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Rimini, Ukraina - Come cambia la riviera romagnola

Creato il 03 agosto 2013 da Tafanus

...c'era una volta la Rimini del Grand Hotel di Federico Fellini...

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Il fenomeno aveva colpito molto me e Marisa quando quest'inverno eravamo stati a Rimini per l'incontro di Fed Cup (la Davis femminile) contro gli USA. Al ristorante dell'albergo molto personale russo (prevalentemente ukraino), e menù scritti in cirillico, in tedesco e talvolta persino in italiano. Abbiamo chiesto al direttore dell'albergo. Ci ha detto che erano i "nuovi commercianti". Rimini e dintorni sono zone di outlet molti forniti, e molta gente arriva dagli stati ex URSS coi valigioni vuoti (ci sono molte città collegate con Rimini da voli diretti low-cost) e ripartono per Kiev coi valigioni strapieni di tutto, da rivendere ai negozi post-sovietici. Ma qualche aereo pieno di "nuovi magliari" non bastava a spiegare una Rimini trasformata rispetto a quella che ricordavo. Tutto aperto, anche in inverno. Alberghi, ristoranti, negozi. E tutti gli avvisi rigorosamente in russo. Insomma, Rimini è riuscita a rinascere come luogo "all year round" da località estiva, come ce la ricordavamo.
L'articolo di questa settimana di Roberto di Caro ed Elisabetta Tola su l'Espresso ci aiuta a capire.

Espresso

La Riviera è in crisi di tedeschi. E apre la caccia ai turisti dell'est. Non solo magnati. Anche classe media. Tra menù in cirillico. E pacchetti a prezzi stracciati
 
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Tedeschi in ritirata a nord della linea gotica verso Ravenna, i suoi mosaici e i suoi lidi naturali. Russi che dilagano, ormai prima forza, da Rimini, tra locali di movida e negozi di lusso, a Milano Marittima, patria di calciatori e veline. Piccoli storici distaccamenti inglesi, olandesi, svizzeri, scandinavi e prime pattuglie kazache, polacche, lettoni, lituane. È il risiko del turismo estate 2013 sulla costiera romagnola. Guerra guerreggiata, colpi bassi inclusi. Come rimborsare fino a 300 euro la tassa sulla casa al turista che si ferma almeno un tot di notti, o dirottare non singoli velivoli ma tre o quattro compagnie low cost, finanziate dall'aeroporto di Rimini, che si è svenato fino a cumulare un debito di 50 milioni perché lì facessero scalo, e dai tour operator, che i voli li comprano "vuoto per pieno", cioè te li pago subito poi è affar mio rivenderli. In attesa del resto dei Brics: con albergatori e ristoratori a chiedersi quando arriveranno cinesi, brasiliani e bollywoodiani, e a studiare come evitare che un potenziale mercato di milioni di villeggianti gli scivoli via tra le dita e finisca in Grecia e Spagna.
Che la Romagna sia una macchina da guerra invidiata e copiata è storia fin dagli anni Sessanta: Rimini della pensione familiare per l'operaio con le rate della lavatrice, Rimini delle nobildonne in lungo al Grand Hotel sotto l'occhio sardonico di Federico Fellini. Solo che nel tempo, fra alti e bassi, riviera dell'eccesso anni Ottanta e ritorno all'ordine decennio Duemila, la macchina s'è parecchio arrugginita. E fatica a tenere il passo, come fotografa Patrizia Rinaldis, un hotel a 3 stelle, presidente dell'Associazione albergatori di Rimini: «Si è demonizzato il divertimento delle discoteche estreme anni Ottanta, ora cerchiamo affannosamente di recuperare i giovani con notti rosa e street parade. Metà dei 1.100 alberghi di Rimini, 2.300 in provincia su trenta chilometri di costa, sono in affitto, così i margini si riducono per proprietari e gestori, si investe meno e la qualità scende. Ora coi low cost stiamo recuperando parte dei tedeschi. Ma, soprattutto, fortuna che ci sono i russi...»
