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Riflessioni d’autori 3: cultura combattente e tragedie di maniscalco
Creato il 10 novembre 2010 da SulromanzoLa cultura e il maniscalco
Dopo avere riflettuto sull’“abito della nostra personalità”, tramite le considerazioni di Isabel Allende, e sull’“alfabeto e il fucile”, grazie a Philip Roth, proseguiamo nel condividere celebri riflessioni di grandi autori sulla letteratura e la scrittura per potere insieme godere dell’importanza delle singole parole e trovare spunti nel nostro vivere quotidiano e soprattutto nel nostro vivere con la penna in mano o con la penna “sotto il cuscino”.
Questa volta rimaniamo in compagnia di Elio Vittorini (Siracusa 1908 – Milano 1966), tra l’altro fondatore del settimanale culturale Il Politecnico nato nel 1945 e della rivista – collana Menabò fondata nel 1959 in collaborazione con Italo Calvino. Le sue riflessioni che prendiamo in considerazione sono:
“Non più una cultura che consoli nelle sofferenze, ma una cultura che protegga dalle sofferenze, che le combatta e le elimini.”
“Io penso che sia molta umiltà essere scrittore. Lo vedo come fu in mio padre, ch’era maniscalco e scriveva tragedie, e non considerava il suo scrivere tragedie di più del suo ferrare cavalli.”
A riguardo della prima affermazione quanto attuale può risultare (ma probabilmente è un tema che può essere calzante per ogni epoca). Una cultura che combatta e elimini le sofferenze. Camminando per una libreria, sfogliando svariati libri, quanto troviamo questo tipo di cultura? Oppure spesso ci troviamo di fronte esclusivamente a letteratura di intrattenimento, di divagazioni, di mera replica di un sistema che non vuole svelare, raccontare, indagare, proporre ma soltanto cerca di addormentare i pensieri?Quanta dignità, speranza, entusiasmo e potenza ci sono in questa affermazione di Vittorini?
E altrettanto meraviglioso è catapultarsi nell’immagine del padre, che fa il maniscalco, che ferra i cavalli con la stessa umiltà con cui scrive tragedie. Non dando maggiore importanza o maggiore nobiltà all’una o all’altra attività. Un umile maniscalco che vive anche della gioia e della passione della scrittura. Quanto potremmo dire di intravedere tale consapevolezza e discrezione in cotanti autori moderni? Loro che, nel mondo dell’immagine e dell’apparenza, spesso sembrano già divi affermati, scribacchini che fanno della banale trasgressione e della parola urlata e ad effetto l’unica essenza della loro scrittura.Prodotti preconfezionati che ritengono che l’umiltà sia sinonimo di debolezza e incertezza.Spesso anche in questo blog si è disquisito su aspiranti autori, su fantomatici scrittori emergenti che con arroganza e presunzione, ritengono di avere la verità in pugno, di essere gli unici fari della letteratura futura e di essere gli unici incompresi in un mondo editoriale che non li merita. Quanta tristezza in tutto ciò.Che maestosità di pensiero invece ci viene espressa da Vittorini entrando nel pieno della quotidianità e della concretezza che serve per portarsi a casa “la pagnotta”, affidandogli la stessa dignità dello scrivere come forma di redenzione e umile tentativo di trovare equilibrio e bellezza nella propria esistenza.
Certamente nel contesto odierno che viviamo si fatica a trovare umiltà in qualsiasi ambito ci si possa addentrare, ormai convinti che la forza, il primeggiare, l’eliminazione di ogni atteggiamento apparentemente debole e accondiscendente siano gli unici modi di interagire e rimanere a galla all’interno di questa società di cartapesta.Probabilmente, invece, sarebbe più utile ferrare molti più cavalli e umilmente attendere che cali il buio per potersi dedicare alla cura dello spirito.
Buona umiltà a tutti.
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