazionali. Per quanto riguarda i vestiti che si lasciano nei bidoni della Caritas, ho fatto un po’ di ricerche e sostanzialmente funziona così: la prendono ditte specializzate e la selezionano. La roba non più indossabile viene riciclata per stracci o filati, quella buona va nei negozi vintage dei paesi ricchi, e il resto ai poveri. C’è un documentario che mi ripropongo di vedere nei prossimi giorni, che segue una maglietta dalla Germania fino all’Africa, dove ci sono paesi in cui il 90% della popolazione si veste con abiti di seconda mano.
La me di ieri avrebbe detto: bè, almeno non vanno buttati via. La me di oggi dice: ma perché? perché gli africani devono mettersi i nostri stracci? Perché sono poveri, ecco perché.
Io ho già detto di essere un’esteta. Non voglio essere ricca, però voglio cose belle e buone. Poche, magari, ma belle e buone. Cose scelte da me, che abbiano un senso e un significato, un contesto, una storia. Per anni ho valorizzato i vestiti vecchi altrui, e l’ho sempre considerato un vanto, un modo di evitare sprechi, di recuperare quello che andrebbe perso. Però nell’illuminazione di un momento mi sono resa conto che accettare i vestiti usati che mi davano amici e parenti non faceva altro che permettere a queste persone di continuare a comprare con la coscienza pulita: tanto c’è sempre qualcuno che prenderà tutto questo quando tu te ne sarai stancato. Qualcuno che ti sarà grato, perché è povero. Tu scegli, lui ringrazia. Tu imponi, lui accetta. Come si dice in inglese, beggars can’t be choosers.
Invece c’è una grande libertà e felicità anche nel poter scegliere cosa possedere. Io non vorrei che gli africani indossassero i nostri stracci. Non è giusto. Se fossero ricchi come noi, dove la butteremmo tutta la roba che non vogliamo più? In discariche che ormai non riesci più ad aprire da nessuna parte? Ancora una volta, persino nel donare, ricchezza e povertà non sono realtà inevitabili o indipendenti, ma l’una è necessaria perché esista l’altra. Tanto più che per possedere noi tante cose, deve esistere gente sottopagata che le fabbrica, altrimenti ci costerebbero ‘troppo’. E per potercene liberare, deve esistere gente povera che fa spazio per riprendersele.
Questo discorso vale anche per tutti i rifiuti tecnologici che finiscono in Africa, la spazzatura che mandiamo in Cina, ma non voglio allargare troppo il discorso. Fatto sta che con quest’ultima pulizia del mio armadio, quest’ultimo o così spero viaggio al suddetto bidone Caritas, in cui butterò vestiti che qualcuno ha preferito dare a me anziché buttare di persona, io voglio smettere di essere sia la persona ricca che si lava la coscienza donando ai poveri, sia la persona povera che prende quello che viene perché non può scegliere. Se faranno stracci dei miei vestiti, per pulire che so il grasso di un’autofficina, mi sta ancora ancora bene. Se li danno a chi è povero, sono complice del meccanismo appena descritto – però mi impegno a non prendere mai più nulla che valga poco, nulla di cui stufarmi e da dare via.
Quando ci si riempiono le discariche sotto casa, allora sì che ci accorgiamo che forse la soluzione è consumare meno. Finché i rifiuti se li prendono, più o meno legalmente, i campani, gli africani o i cinesi, il problema nemmeno si pone. I nostri armadi, le nostre case, sono discariche con un buco sul fondo, da cui tutto scivola via dentro bocche affamate. Se non fossero affamate, ci risputerebbero tutto in faccia.


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