Già, fortuna davvero. Dall'anno scorso sono la prima nazionalità dopo gli italiani. Quella che più spende e non solo in letto e cibo, se negli hotel di lusso a ogni pulizia delle stanze gli inservienti spazzano via quintalate di sacchetti e scatole Gucci, Prada, Armani, Dolce & Gabbana. Al mercatino riminese del giovedì sera le turiste russe fanno fuori «anche gli ultimi pizzi e merletti, specie quelli più vistosi e d'effetto», nota la signora parigina del banchetto lingerie. E a Riccione tengono in piedi il rosario di negozi di alto lignaggio di viale Ceccarini. «Non ci fossero loro avremmo già chiuso tutti», tagliano senza giri di parole le sorelle Baleani, Lucia, Anna e Polly, due commesse madrelingua nel negozio di alta gioielleria e Lucia della maison di bijoux a scuola per imparare le cento parole chiave della lingua di Tolstoj: perché, quanto ai gusti, i clienti «si sono un po' italianizzati superando l'ossessione della griffe, del tutto-Versace o tutto-Dior, ma continuano a non spiccicare una parola d'inglese».
Anche l'indotto è dei meno prevedibili. Non solo i menù in cirillico, ma la webradio in russo sul sito della Provincia di Rimini, la rassegna quotidiana della stampa russa che trovi in vari stabilimenti balneari, e in lingua gli annunci degli altoparlanti tipo "ritrovato un bimbo di anni 6 costumino rosso". E i corsi: quelli di gnocco fritto e italici dolciumi frequentati 9 su 10 da signore moscovite; quelli per blinis e sbobbe alla panna acida che l'Associazione albergatori prova a organizzare per gli aderenti perché imparino a variare un po' le colazioni secondo i gusti dei nuovi ospiti; quelli di lingua russa con allievi i desk officer di alberghi e pensioni, 10 lezioni di 4 ore ciascuna.
Gemellata la rossa Rimini d'antan con la Sochi sovietica delle dacie di zar, Stalin e oggi Putin, dalla caduta dell'Urss quella attuale è la seconda ondata di russi. E la prima fu una fregatura. Negli anni Novanta arrivarono gli aspiranti oligarchi epoca Eltsin, magari rozzi ma straricchi e spreconi: «I negozianti si entusiasmarono, raddoppiarono i prezzi persino dei portacenere ricordo. Ma improvvisa arrivò la crisi del rublo, i russi sparirono, i negozi si svuotarono, molti chiusero. Impararono, forse non abbastanza, che bisogna diversificare l'offerta e la clientela», racconta Leopoldo Veronese, una vita al Grand Hotel di Rimini di cui è da un lustro il direttore. Dei suoi russi parla bene, «ormai s'intendono di vini e cibo, non scelgono più guardando solo il prezzo, hanno smesso di dire "io pago" come quando toccava rispondergli "perché, gli altri stan qui gratis?"». Piuttosto, quanto chiacchierano, le russe! In conciergerie c'è sempre almeno una persona madrelingua, e passa ore a spiegare tutto sullo shopping. In ufficio c'è invece una bella signora kazaka, Aizhana Zhantuarov, che per tutti i 12 hotel del gruppo (Batani, storia imprenditoriale da una pensione 2 stelle alla catena di lusso) cura proprio il mercato russo e repubbliche ex-sovietiche e ti racconta come funziona: «Intanto, prima dell'inizio della stagione, ospitiamo 3 mila tour operator e banconisti delle agenzie di viaggio...». Tremila, sì, non è una svista, se vuoi i turisti te li devi sudare.

