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Non devono più ripetersi vicende come quelle di Stefano Cucchi, morto a 31 anni il 22 ottobre scorso nel reparto detentivo dell'ospedale Sandro Pertini una settimana dopo il suo arresto, senza che i familiari sapessero nulla. D'ora in poi, se le condizioni di un detenuto ricoverato si aggravano, il medico potrà avvertire i parenti senza aspettare l'ok del magistrato di sorveglianza. Ad annunciare la novità il ministro della Giustizia Angelino Alfano, con una lettera al presidente della Commissione d'inchiesta sul servizio sanitario nazionale, Ignazio Marino. L'accordo tra il provveditorato delle carceri del Lazio e l'ospedale romano farà da battistrada per gli accordi tra tutti gli istituti di pena e le strutture sanitarie che hanno reparti detentivi. "Sono queste le cose che mi fanno pensare che la nostra battaglia sta avendo un senso. Con le nuove norme Stefano ci avrebbe avuti accanto a lui" ha commentato Ilaria Cucchi, sorella del giovane geometra.
Dunque, si cambia registro. Ed è proprio per le polemiche scatenate da quella morte e per gli sviluppi dell'inchiesta sul comportamento di carabinieri, polizia penitenziaria e medici, che il ministro ha lanciato l'input. "Nessuno potrà restituire Stefano Cucchi alla sua famiglia - spiega Marino - Ma adesso si potrà evitare che altri casi come quello del giovane morto all'ospedale 'Sandro Pertini' di Roma, a una settimana dal suo arresto per possesso di droga, accadano nuovamente". In altre parole, spiega, "se al momento del ricovero di Stefano Cucchi vi era di fatto la proibizione di comunicare con i familiari, in caso di aggravamento di un paziente detenuto, da oggi il medico, di fronte a una persona privata della libertà, potrà fare ciò che ogni medico pratica con ogni paziente: nel momento dell'aggravamento l'assiste e immediatamente dopo informa i familiari delle condizioni cliniche del loro caro. Fino ad oggi per fare questo c'era la necessità di un permesso del magistrato di sorveglianza, richiesto attraverso il carcere. Occorrevano giorni. Ora bastano minuti".
"Sicuramente è un grosso passo avanti - dice ancora Ilaria Cucchi - una umanizzazione, perché quel protocollo era assurdo. Si tratta di strutture detentive ma anche di ospedali, ci sono dentro persone che stanno male". Se le nuove norme fossero state in vigore quando Stefano sarebbe stato ancora vivo. "forse le cose sarebbero andate diversamente. O forse no, ma almeno non se ne sarebbe andato da solo - conclude la ragazza - Ci avrebbe avuti accanto a lui".
Il Dipartimento dell'Amministrazione Penitenziaria ha sollecitato tutti gli istituti a stabilire accordi con gli ospedali che hanno reparti detentivi per seguire le nuove linee. L' obiettivo è definire un protocollo standard, da sottoporre al ministero della salute e alle Regioni, valido su scala nazionale per le Asl e gli istituti di pena "per armonizzare le esigenze della salute con quelle della sicurezza ma anche evitare che il trattamento di un detenuto possa essere addirittura più restrittivo in ospedale che in carcere".
Gli ospedali che hanno reparti detentivi attrezzati per il ricovero e la sorveglianza di detenuti sono meno di dieci. Una legge del 1993 stabiliva che in ogni capoluogo di provincia dovessero essere creati reparti detentivi ma pochissime regioni si sono uniformate. Nel Lazio, oltre al Pertini di Roma, c'è l' ospedale Belcolle di Viterbo; altri reparti sono a Milano, Palermo e Napoli.
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