Magazine Poesie

Riletture 2 - Franco Fortini, Il seme

Da Ellisse

Il fascino disfranco fortinicreto della rilettura consiste essenzialmente, al di là degli apparati critici o delle ragioni intellettuali, nel chiedersi - davvero - perchè qualcosa ci piace. Ciò è tanto più vero oggi, quando le reti "socievoli" (chiamarle sociali mi pare eccessivo) cercano di costringerti a un semplice click su di un bottone. Sintesi che poi non porta a niente, come quella di chi pretende di fare politica apponendo on line un "si" alle idee di altri. Devo ammettere che di tanto in tanto le riletture  hanno per me una necessità disintossicante, di tutto il leggere (di poesia) troppo e spesso male. A questo scopo  una poesia come quella che trascrivo qui sotto funziona egregiamente.
Franco Fortini - Il seme (da  Questo muro, 1973)
Caduti i cartocci giù
le foglie luccicano come piccioni
della magnolia altissima. Sotto i cedri
dove la luce del pomeriggio è fitta
vedo l'erba crudele acida profonda
e l'interrogazione ritorna
ai colpi di vento si curva
si divide ritorna ma dicono i merli di no
camminando o fermi.
Mio padre
s'inteneriva sulla propria morte
udendo l'allegretto della Settima.
Negli angoli dove c'è a marzo maceria
con gran pianti i bambini seppellirono
gli uccelli caduti di nido. Ma nulla
sa più di noi e discorre da sola
coi suoi corni e le trombe la musica
tra questi muri sudati.
In luogo di lui ci sono io
o mio figlio o nessuno.
Tutti i fiori non sono che scene ironiche.
Ormai la piaga non si chiuderà.
Con tale vergogna scenderò
i seminterrati delle cliniche
e con rancore.
Non è ancora luglio
non ancora scaldato asciutto assoluto
il seme.
Una delle cose più interessanti scritte su Fortini è di Pier Paolo Pasolini, quando accenna, riguardo al nostro, a due linee principali: quella della resistenza alla "poeticità" e quella della tentazione della stessa poeticità, quale "residuo più alto di un privilegio borghese di squisitezza espressiva". Al di là del linguaggio appartenente ad una temperie politica molto distante da quella odierna, è in questa tensione, in questo salto di potenziale, che si realizza una lacerazione stilistica ma anche molto del fascino della poesia di Fortini. Poichè, aggiunge Pasolini, "l'unica concessione che Fortini si fa è quella di scrivere versi". Del resto lo stesso Fortini fa di questa "concessione" un metodo ed un obbiettivo, nell'arcinota chiusa di "Traducendo Brecht: "La poesia / non muta nulla. Nulla è sicuro, ma scrivi". Anzi, come dice P.V. Mengaldo, ne fa una "volontà".  Di più, nel contrasto si stabilisce una verità, come ebbe a dire Fortini una volta: "Credo alla verità di alcune mie poche poesie perché ogni loro verso porta il segno della contraddizione". Ricordo che la prima cosa che mi colpì quando lessi per la prima volta "Il seme" fu la straordinaria sequenza di aggettivi dell'erba: "crudele acida profonda". Per quanto possa apparire marginale, già qui c'è un indizio forte del dissidio a cui alludeva Pasolini, cioè da una parte Fortini tenta di indebolire la poeticità, in questo caso eliminando ogni elemento ritmico come le virgole e assiepando (quindi "indurendoli") gli elementi connotativi, dall'altra riesce a costruire, proprio con questa densità, un' immagine  insieme squisitamente espressiva e fortemente simbolica. Mi piacque e mi piace ancora il moderno elemento coloristico (e chimico) di quell' "acida", la verticalità del "profonda", la definitiva assolutezza del "crudele". E' interessante notare che la strategia stilistica, rafforzata inoltre da una opposizione tematica (sopra/sotto), si ripete nella chiusa, con una sequenza meno forte ma altrettanto compatta, quanto appunto uno strato di terra che seppellisce il seme. Qui in effetti si parla di morte. E Fortini, il razionale cultore della forma, il severo critico di "ogni proposta di dilatazione sentimentale e sensuale della parola" (Anceschi), si concede (o si arrende a) l'elegia, soprattutto nell'attacco della seconda strofa, così musicalmente "crescendo". Chiunque abbia ascoltato il secondo movimento della sinfonia beethoveniana capisce agevolmente cosa intendesse il poeta, perchè intendesse iniziare lì il suo secondo movimento. La prima strofa si è appena conclusa in maniera secca, svoltando un lungo verso così vicino agli amati alessandrini, come uno scatto fotografico che immobilizza infine i merli, dopo una strofa ricca di immagini, similitudini, slanci e ripiegamenti (ritorna..ritorna), scostamenti sintattici, esperimenti come appunto quella chiusa scazonte. Noterei incidentalmente l'andamento discendente  che, come per la sequenza di aggettivi, si ripropone nella strofa successiva (dicono i merli di no / camminando o fermi.... In luogo di lui ci sono io / o mio figlio o nessuno); poi l'adagietto prosegue in versi che mi azzardo a dire richiamino un Saba sottoposto al setaccio fortiniano, con qualcosa di "obiettivamente patetico" (Pampaloni), ma anche di sordamente (o con rancore, v. ultima strofa) religioso, secondo quel sentimento che ha sempre accompagnato Fortini. L'interrogazione della prima strofa  si ritrova (e si perde) nella musica senza più ascoltatore della seconda. Sembra sordo anche chi, come l'autore, è in luogo di chi non c'è più, quasi un morto putativo. Ecco che i fiori, con il loro valore iconico e rammemorativo, forse anche una delle rose dalla poesia omonima (Rose, rose di polvere, quanta durezza / nei ceppi a notte, rose arcuate / di spine...) diventano ironica rappresentazione cultuale, inutile alla risposta e al risarcimento. La discesa degli ultimi versi è alla fine una discesa in profundis, forse con qualche barlume  verso qualcosa che ancora deve liberarsi, "sciogliersi" (in tal senso a mio avviso deve leggersi l'aggettivo "assoluto"). Barlume forse non tanto di speranza, quanto di qualcosa "Al di là della speranza",  come titola la nota poesia del 1957 in risposta al Pasolini de "Una polemica in versi", un tentativo di riscatto che passi anche dalla conciliazione tra poesia e vita. Dunque, direi, una poesia dialetticamente aperta, per usare una parola che forse a Fortini piacerebbe, soprattutto in termini di stile, basta vedere inizio e fine delle prime due strofe. E una poesia tutta verticale, dai cartocci che cadono dall'alto dell'albero, passando per quel "scenderò i seminterrati", fino al seme che giace sotto terra. Quel seme, fosse esso la rivoluzione o la verità, il politico o il poetico (mai del tutto distinti nel poeta), a cui Fortini ha sempre anelato. (g.c.)

Potrebbero interessarti anche :

Ritornare alla prima pagina di Logo Paperblog

Possono interessarti anche questi articoli :

Dossier Paperblog

Magazines