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Rimini, Ukraina

E ormai il viaggio organizzato è solo due terzi del mercato, gli altri prenotano su Internet, il visto è diventato facile ottenerlo, viaggiano per conto loro. Così anche i tour operator diversificano, spiega Marina Nikitenko, capo in Italia di Tez Tour, in Russia uno dei due o tre grandissimi con decine di migliaia fra dipendenti e indotto: «Per noi l'Italia è ancora una meta secondaria, tutta da lanciare. Sì, il russo d'estate va soprattutto sui 4 stelle, ma non c'è più bisogno di esser ricchi per venire in vacanza da voi: da novembre a febbraio offriamo sette notti a 350 euro, inclusi colazione, viaggio, visto, escursioni giornaliere». Significa, anche se lei non lo dice, che dagli alberghi comprano pacchetti giornalieri 15 euro a persona. Le escursioni hanno per meta le città d'arte: Venezia, Firenze e la Verona di Romeo e Giulietta a tre ore di pullman. Ma anche le fabbriche: Ferrari e Lamborghini, arte quanto Giotto e Cimabue, e nelle Marche quelle di borse e scarpe, le russe ci vanno matte e comprano anche per i mariti. Un gran traffico c'è sempre verso gli outlet, cinque a tiro da qui, diversificati per prezzi e brand.
E la cultura, il Tempio Malatestiano con Giotto e Piero della Francesca, il Palazzo dell'Arengo, l'Arco di Augusto, l'altra Rimini al di là della ferrovia? Un altro mondo, dove i russi li conti sulle dita di una mano e anche il resto dei villeggianti non è che fanno la calca. Si zoppica persino su Fellini, somma icona: gli hanno intitolato l'aeroporto e il piazzale in faccia al Grand Hotel, le vie attorno si chiamano come i suoi film, c'è il birrificio Amarcord che produce le birre Gradisca, Volpina e Tabachèra, «ma non siamo mai riusciti a farne un prodotto turistico», si lamenta Alessandro Rapone, segreteria Cna (qui gli artigiani conglobano industria, nautica, moda e quant'altro); «la Fondazione che doveva gestirne l'eredità di materiali e disegni è sull'orlo del fallimento. Il cinema Fulgor dove andava da piccolo è ancora in ristrutturazione. Avevamo un festival del cinema e ce lo siamo giocati...»
Tutta un'altra storia quella dei tedeschi. Erano gli incontrastati dominatori della riviera del boom economico. Parsimoniosi, abitudinari, fedelissimi al punto che, racconta Laura Vici, ricercatrice di Scienze turistiche al campus di Rimini dell'ateneo bolognese e figlia di piccoli albergatori, «da noi venne trent'anni fa una squadra di pulcini di calcio e da allora saltano magari un anno ma tornano sempre, oggi coi figli! Per il resto, il mercato è cambiato ovunque, in modo radicale e strutturale». Caso simbolico, il suo, ma i numeri non sono più così rilevanti. È a nord, verso i lidi ravennati, che i tedeschi li trovi ancora maggioranza. «Più a maggio, giugno, settembre che nei mesi della calura, più in campeggio o residence che in albergo, più in un due o tre stelle che in uno di lusso. Amanti della natura, della tranquillità, dei monumenti e dei mercati di Ravenna ma capaci di passare un pomeriggio con un libro in mano davanti alla roulotte», li descrive Gianluca Bassani, presidente provinciale dei campeggiatori, dell'Adria, storico camping del 1968 a Casalborsetti, il più a nord dei lidi ravennati, famoso per le prime tedesche e svedesi.
Sparirono in un lampo, i tedeschi come gli altri, nel 1989 della mucillaggine: quando il mare fu invaso da alghe biancoverdi e «il giorno di ferragosto mi ritrovai in spiaggia a giocare a briscola coi dipendenti perché non c'era un solo cliente». Tornarono molto lentamente, e ora vai al supermarket di Paola Monticelli e Francesco Vicino (che tre anni fa hanno mollato l'Art Café di Rimini per venirsene qui) e ci trovi i cetrioli Fischer fatti a Sinbach, i Frankfurter Art Würstel in budello naturale imbarattolati a Edewecht senza i quali il teutone può morire di fame, e le imperdibili Brat-Kartoffeln, patate a fette sotto vuoto già condite pronte per la padella. Ma cosa trovano, patate e salsicciotti a parte? Non abbastanza, secondo Alberto Gemignani, ristorante Giumè a Casalborsetti, pontile di 180 metri sul mare costruito nel ‘64 su palafitte dal nonno Giovanni come capanno da pesca: «Cinque o sei anni fa i lidi erano tutta una festa e alle discoteche c'era la coda, oggi i buttadentro ti tirano a forza. La Bmw sembrava l'auto della casalinga media, oggi girano in Panda. La verità è che qui i proprietari hanno campato di rendita senza investire per rinnovare le strutture. Così alla prima mazzata della crisi il castello di carte è crollato».
È il guaio italiano, viviamo di turismo e cultura e non ci investiamo un soldo bucato, tra ministeri fantasma e strategie miopi. Il turismo tedesco ne è la perfetta cartina di tornasole. Vai a Ravenna, splendida, bizantina, Teodolinda e Sant'Apollinare, candidata a Capitale europea della cultura 2019, la sera in piazza del Popolo un fantastico spettacolo di giocolieri col fuoco e acrobati sulla Torre dell'Orologio. Ma così tratteggia la situazione Andrea Corsini, assessore al Turismo al Comune e presidente della neonata Unione di prodotto fra cento enti e consorzi dell'intera riviera romagnola: «Ai Sessanta non torneremo mai, però da tre anni i tedeschi hanno ricominciato a crescere, 5 per cento. A prezzo di forti investimenti in promozione: partecipiamo a tutte le fiere di settore, abbiamo un promoter in Germania, tessiamo rapporti coi tour operator, portiamo in giro copie dei nostri mosaici per le città tedesche, abbiamo a Porto Corsini un nuovo terminal per crociere che sostano un giorno». Quando gli chiedi il perché di tale abnorme ritardo, risponde: «Cecità. Ignavia. A Ravenna c'era il porto, la chimica, l'industria, i russi andavano altrove, i tedeschi venivano comunque...»


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