Non è un soggiorno obbligato , ma per chi ha subito negli anni ‘70/80 quel provvedimento che alloggiava i più pericolosi capi-famiglia della mafia nei paesini del nord-est , la richiesta di Giuseppe Salvatore Riina suona come un allarme da non sottovalutare.
“Salvuccio”, non è o è stato un semplice affiliato a Cosa Nostra. Lui è il figlio del Capo dei Capi, di quel Totò Riina che da Corleone, a suon di proiettili, e di ogni tipo di traffico illecito, ha governato la cupola di quella piovra chiamata Mafia.
«Signor giudice, voglio rifarmi una vita da persona per bene, nonostante il nome che porto».
Non è un collaboratore di giustizia e non è neanche un pentito come conferma il suo legale, l’avvocato Francesco Casarotto che dice «Sia chiaro che il signor Riina non è un pentito. E’, e rimane, in ottimi rapporti con i suoi congiunti.Semplicemente-nota l’avvocato- ha manifestato al giudice la sua volontà di non tornare in Sicilia e di fermarsi in un luogo dove ritiene di avere più possibilità di ricominciare una vita da persona onesta, lontano dall’ambiente che gli ha provocato guai con la giustizia».
Giuseppe Salvatore è stato, infatti, condannato ed ha scontato 8 anni di prigione nel supercarcere di Voghera.
Il 2 Ottobre le porte del cancello blindato si chiuderanno alle sue spalle riportandolo nella società civile. Dopo la sua richiesta, il giudice di Pavia competente del caso, Maria Teresa Gandini, ha dato il suo benestare seppur con misure di vigilanza speciale per 2 anni. Misure suggerite dal procuratore capo Gustavo Cioppa che, ritiene il personaggio ancora potenzialmente pericoloso. Il figlio di Totò Riina dovrà rincasare sempre prima delle 22, non potrà incontrare pregiudicati e dovrà sottoporsi all’obbligo di firma.
Voci di corridoio danno come meta la provincia di Padova. E l’allarme in quelle zone è giustificato.Storie di confine e di confino nella terra della Serenissima. Storie che portano il nome di Totuccio Contorno, di Giuseppe “Piddu” Madonia, di Salvatore Badalamenti e di quel Gaetano Fidanzati partner dell’unica associazione mafiosa riconosciuta al nord: la Mala del Brenta di Felice Maniero.
Dal 1975, anno in cui un Ministero della Giustizia, cieco e sordo, riuscì ad agevolare la delocalizzazione della più potente multinazionale del crimine dalla Sicilia al Nord. Decine e decine di capi e sodali sono stati trasferiti nei paesini lombardo-veneti con la convinzione che una volta tolti dalla terra natia, sparisse anche la loro cifra criminale. Cosa ovviamente assurda e senza fondamento. Cosa che ha portato nuova vitalità e nuova linfa alla mafia stessa.
E’ lì che è nata prima la Liga Veneta e Lombarda e, di conseguenza, la Lega Nord.
Gente che non si dimentica come in quegli anni il traffico di droga aveva flussi in chilogrammi che partivano dalla Sicilia e arrivavano nel Veneto sotto l’egido controllo di Antonino Duca, uomo di fiducia di Luciano Liggio, con residenza a Corleone.
O di Gaetano Fidanzati, mandato proprio in quella provincia padovana dove dovrebbe risiedere il figlio di Riina, che da Monselice, controllava, insieme a Felice Maniero, fiumi di eroina che arrivavano nelle centrali di Milano, Bolzano, Vicenza, Padova e Venezia.
E’ proprio da loro si sono alzate le prime e forti proteste:«Se sapessi che uno così viene a vivere nel mio comune, affiggerei manifesti con la sua faccia e la scritta “Via da qui”; un Riina deve sentire l’ostilità dell’ambiente che lo circonda»E’ il deputato leghista Gianluca Buonanno, componente della commissione antimafia intervistato dal Corriere della Sera, che aggiunge:«Non vogliamo che la storia e gli errori degli anni ’70 si ripetano. Allora l’applicazione dei soggiorni obbligati significò l’arrivo della mafia nelle nostre regioni. Oggi il pericolo è aumentato perché queste organizzazioni possono contare su ramificazioni più forti».
Il pericolo che la vita di “Salvuccio” non sia ad una svolta certa e positiva c’è. Ha ragione anche chi, per più di un decennio, ha dovuto subire la pericolosa presenza di “capi- famiglia” che han creato succursali del male in ogni posto dove sono stati.
La diffidenza è parente stretta della paura e non c’è giudice o condanna scontata che possa rimuoverla. Accordare la residenza al Nord da parte di un giudice e contemporaneamente leggere che un procuratore capo lo definisce ancora potenzialmente pericoloso è qualcosa che stride con l’umana intelligenza.
E’ vero anche che, per quanto lui porti il pesantissimo nome della casata dei Riina, ha scontato la pena che gli era stata inflitta. E’ tornato ad essere uomo libero e con il diritto di avere una seconda chance.
E’ vero altresì, che ogni città, ogni paese italiano, potrebbe rifiutarsi di accogliere il figlio del più sanguinario boss di Cosa Nostra. Ma allora che fare?
Alessandro Ambrosini